giovedì 21 novembre 2013

Sul significato del toponimo Linguagrossa

Il lettore G. Cappellano su questa rubrica (16/11) ci ammannisce una lezione sul probabile significato del toponimo LinguagLossa / LinguaGrossa? Posso assicurate il lettore, che l’argomento ha impegnato, fin dall’antichità il fior fiore di studiosi: Arezio, Brietio, Fazello, Omodei Maurolico ecc, non ultimi i nostri concittadini Calì e Cavallaro, alla ricerca della vera identità di Linguaglossa, la cui prima citazione compare in un decreto di Ruggero II del 1145. La ricerca verte anzitutto sull’origine del vero nome, che per secoli, fino al ‘8oo , è riportato nei documenti col nome di Linguagrossa (con la “erre”), poi ad opera di un certo Sac. Don Francesco Pafumi, ripresa qualche tempo dopo, da un altro tal Carmelo Maria Pafumi corretto con il nome di Linguaglossa (con la “elle).Il quesito è pertanto duplice: Linguaglossa o Linguagrosa? E quale il significato da attribuire? La soluzione del primo quesito non dovrebbe essere particolarmente difficile, se dall’origine (1145), fino all’’8oo il sito era chiamato Linguagrossa (con la “erre). Maggiori difficoltà presenta, invece, il secondo quesito, ossia il significato del toponimo che varia se si parte dal nome originario Linguagrossa o dal nome trasformato Linguaglossa, il cui significato di quest’ultimo è chiaro: ripetizione del sostantivo “lingua” più la traduzione dal greco dello stesso sostantivo, “glossa”. E’ sul significato del primo toponimo “Linguagrossa” che le in interpretazioni divergono, fino a scadere nelle leggende che nulla hanno di storico. Resta dunque il mistero,  per nulla “poco impegnativo”: perché Linguagrossa? Pubblicata su La Sicilia il 21.11.2013 Saro Pafumi

mercoledì 13 novembre 2013

Linguaglossa o Linguagrossa?

Linguaglossa o Linguagrossa?


E’ da tempo che a Linguaglossa centro etneo, vera porta dell’Etna, divampa la polemica sull’originario toponimo del paese: Linguaglossa o Linguagrossa? Una semplicissima “elle” in luogo di “erre” o viceversa, che se non cambia nulla in termini storici (sulle effettive origini si sa ben poco), cambia molto sul significato del toponimo. Le interpretazioni si sprecano e naturalmente differisco non poco se il significato da attribuirsi si riferisce all’uno o all’altro nome. Non mi attribuisco doti di studioso di storia “patria”, tuttavia mi permetto una semplice riflessione. Dagli studi sull’origine della cittadina pare che il suo nome sia riportato in un documento che risale al 1145 in cui si faceva riferimento a un “privilegio “ di Ruggero II in cui per la prima volta appare il nome di Linguagrossa. Tale nome resiste, con alterne vicende, se non vado errato. fino al 16oo/17oo, epoca in cui Linguagrossa assume definitivamente il nome di Linguaglossa. Mi chiedo: se nei documenti più antichi (1145/1600/ Linguagrossa è così denominata, ossia con la “erre” a posto della “elle”, cosa si aspetta per chiamarla definitivamente “Linguagrossa”, un toponimo peraltro riportato sul frontone del Palazzo Comunale, che illuminate, trascorse amministrazioni hanno voluto riportare e altre successive hanno mantenuto? Risolto questo primo problema il significato del toponimo, si semplifica.

Saro Pafumi Pubblicata su FB. Il 10.011.2013su La Sicilia il 12.11.2013

domenica 3 novembre 2013

Certe credenze......

Certe credenze….


da “Racconti di sera” di Saro Pafumi

Quella mattina la campana a morto cadenzata e straziante aveva suonato a lungo nella Chiesa dell’Annunziata.

Don Turi e donna Rosa, compagni da una vita, per raccogliere gli ultimi rintocchi avevano “appizzato” l’orecchio, piegandolo, con l’indice , in direzione del suono, per capire chi, uomo o donna , la sorte avesse, quell’oggi, estratto. Un tocco, due, pausa, poi un tocco, due. I rintocchi ripetuti erano due, due volte ripetuti, che secchi e penetranti trafissero, come sottile lama affilata, il petto di donna Rosa, avendo la sorte scelto, questa volta, una donna.

Don Turi e donna Rosa per un attimo si guardarono, muti, come per riprendere fiato, poi d’un tratto don Turi, con mano incerta aprì l’uscio della porta per vedere se per caso “la morte” era là, vicina.

Era da tempo che donna Carmela il cui uscio si apriva tre passi dopo la casa di don Turi diceva di “volersene andare”, dopo la morte del marito e senza figli, emigrati in Australia. Ma i panni che donna Carmela il giorno prima aveva stesi non c’erano, il che faceva bel sperare.

Ad andarsene, la sera prima, era stata donna Maria “a panittera”, improvvisamente, in punta di piedi, senza chiedere permesso a nessuno. Don Turi lo seppe, quasi subito, uscendo di casa, alla prima svolta del vicolo, dove donna Maria teneva bottega, dove poche persone, affrante, di buon mattino, bisbigliavano confuse parole, davanti alla saracinesca abbassata.

Don Turi fece ritorno a casa, con passo incerto, per avvertire la moglie, che nelle orecchie aveva ancora il suono della campana a morto.

Si sedettero vicini, in silenzio, tenendosi per mano.

Poi d’improvviso donna Rosa, emanando un lungo respiro represso, come per liberarsi di un peso che aveva sullo stomaco, sbottò:“ E gli altri due, chi pensi che saranno?”







“ Gli altri due ?” replicò, stupito, il marito. guardandola negli occhi “.

Perché ti sei scordato che quando nel quartiere muore una persona, se ne tira dietro altre due?”.

“ Già” rispose il marito, “ ma, noi grazie al cielo, godiamo ottima salute”.







“ E donna Maria? replicò la moglie “ Non pareva che assieme al pane vendesse salute? Eppure, se ne ‘è andata senza dir nulla. La morte quando ti deve prendere, non guarda in faccia nessuno, giovane, vecchio, malato o sano che sia”.

“Rosa” disse il marito, per cambiare discorso e con tono risoluto: “ Mettiti qualcosa addosso e andiamo a fare visita a quella sventurata, perché non possiamo fare finta che nel quartiere non è successo nulla e poi donna Maria è una vita che ci forniva il pane appena sfornato”.

Donna Rosa prese uno spolverino che teneva nell’armadio, lo indossò, si annodò ben stretto il fazzoletto che le cingeva il capo e assieme si diressero verso casa di donna Maria dove il parentado e tutto il quartiere s’era riunito.

Il feretro era stato sistemato, all’entrata nella prima stanza dopo l’ultima rampa di scale, tutt’intorno i parenti avevano sistemato alcune sedie, perché chi voleva fermarsi avesse il tempo di recitare almeno un Ave. Il resto dei presenti era disposto sui gradini della scala, perché la casa di donna Maria, era quella che era, piccola, appena una “saliera”.

Don Turi salendo per le scale, seguito dalla moglie, più che il pensiero per la morta, un altro lo turbava: capire, tra gli astanti, chi poteva essere “il secondo ad essere chiamato”, visto che quasi tutto il quartiere era lì riunito. Dispensava strette di mano a destra e a manca, ma sotto sotto cercava di scrutarne gli sguardi, per capire se qualche indizio lo potesse tranquillizzare.





“Hai visto comare Mena?” disse alla moglie, una volta tornati a casa, “Si è mangiata la carne addosso, era irriconoscibile , grande e grossa, una volta, com’ era”.

E don Franciscu, u scarparu”, replicò la moglie, quasi compiaciuta “ non hai visto che sembrava un Lazzaro resuscitato; s’era fermato in fondo alle scale perché di salirle gli mancava il fiato”.

Quelle riflessioni avevano dato coraggio a don Turi e a donna Rosa che contavano i giorni dalla morte di donna Maria, perché secondo quell’antica credenza erano trenta i giorni entro cui ci sarebbero state la seconda e la terza chiamata.

Intanto, a distanza di dieci giorni dalla dipartita di donna Maria “una voce” s’era sparsa nel quartiere con la velocità del fulmine e il rumore più forte di una bomba. Si diceva che in Australia il figlio maggiore di donna Carmela aveva per un incidente perso la vita.

Don Turi, saputolo al circolo dei pensionati, tra di sé, tirò un sospiro di sollievo e commentando la notizia, le uniche parole che riuscì a pronunziare furono: “povero figliolo” per non dare adito ai presenti che la notizia, nonostante tutto, lo tranquillizzava.





Il conforto durò poco, perché don Turi ritornato a casa e riferitolo alla moglie, non fu certo se quella morte così lontana, dovesse essere esclusa dagli abitanti del quartiere, come donna Rosa sosteneva, perché se era vero che il figlio di donna Carmela era nato e cresciuto in quel quartiere, in Australia da oltre cinque anni era emigrato e là era deceduto.

Il dubbio di donna Rosa fece ripiombare don Turi nell’angoscia, perché annullando quella morte sia pure ingiusta, il conteggio doveva essere rifatto e di giorni ne rimanevano solo venti.

Intanto l’attenzione di Don Turi e donna Rosa si concentrava sempre di più su donna Carmela, che vecchia, sofferente e distrutta per la prematura morte del figlio la morte la desiderava più di ogni altra cosa.





Don Turi e la moglie, in verità, non desideravano la morte di nessuno nel quartiere, ma quell’oscura credenza che trovava spesso riscontro nella realtà non li faceva dormire di notte e vivere di giorno.

E venne quel giorno, il ventiduesimo dalla dipartita di donna Maria.

Questa volta toccò veramente a donna Carmela che la morte del figlio aveva accelerata.

Don Turi e la moglie ne rimasero sinceramente addolorati, ché se anche quella di donna Carmela, era una morte annunciata, ancora una volta la credenza trovava conferma e quella stretta vicinanza a soli tre passi dalla loro casa, la morte li avvicinava.

Doveva con la morte di donna Maria, del figlio di donna Carmela e di donna Carmela ritenersi, nel quartiere concluso l’infausto rito della sequenza mortale?

Negli otto giorni mancanti, tutto poteva accadere, pensò don Turi, che a differenza della moglie, data la sua età, si riteneva l’eventuale prescelto, nel caso in cui i conti non sarebbero tornati.

Nulla disse alla moglie del suo dubbio e del suo affanno, ma nelle orecchie sentiva avvicinarsi a passi felpati la morte, distante appena tre passi.

Di buon mattino tirò fuori da sotto il letto due vecchie valige che, apertele, sistemò sopra il talamo.

Disse alla moglie di preparare poche cose da portare, perché quello doveva essere un giorno da festeggiare.

“Non ti ricordi” disse don Turi, alla moglie, incredula e sorpresa, “che il giorno delle nozze, “lo stretto” ti avevo promesso di farti attraversare?”.















“ Si. ma, poi, non se ne fece nulla per via che iniziò la guerra e là non ci potemmo andare.” lo riprese donna Rosa, con l’aria di chi a quella promessa non aveva rinunciato mai.

“Oggi, è quel giorno”, replicò don Turi mentre con affanno chiudeva le valige dove la moglie aveva riposto le poche cose da portare.

Presero un treno sbuffante che li accompagnò fino a Messina, un viaggio di quattro ore, interminabile, e man mano che quel convoglio ferroso, faticosamente sferragliava, don Turi sentiva allontanarsi sempre più l’odore acre della morte.

Sul ferry-boat, mentre la prua sguazzava spumeggiante e la brezza marina accarezzava i loro volti, il vento pareva portarsi via le ore i giorni e i cattivi pensieri.

Don Turi, per un attimo, si sentì giovane come il giorno delle nozze. Col suo braccio cinse il collo di sua moglie e la baciò.

Il breve tratto di mare che divideva la Sicilia dalla Calabria don Turi voleva che avesse il diametro del sole, perché su quella barca ondeggiante in mezzo al mare si sentiva sicuro, che la morte, lì, non li avrebbe cercati.

Quando tre fischi lunghi annunciarono l’approdo Don Turi non si scompose. Sollevate le valige discese seguito dalla moglie la scaletta che li conduceva al porto.

La stanza d’albergo che li attendeva fu, per dieci giorni , due giorni in più per scaramanzia, il loro nido d’amore.

Prima di fare ritorno a casa Don Turi chiese notizie ai parenti rimasti in paese se qualche dipartita, per caso, c’era stata nel quartiere.

Avutane risposta negativa , fecero ritorno, perché se la credenza era scienza la morte aveva bruciato il suo tempo.

Don Turi, in verità, non ci pensava più di portare la moglie in giro di nozze, ma a causa di quelle morti, così vicine, di necessità aveva fatto virtù.

A quella credenza don Turi ci credeva, come sapeva che quella morte, don Turi, veramente la temeva: Perciò, senza dirlo alla moglie, per pudore, aveva pensato, in fondo, che: “il fuggir non è vergogna, se a salvar la vita serve”.

Saro Pafumi

venerdì 25 ottobre 2013

La foto sulla patente

La foto sulla patente


Una delle leggi che la Repubblica Italiana ha dovuto recepire dall’Unione Europea, riguarda le caratteristiche delle foto da inserire nelle patenti di guida. Oltre alle tante caratteristiche indicate: qualità della fotografia; stile e illuminazione; occhiali e copricapo; una in particolare è vivamente raccomandata : l’espressione e l’inquadratura.

Secondo quest’ultima raccomandazione l’espressione dev’essere neutra e il candidato deve avere lo bocca chiusa ( niente sorrisi, si legge nella nota) e gli occhi aperti e ben visibili. Secondo questa disposizione mi immagino lo sforzo che deve fare, per sembrare “neutro” un tale che si è guadagnato l’appellativo di “uomo che ride” per quel suo atteggiamento assolutamente naturale di spontanea ilarità;

oppure quel tale chiamato “ ucca storta” perché fin dalla nascita una smorfia gli scolpì l a bocca, deviandola;

oppure ancora “ denti ‘i cani” al quale due incisivi impertinenti gli fuoriescono dalla bocca come un dragula assetato;

e ancora “ occhiu sghei” un tale con una palpebra perennemente socchiusa.

o che di re di “ ucchitti” che presenta due sottili pertugi a posto di due occhi ben aperti.

O “ aricchi ‘i sola” a causa di due orecchie ad ali di farfalla che sicuramente non entrano nell’inquadratura: e “occhi a pampanedda”? e altri ancora?

E che fine dovrà fare “ turi u cchiù” che non sorride, ma non si può dire che abbia lo sguardo neutro, se truce è.

Mi immagino il solerte funzionario con le foto in mano di questi soggetti raffigurati, interrogarsi e consigliare: un espianto, un’operazione chirurgica, un trapianto ? O più semplicemente dover la patente rifiutare?

Oh beffarda natura, che ti sollazzi,//talvolta,//a rendere “segnata” la faccia umana,//risparmia almeno il cervello di chi le leggi emana!//. Saro Pafumi



giovedì 24 ottobre 2013

I trucchi del mestiere. Quando la laurea si conquista in campo.

I trucchi del mestiere. Quando la laurea si conquista in campo


Da “ Racconti di sera” di Saro Pafumi

Don Nino un mestiere l’aveva e con quello ci campava bene, lui e la sua famiglia, ma a tempo perso faceva anche il consulente, niente di meno che per la forestale, perché ciò che lui sapeva di alberi e di legname non era noto a tutti, nemmeno alla stessa forestale.

A quei tempi non era infrequente che qualcuno rubasse qualche albero di pino nella nostra pineta. La gente povera doveva pur riscaldarsi e se anche gli usi civici consentivano ai linguaglossesi di fare legna nel Bosco Ragabo, un bel tronco di pino non era possibile tagliarlo. Avveniva , perciò, che, nottetempo, qualcuno, privo di scrupoli, sfidasse la sorveglianza della Forestale, riuscendo a trafugare qualche alto pino da portare.

La cosa era risaputa, ma la Forestale non riusciva mai a trovare il furfante sul fatto, per cui i tagli furtivi non soltanto non diminuivano, anzi, col tempo, sempre più s’incrementavano.

La ragione era semplice. Chi procedeva al taglio, di solito lo effettuava scavando una parte del tronco sotterrato, in modo da nascondere il taglio, per poi ricoprirlo, mettendo a posto terra, foglie e aghi di pino, così da nascondere il misfatto. Scoprire un taglio così effettuato era difficile e la Forestale non possedeva l’esperienza per farlo. Solamente don Nino riusciva col suo acume a scoprire il luogo e il furto. Come? Si accompagnava, percorrendo lunghi tratti a piedi, col Comandante della Forestale, al quale di tanto in tanto diceva: “qua manca un albero, più avanti un altro”, basta scavare” La circostanza era maledettamente vera, ma il Comandante di turno non riusciva a capire come don Nino potesse essere così preciso, per cui sospettoso com’era ,si domandava: “ Vuoi vedere che proprio don Nino è l’autore del misfatto?”. La cosa durò a lungo, finché un giorno don Nino, stufo di fare il consulente si decise finalmente a confessare non quello che pensava il comandante, ma il segreto della sua arte.

“Tu cerchi a terra” disse al Comandante, “mentre è in alto che devi guardare.

“Lo dici per celia o per farmi arrabbiare?”, chiese il Comandante.

“Niente affatto” rispose don Nino, con riso beffardo. “Guardando in alto scoprirai che, da un lato alcuni alberi mancano dei loro rami. Segno di uno sfregamento con l’albero che era a fianco e ora non c’è. Scavaci di sotto e capirai il perché”. Don Nino, ora è morto, ma generoso com’era, sapeva che quel segreto lo doveva tramandare, perché quando la pineta è di tutti, nessuno ha il diritto di rubare. Saro Pafumi

mercoledì 23 ottobre 2013

U vanniaturi di ieri e di.....oggi.

U vanniaturi di ieri e….. di oggi.


da “ Racconti di sera” di Saro Pafumi



Chi ha una certa età, si ricorderà certamente che a Linguaglossa decenni or sono, quando la mattina presto arrivava da Riposto o da Giardini il pesce, faceva la sua comparsa per le strade del paese “ Ninu lapollu, u vanniuturi”che con voce squillante, resa ancor più acuta dal vezzo di mettersi il palmo della mano dietro l’orecchio, annunziava l’arrivo delle freschezze ittiche: “U palaaaaamidu. u palaaaamidu, arrivau!”, “u pisci vacca, u pisci vacca, a picca sordi”. Finita a “vanniata”, “un quattruni” di sarde ( del giorno prima) il compenso per la sua fatica canora. Oggi, se dovesse ricomparire “Ninu lapollu, u vanniaturi” da l’aldilà, dove la sua anima riposa, il canto avrebbe un diverso contenuto: “Cupirtuni, lavatrici, matarazzi e mobili vecchi, arricugghitivi!!”. In ogni angolo recondito di certe strade si può trovare di tutto: tavuli, trispiti, calascinni arruggiati, buttigghiuni ccu coddu e senza coddu, dammiggiani cca pagghia e senza pagghia, Un vero emporio, un supermercato all’aperto dove rovistare, frugare e cercare un briciolo d’educazione civica è come trovare una pipita d’oro. Ben visibili, invece, tra mille cose inutili e sparpagliate con ragionato scempio si trovano mescolate ed abbondati la maleducazione, l’inciviltà, la villania, la rozzezza, la barbarie di un consumismo smodato che fa dell’uomo moderno un “signore” che indossa un vestito in doppio petto, sopra un costume di pelli d’animale.



Saro Pafumi

lunedì 21 ottobre 2013

Le incertezze del quotidiano

Le incertezze del quotidiano


Sarebbe opportuno abolire dal vocabolario due avverbi: “si” e “no” che in genere sono usati per esprimere affermazione o negazione nelle risposte, sostituendoli con un secco “forse” che li raggrupperebbe entrambi. Il perché dell’innovazione? In quest’epoca d’inganni non esiste alcuna certezza, intesa come parola data, come puntualità, come interpretazione di una norma, come evento certo. Questa incertezza quotidiana comprende quasi tutte le azioni umane. Per dirla con Lorenzo de’ Medici: “ Chi vuol essere lieto, sia: di doman non c’è certezza”. Purtroppo però il Medici lo scrisse nella seconda metà del quattrocento e si riferiva al futuro. Oggi l’incertezza riguarda anche il presente e abbraccia tutto: lavoro, pensione, tasse, diritti, ideali, speranze. L’affermazione o la negazione sono sempre accompagnate dal beneficio d’inventario. Il dubbio è diventato ragione di vita, lo scetticismo la stella popolare di ogni azione umana. Il cervello umano è un frullatore di interrogativi, dove i si e i no si mescolano formando una melassa d’incertezze che crea disagio, scoramento, disistima Non potere programmare genera disabilità mentale, specialmente nei giovani che vivono la loro condizione come un buco nero, una stagione senza tempo. Senza poter programmare il proprio destino, la vita si riduce a semplice attesa che è diventata la principale occupazione dei giovani, il mestiere per vivere o più correttamente per sopravvivere. Questa triste condizione di vita che abbiamo regalato ai nostri figli, fa si ch’essi siano risucchiati nel gorgo della delusione, dove ogni attimo perduto nell’attesa è un attimo di felicità sprecato, un sogno infranto, una speranza sprecata. Abbiamo rubato ai nostri figli il diritto di credere nel tempo: il futuro. “Forse un mattino andando in un’aria di vetro arida, rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo: il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro di me…..” Chissà se Montale nel comporre questa splendida poesia pensava ai giovani d’oggi. Pubblicata su La Sicilia oggi 21.10. 2013

Saro Pafumi

sabato 28 settembre 2013

Il sesso debole

Il sesso debole


Si è sempre detto che il sesso debole appartiene alle donne. Un’affermazione tutta da verificare, perché conoscendo la forza, le fatiche e i sacrifici delle nostre madri e delle nostre nonne, parlare di sesso debole riferito alle donne è improprio, a meno che…… A meno che per sesso debole s’intende la subalternità delle nostre madri ai loro padri e poi ai loro mariti, nei confronti dei primi in virtù di un atavico sentimento di rispetto e nei confronti dei secondi per tenere unita la famiglia, che solamente la donna-madre con la sua abnegazione e le sue virtù riesce a portare avanti e preservare. A pensarci bene oggi quell’antico luogo comune va ribaltato, identificando il sesso debole con il genere maschile. Le attuali condizioni femminili sono del tutto cambiate, in primo luogo perché la donna ha finalmente conquistato una certa autonomia economica e culturale, in secondo luogo perché il vincolo del matrimonio non è legato alla sua indissolubilità, prova ne sia la facilità con cui questo vincolo è reso solubile.

Le attuali vicende delittuose definite “femminicidi”, dimostrano, se ce ne fosse bisogno, il definitivo tramonto dell’antico concetto di maschilismo, inteso come presunta superiorità dell’uomo sulla donna (se mai ci fosse stata), assegnando al genere maschile l’attributo di sesso debole. Che cosa sono questi continui, orrendi femminicidi, se non il segno tangibile di una deriva maschilista? Essi mostrano l’incapacità del maschio di sapersi o potersi affrancare dalla presenza femminile intesa sia come soggetto, oggetto o puro strumento, ma comunque paurosamente necessaria alla sopravvivenza maschile. Una condizione di rovesciata subalternità, che fa l’uomo prima che carnefice, vittima di se stesso, con le sue debolezze e fragilità. E’ su quest’ultime che occorre educare l’uomo, insegnandogli ad affrancarsi dalle sue paure, ma anche e soprattutto a sapere conquistare la sua piena autonomia esistenziale, nella quale la donna da tempo immemorabile conserva il suo indiscusso primato.Saro Pafumi

mercoledì 25 settembre 2013

La vendita di cibi in strada è qualcosa d'indecente

La vendita di cibi in strada è qualcosa d’indecente.


L’indecenza di vendere cibi per strada è una tradizione che affonda le radici in epoche lontane. Qualunque sia l’origine araba, greca o romana poco importa. Quello che colpisce e stordisce è la permanenza di quest’abitudine che non trova riscontri in paesi civili. Per fortuna qualcosa si è fatto in quest’ultimo cinquantennio, basti pensare a quanto accadeva fino a pochi decenni addietro. Allora, ricordo, i macellai avevano l’abitudine di appendere la carne macellata all’esterno delle botteghe. I “quarti” di vitello penzolavano ancora sanguinanti dal gancio che li sosteneva, assediati da sciami di mosche e vespe alle quali era assicurato il privilegio di assaporarli anticipatamente. Chi aveva un certo pudore usava l’accortezza di deporre ai piedi dei “quarti” una vasca per la raccolta del gocciolamento che abbondante defluiva, col disgustoso risultato che l’espediente comportava il richiamo di un’enorme quantità di altri insetti. Il pubblico abituato a queste antiestetiche visioni, entrava e comprava. “ A merci esposta è menza vinnuta”, poco importa se a portarsi a casa era anche un groviglio di escrementi che gli insetti depositavano. All’epoca la fame era tanta, la carne, un lusso, l’igiene, un capriccio. Oggi la vendita degli alimenti per strada offre la medesima visione di cinquant’anni addietro. Non si vedono i “quarti” che pendono, ma si cucina di tutto e ogni città ha un proprio nutrito menù: u pani ca meusa, i stigghiola, i babbaluci, a quatumi, i cacocciuli arrustuti, u purpu bugghiutu. I gas di scarico che corrodono anche le pietre, si depositano soavemente sui cibi cotti per strada e il tutto va a finire nel ventre dello stomaco. In compenso com’é caratteristico questo modo di cucinare: gli stranieri ne vanno matti e le foto si sprecano, ma non ho visto un solo straniero accostarsi per “gustare il prototipo” fotografato. La foto serve per altri scopi : per fare vedere chi siamo, come viviamo. Guai a parlar male di queste consuetudini. Il men che ti possa capitare è buscarti l’epiteto di persona snob”, con la puzza sotto il naso, che non ama le tradizioni. Poi, se entri in un supermercato, l’igiene ti obbliga ad indossare un paio di guati di plastica per prendere la frutta scelta. Non c’è che dire. Siamo i campioni delle contraddizioni, i fautori delle consuetudini più retrive, i sostenitori dell’igiene “alternata”, i narcisisti dell’obbrobrio. Meglio stenderci sopra un pietoso velo sopra e……

Pubblicata su La Sicilia il 25.09.2013 Saro Pafumi.


martedì 24 settembre 2013

La fontana muta di Linguaglossa

La fontana muta di Linguaglossa


Quando a Linguaglossa l’amministrazione “rossa”, alla fine degli anni cinquanta, fu assalita dalla voglia di costruire fontane pubbliche, quelle “artistiche” per intenderci, le scelte caddero su due quartieri: San Rocco e Piazza S. Francesco.

La prima detta “ dei mori”, dopo alterne vicende legate alle solite beghe politiche, ha avuto una sorte altalenate: chiusa, ripristinata, devastata, ripristinata, oggi è funzionante, ma sulla cui durata nessuno ci può giurare, perché a Linguaglossa come in tutto il Bel Paese, le cose s’incominciano, ma dopo un periodo di relativo fervore, si abbandonano.

E’ la malasorte toccata a quella di Piazza S. Francesco, che dopo la nascita ha perduto l’uso della parola, qual’ è una fontana dalla quale inspiegabilmente non zampilla acqua. Eppure, con le moderne tecnologie non ci vorrebbero grandi cifre per ridarle “voce, perché una fontana che ha perduto la sua funzione col suo festoso zampillare è segno di depressione per la comunità tutta che l’accetta in questa sua nuova veste di struttura inabile.

La fontana di S. Francesco con la sua funzione perduta non rappresenta più una fonte di vita, ma un monumento all’indolenza eletta a sistema, nella quale, Linguaglossa, da tempo, è piombata. A Linguaglossa siamo originalissimi: accanto alla “fontana dei mori” abbiamo inventato la “fontana muta”. Intanto, per cominciare, si potrebbe usarla per fare stagionate la salsiccia, noto prodotto locale, che, appesa, richiamerebbe frotte di turisti. La macelleria è a due passi. Pubblicata su Fb il 24.09.2013Saro Pafumi

domenica 22 settembre 2013

Quelle sere d'inverno, attorno al braciere da "Racconti di sera" di Saro Pafumi


Quelle sere d’inverno, attorno al braciere.


da “Racconti di sera” di Saro Pafumi



Non era il braciere attorno al quale, finita la fatica, si raccoglievano che li riscaldava, ma la loro condizione di sofferta fratellanza che li accomunava. Riposarsi, con la schiena rotta dopo una giornata di lavoro e dopo avere consumato l’ultimo boccone di pane, tagliato col coltello a roncola, che chissà quante cipolle aveva affettato, era come trovarsi in paradiso. La stanchezza non si leggeva sui loro volti o, se c’era, era smorzata dal buio della stanza illuminata da un piccolo lume a petrolio e annebbiata dal fumo dei sigari che quei contadini accendevano uno dopo l’altro. Ciascuno aveva la sua storia da raccontare ,triste, come la vita che il destino gli aveva cucito addosso. Ragazzino, in mezzo ai contadini, che dissodavano le terre dei miei genitori, la sera, attorno a quel braciere, vivevo le loro storie con il fiato sospeso, come se il mio respiro dipendesse da quei racconti. Se qualcuno, raccontata la sua prima storia, si fermava per scavare nella memoria, si sentiva solo il guaiolare di qualche volpe di passaggio e l’abbaiare dei cani che, invano, la inseguivano. “Poi ?” Chiedevo, come un assetato che beve alla fonte del sapere. Quel “poi” infrangeva d’incanto quel silenzio tormentato e giù altre storie da raccontare, perché il contadino questo ha di bello: non scrive, non legge, ma racconta cose vissute con la stessa forza e passione del migliore romanziere.

Don Turi, il più vecchio, con la sua giacca mezza scucita, posata sulle spalle, era il più triste. La morte della moglie se l’era cucita addosso, come un abito da indossare, e con quell’abito menava la vita tutti i giorni, dall’alba al tramonto, curvo sul piccone, per dissodare non la terra, ma i ricordi più belli vissuti con la moglie. Nei suoi racconti il nome di Maria, la moglie, aveva il sapore dolce dell’amore. Poi, per non rinverdire con quel nome lo strazio che aveva nel cuore, usava dire “Lei” sollevando l’indice, come per chiamare testimone quella creatura ch’era volata anzitempo in cielo.

Donn’Affiu, un omone dall’età indefinibile, parlava invece della sua infanzia. Disgrazie ne aveva da raccontare. Aveva perso il fratello di vent’anni , ch’era saltato in aria mentre sistemava l’innesto per fare esplodere una mina nella galleria dove lavorava. Il padre non voleva sentirne di aiutare la nuora, vedova con due figli da sfamare, perché non aveva condiviso la fuitina del figlio che quelle braccia, a sentir lui, doveva ancora impiegare per mandare avanti la famiglia che l’aveva messo al mondo. Così donn’Affiu s’era visto costretto a “rubare” in famiglia per mandare avanti quelle tre sfortunate creature. Era lui ,la mattina, che strigliava e “governava” l’asino e lo stallatico doveva rimuovere per farne un cumulo, che nella vigna al momento giusto bisognava sotterrare. D’accordo con la madre, che negli occhi innocenti di quei suoi piccoli nipoti vedeva il volto straziato del figlio strappato al suo cuore, donn’Affiu nascondeva un pane, avvolto nella carta, tra il letame, che, non visto dal padre, finiva in bocca a quei tre disgraziati. Poi, era un chilogrammo di fave o di ceci a fare la stessa sorte. Quando un giorno il padre tirò le cuoia, il destino di quelle creature mutò. C’era quella famiglia infranta da salvare e donn’Affiu pensò bene di sposare la cognata. Giurò sull’altare di non volere altri figli, per non confondere col suo sangue l’affetto viscerale che nutriva per quelli del fratello. Un sacrificio che il Buon Dio ricambiò regalando a donn’Affiu un corpo grosso, ma un cuore più grande ,una salute di ferro e una famiglia in prestito dove non mancava mai pane e amore.

Don Vicenzu, il massaro, che ci ospitava, aveva, intanto, già fatto tre giri di vino, riempiendo i bicchieri fino all’orlo, perché, si sa, l’offerta del vino è segno di ospitalità, ma serve anche per sciogliere la lingua e addolcire i pensieri. L’abitudine di riempire i bicchieri fino all’orlo era, allora, caratteristica dei contadini, che con quel gesto, a onta delle regole di buona creanza, indicava segno di generosità. Quelle storie don Vincenzo le conosceva a memoria, perché non era solo il lavoro che divideva con i compagni, ma anche le pene, che in silenzio ascoltava.

La moglie del massaro, donna Lia, se ne stava in disparte, a rammendre. Come facesse a cucire con quel buio pesto nella stanza, annerita dal fumo, era un mistero tutto femminile. Ascoltava in silenzio, anche se talvolta un incomprensibile brontolio tradiva la voglia di dire la sua, che a malapena tratteneva. “Quei racconti erano cose da uomini, sì, per Dio”, pensava, “ma perché alla donna era consentito di parlare solo sotto le lenzuola?”

Itanu, il più giovane, per timidezza o per rabbia si mangiava le unghie e con esse la terra che quelle unghie avevano catturato, strappando ciuffi d’erba dai muri infestati di parietaria. Era dovuto tornare in fretta dall’Australia perché il padre era morto, lasciando la moglie incinta e tre figli piccoli ai quali bisognava dare da mangiare. Quando partì, qualche anno prima, aveva appena compiuto diciotto anni e il costo del biglietto aveva dovuto rimediarlo dalla generosità dei parenti. Sulla nave nemmeno un soldo in tasca e viverci un mese quando durava la traversata, era come attraversare, senz’acqua, il deserto su un cammello. Solo acqua e pane che qualche cameriere di bordo, per pietà, gli rimediava. Quando arrivò al Porto di Brisbane, senza i cinque chili che aveva lasciato per digiuno sulla nave, la felicità gli aveva tolto persino il morso della fame. Aveva così tanto metabolizzato l’acqua salata del mare che gli venne solo una gran voglia di bere. Qualcuno sulla nave gli aveva insegnato qualche parola d’inglese: Working, bread, soda Water. Solo quest’ultima ricordava, ma pronunziandola “situata” non trovava nessuno che lo aiutasse a dissetarsi. Quando, morto di sete, senti alle spalle che qualcuno parlava la sua lingua gli parve di non essere mai partito dal paese. All’estero, a quei tempi, la fratellanza era un obbligo e così Itanu, grazie a quei paesani trovati lì, per caso, trovò pure il lavoro. Scaricava cassette di frutta che non aveva mai visto, né sapeva come si chiamasse. Quando il sabato il padrone della farm lo pagava, egli metteva in tasca quel denaro incomprensibile, senza contarlo. Lo guardava come se non gli appartenesse, perché dall’altra parte del mondo c’era qualcuno che lo aspettava. Poi l’incanto si spense, i sogni svanirono, il ritorno al paese si fece pressante. Adesso era li, attorno a quel braciere, in mezzo ai suoi compagni a raccontare il suo breve sogno australiano. Costretto, suo malgrado, a legarsi la zappa alle mani, quella zappa dalla quale, forse, non s’era staccato mai.

Donna Lia, intanto, finito di rammendare, aveva accorciato lo stoppino del lume a petrolio, non si sa per risparmiare o per dare il segno che bisognava andare a dormire. Il pagliericcio, accanto alla stalla, era lì che attendeva le membra stanche di quei disgraziati. Un altro giorno di fatica li attendeva, io altre storie d’ascoltare.

Saro Pafumi

lunedì 9 settembre 2013

Tempo di funghi

Tempo di funghi


A frotte invadono valli e monti, i cercatori di funghi. All’alba, s’inerpicano su per le montagne in cerca dell’odoroso porcino. Sembrano volenterosi che partono per la guerra. Cercano, frugano, scavano in ogni dove, con ardore e fiuto, mai sazi del raccolto sottratto alla benefica natura. Le ceste ricolme non si contano, ad onta della legge che impone limiti precisi. La stagione è propizia e quando il raccolto è abbondante, non c’è legge o regolamento che tenga. Anche se il cofano dell’auto è pieno, l’ingordigia suggerisce un’altra ricerca, come se un ultimo porcino, che non vedi, ma avverti, è là ad aspettarti. Maledici l’ombra della sera che, benefica, incombe a difesa della natura, da quello scempio senza fine. Poi sazio, ma non troppo, fai riorno a casa. Ormai quel raccolto, rubato alla natura, disteso sul tavolo della cucina non fa più storia. Una nuova, programmata, necessaria incursione agreste ti toglie il fiato e attendi che la notte, veloce, passi, perché per un cercatore la corsa al fungo è senza fine, come il desiderio smodato e incontrollato dell’uomo, che, da sempre, il frutto agogna senza fatica.

“Oh, guata un fungo, e quindi un altro: oh quanti funghi

Usciti son per tutto, appena han vista quella poca di piova” (Leopardi) cantarella felice, non sazio il cercator, tra foglie e rami che la terra coprono.

Saro Pafumi



mercoledì 4 settembre 2013

Pochi ospedali? Forse troppi e male organizzati

Pochi ospedali? Forse troppi e male organizzati.


“Un vecchio che vive in un piccolo centro abitato lontano dai grandi ospedali”, come Linguaglossa per fare un esempio ( ma il paragone regge anche per altr5i piccoli centri)”, mi faceva notare don Sarbaturi Sciarmenta, contadino doc, noto per la sua proverbiale saggezza, “quando pensa alla morte, lo fa in modo pessimistico per due ordini di ragioni: in primo luogo perché la morte, sentendola vicina, la considera un affare serio, come altrettanto serio è immaginare come morire.



“Vediamo quello che mi può capitare” aggiungeva don Sarvaturi Sciarmenta “se mi dovessi sentire male. Il primo pensiero dei miei parenti è di accompagnarmi al pronto soccorso che è il posto più vicino. Poiché in genere nei pronti soccorsi di paese se cerchi la fiala non trovi la siringa e se hai la siringa non trovi la fiala, il medico di turno si limiterebbe a darmi una sbirciatina e abbozzando l’espressione di chi intende dire: "Ma a mia ccu mi ci porta nta ci centu missi” consiglia i miei parenti di ricoverarmi nell’ospedale più vicino (da noi, a Giarre), senza nemmeno chiedersi, se ho il tempo d’arrivarci.



A sirena spiegata si parte per l’ospedale indicato (Giarre. Andare a Taormina non si può)). Ma se le condizioni sono serie o richiedono interventi specialistici anche questa seconda tappa si rivela inutile. Si corre quindi verso altro ospedale, d solito Acireale. Ma anche qui i reparti specialistici non sono completi, per cui non resta che recarsi a Catania”.



Con molto buon senso don Sarbaturi Sciarmenta, aggiungeva: “ Come si vede la situazione non è piacevole Che fare?



1) “Si potrebbero abolire le tappe intermedie, di solito inutili, guadagnando tempo prezioso;



2) Si potrebbe confidare nella Divina Provvidenza o rassegnarsi al destino. In fondo, morire mentre si corre verso l’ospedale” concludeva don Sarbaturi Sciarmenta “è come scegliersi una “morte sportiva “.



Che bella metafora quella di don Sarbaturi Sciarmenta. Ironia o amara saggezza? Forse la paura di ciò che può avvenire e, purtroppo, avviene, fatti i debiti scongiuri, vivendo lontano dai grandi ospedali o vicino a quelli, che potenziati non sono, e quindi inutili.

Come dargli torto.



Saro Pafumi

domenica 1 settembre 2013

I dieci comandamenti per chi reca in un ufficio


I Dieci comandamenti per chi si reca in un ufficio

Primo: Fai uso di camomilla per affrontare con calma e serenità il travaglio che ti attende.

Secondo: usa la gentilezza nel rivolgerti all’impiegato: “ Scusi se la disturbo e la distolgo dai suoi onerosi impegni, ma ho una domanda da rivolgerle (segue quesito).

Terzo: essere brevi e concisi perché solo per il pubblico impiegato il tempo è denaro.

Quarto: abbassare ripetutamente il capo , in silenzio, per ogni documento richiesto.

Quinto: non chiedere mai se l’elenco sia completo, perché lo saprai, dopo le tante volte che ti sarai recato presso lo stesso impiegato, aggiungendo o intercalando nuovi documenti.

Sesto: confidare nella fortuna, perché se l’impiegato con cui hai trattato la pratica è assente, sostituito o trasferito, devi, come nel gioco dell’oca, iniziare tutto d’accapo.

Settimo: non chiedere mai il tempo che ci vorrà per l’espletamento della pratica. L’impiegato, in questo caso allargherà le braccia che, bada, non è segno di sconforto, ma un indicatore senza tempo.

Ottavo: annota i giorni e le ore di ricevimento, perché ogni ufficio ha la sua tabella di marcia, salvo s’intende riunioni sindacali, blocchi telematici, ponti, assenze per malattia, quali: starnuti, naso che cola, mal di schiena, raucedine, stress post-festivo …..

Nono: evitare i mesi di luglio e agosto, che nei calendari del pubblico impiego, sono soppressi e non recarsi negli uffici pubblici prima o dopo il periodo feriale e nei giorni che precedono o seguono le festività natalizie e pasquali, perché in tali periodi si discutono i bilanci preventivi o consuntivi delle ferie appena trascorse o da trascorrere.

Decimo: non gongolare in caso di esito positivo della pratica. Hai appena attraversato la soglia dell’inferno.

Saro Pafumi

domenica 25 agosto 2013

Viva il turismo, a patto di crederci

VIVA ILTURISMO, A PATTO DI CREDERCI


Chiude un’azienda, si delocalizza una fabbrica, cessa l’attività commerciale un esercente, non trova commesse un artigiano, manca il lavoro, niente di catastrofico: il turismo ci salverà. Sembra essere la panacea per tutti i mali. Ci riempiamo tanto la bocca di turismo, che a furia di nominarlo non ci crediamo più. Il turismo è “il complesso delle manifestazioni e delle organizzazioni relative a viaggi e soggiorni compiuti a scopo ricreativo o di istruzione”. Se vogliamo semplificare diciamo che il turismo “ è un prodotto” che va preparato, confezionato, reclamizzato e venduto. Siamo sicuri che disponiamo di questo “prodotto” sufficiente a mettere in moto un esercito di vacanzieri disposti a trasferirsi da noi, piccole o grandi realtà cittadine che siano? Ad accezione delle solite sagre estive di paese che impazzano in ogni dove, il turismo nostrano, ad eccezione dei soliti siti noti e arcinoti, si consuma tra maccheronate, salsicciate e peperonate varie. La nostra fantasia riesce a partorire solo prodotti gastronomici di risaputa e nota qualità. Con l’aggravante che le stesse sagre, diffuse e inflazionate, sono preparate pochi giorni prima dell’evento, senza alcuna continuità storica, all’insegna del pressappochismo e senza alcuna base pubblicitaria. Un tempo la sagra paesana era un’occasione unica d’incontro collettivo, all’insegna dell’assaggio di una “rarità”, per uscire, in un’economia povera, dalla monotonia della quotidianità. Oggi che il cibo non rappresenta un problema, la sagra, per rimanere nell’ambito gastronomico, necessita di atre attrazioni: culturali, ricreative che necessitano di ben altre accurate organizzazioni. Ogni località che si voglia fregiare del titolo di città turistica necessita d’un programma, di un‘organizzazione, ma soprattutto di una “specialità propria”: culturale, ricreativa, gastronomica che sia, purché continua e creativa, capace, nel tempo, di rigenerarsi Se un commensale entra in un ristorante e si vede servito unicamente “pasta cca sassa e carni arrustuta”, magari mangia, paga e se ne va. Ma sicuramente non torna. Noi in molte realtà cittadine siamo rimasti alla solita “pasta cca sassa”. Possibile che oltre che pensare “alla panza” non riusciamo a fare un passo avanti? Il turismo, dicevamo, ha scopo “ricreativo e/o di istruzione”. Quante le località in regola con le ferree leggi sul turismo, oggi che la globalizzazione ha reso tutto più difficile e competitivo? Intanto continuiamo a credere nel turismo. Speriamo che qualche Santo “estivo” ci faccia trovare la ricetta miracolosa, per uscire dalla crisi endemica dentro cui siamo precipitati. Viva il turismo! Ci salvi il turismo! A patto di crederci, però. Saro Pafumi

sabato 24 agosto 2013

Scomparso il pulpito nella Chiesa Madre di Linguaglossa

Scomparso il pulpito nella chiesa Madre di Linguaglossa.


Mancava qualcosa in quella chiesa, dove avevo ricevuto il sacramento del battesimo. Anzi era un po’ casa mia, quella chiesa, perché la camera in cui ero nato si affacciava sulla Piazza della chiesa madre, a Linguaglossa, dirimpetto alla porta principale. Ritornarci al suo interno, dopo tanti anni, era come rinascere una seconda volta, La mia mente stentava a penetrare nei ricordi giovanili, come se qualcosa d’essenziale mancasse al suo interno. I quadri erano a lorio posto, come tutti gli arredi che la mia memoria riusciva a collocare nello spazio. Poi d’improvviso un vuoto all’altezza di una delle colonne centrali prese forma: il prezioso pulpito, da cui predicatori eccellenti avevano diffuso la voce di Dio, non c’era. Demolito da chissà quali mani sacrileghe. Affrettai i passi per uscite dal quel tempio profanato, ansioso di conoscere la storia e la causa di quell’evento sacrilego. Menti accorte che avevano vissuto e combattuto quell’evento distruttivo m’informarono, fornendomi preziosi particolari. Lo scempio si era da tempo consumato nell’indifferenza di tutti o forse, nel travaglio di pochi. A misfatto compiuto, c’è da chiedersi come possa concepirsi la demolizione di un manufatto che non è una semplice appendice di una colonna, ma una sicura opera d’arte e rappresenta il palpito vibrante di mille voci, che, nel tempo, hanno inseguito e/o penetrato la coscienza di un’infinta moltitudine di fedeli. Da parte di qualcuno si tenterà di giustificare l’atto nel vano tentativo di mettersi la coscienza a posto, ma ormai il dado è tratto e nessuno potrà restituire quel significativo manufatto da cui si affacciavano predicatori valorosi. La chiesa non è un luogo dove il parroco di turno costruisce o demolisce a suo piacimento. E’ la casa di Dio. A volte certi ecclesiastici, forniti di dignità capitolare, hanno bisogno di un tutor come si fa con gli alberi, per evitare che crescano storti o con gli uomini, per impedire azioni cattive. Quando non è troppo tardi, come nel caso del prezioso pulpito della Chiesa Madre di Linguaglossa divorato dall’insipienza umana e ormai lontano ricordo di pochi. Il prezzo della scelleratezza, purtroppo, non è un peso per chi la commette, ma un insulto per chi la subisce. Saro Pafumi

lunedì 19 agosto 2013

Lettera d'amore a un randagio adottato

Lettera d’amore a un randagio adottato.




Diana, così ti hanno chiamata, quando, confusa e barcollante, ti hanno trovata abbandonata da empie mani nelle campagne che care furono ad Archimede. Poi “la sorte” ti ha consegnata al mio cuore, dopo un mio lungo peregrinare in cerca “d’amore”. Quando ti conobbi, smarrita e tremante, stappandoti alle lacrime sincere e pietose di chi ti ha salvata, un palpito vibrante percorse le mie membra. Ci guardammo, fugacemente, interrogandoci se eri tu ad avere trovato me o la sorte ad avermi arriso. Un affettuoso, titubante, iniziale abbraccio sciolse il dubbio e tra di noi fu subito amore. Ti accolsi a casa, come fosse stata da sempre la tua dimora. Nulla ti chiesi e nulla chiedesti, come si conviene a due amici. Ritrovati. Dissetarti con acqua nella mia mano, che si fece conchiglia, Il mio primo gesto che, grata, ricambiasti con sguardi dolci più del miele. La tenerezza è la tua forza, “il riporto” il tuo gioco, che non finisce di stupire le mie mani in attesa. Di bracco teutonico hai la stirpe, ma della stella d’oriente, Diana, che prima dell’alba appare, il nome. Abbandonata fosti, forse, perché disdegnavi cacciare un tuo simile, insegnando a noi umani che anche nel mondo animale è virtù amar gli altri come se stesso. Mi ridi con la coda e festante mi accogli con i battiti del tuo cuore. Cosa posso darti oltre ad una ciotola di cibo e mille carezze? Ogni mattina, quando col tuo trepidante fiato mi accompagni alla luce del giorno, mi ricordi che una carezza donata a te è una preghiera a Dio, che ti fece, perché compagna fida fosti dell’uomo. Grazie Diana, per avermi insegnato cos’è l’amore. Saro Pafumi

mercoledì 14 agosto 2013

Tonino, un seminatore d'amore per le vie di Linguaglossa.


A vederlo camminare, in tutte le stagioni dell’anno, per le vie del paese col suo incedere cadenzato e sicuro, sembra il superstite di un’armata in rotta, sicuro di volere, da solo, raggiungere l’obiettivo finale: conquistare e controllare il territorio, e, da vincitore, dispensare amore e amicizia. Questo è Tonino, un uomo che ha superato i sessant’anni, ma che da solo, gradino dopo gradino, ha saputo superare non solamente barriere preconcette, ma ostacoli ben più significativi: la propria disabilità natale, raggiungendo traguardi impensabili. Tonino, a Linguaglossa, non è l’amico di tutti. E’ un fratello, vero, verso cui va tributato rispetto, amore e deferenza. La sua è una personalità, modesta ed estroversa, lucida e ironica, sincera e fraterna, un impasto di valori che ognuno di noi desidererebbe di avere nell’anima. Lui possiede questa dote, che dispensa generosamente, senza distinzione alcuna. Vive gioiosamente le sue stagioni e gioiosamente scandisce ogni ora della sua giornata, tra mille carezze ricevute o donate. La disabilità di Tonino è una fonte dal cui, prodigiosamente, zampillano getti sottili e intensi di umanità. Una sua stretta di mano trasmette l’amore di Cristo e quel calvario che la vita gli ha assegnato, grazie alla sua forza, ha il peso di un alito di farfalla. La sua parola barbugliata non richiede comprensione, perché, dalla sua radice, fino ad arrivare al fiore, profuma d’innocenza. Linguaglossa ha generato “figli degni”, per lustro, ingegno o atti d’eroismo, come i caduti nelle guerre di liberazione, ma mai “figli speciali” : Un privilegio che a Tonino è toccato, di cui Linguaglossa è gelosa custode. Osservandolo, gioioso e giocherellone, nel suo quotidiano andirivieni per le vie del paese, nasce spontanea una domanda: quale, la sua collocazione con Dio? Una risposta forse c’è. Dio fa gli uomini uguali, ma togliendo qualcosa a qualcuno, li rende migliori. Questa sorte è toccata a Tonino che nel suo lungo, infaticabile, giornaliero peregrinare per le vie di Linguaglossa è seminatore d’amore. Come Cristo con le sue debolezze e la sua forza. Grazie d’esistere, Tonino.

Saro Pafumi.

domenica 11 agosto 2013

Un pò di riconoscenza per chi ha reso più bella Linguaglossa


Linguaglossa dal dopo guerra a oggi ha modificato sostanzialmente l’aspetto del suo territorio rendendolo più gradevole. Ciò grazie alla lungimiranza di alcuni amministratori locali che hanno saputo cogliere il momento giusto. L’ultima opera pubblica, in ordine di tempo, non la più importante, ma sicuramente la più significativa dal punto di vista dell’arredo urbano: la villa giardino. In un paese che rispetti la memoria e riconosca i meriti, i cittadini si sarebbero aspettati almeno una targa alla memoria del concittadino o se volete dell’amministrazione che ha reso possibile l’opera in menzione. Circostanza peraltro già avvenuta per altri cittadini che hanno contribuito ha rendere più grande il nome di Linguaglossa. Se al cittadino promotore della villa giardino non si voglia intestare una via, lo si ricordi almeno intestandogli un viale di detta villa giardino. La storia di un paese è fatta di memoria. Se manca il racconto di se stessa, una cittadina perde la sua identità e finisce col diventare “un’addizione di eventi” scollegati dalla sua storia e dai suoi stessi personaggi. E’ istruttivo e piacevole apprendere dagli anziani circostanze note o poco note che hanno caratterizzato la vita cittadina, ma oltre alla tradizione orale di tramettere informazioni e dati, sarebbe più logico e più efficace tramandarli con azioni tangibili, anche al fine di evitare imprecisioni e inesattezze. A Linguaglossa ci sono strade intestate “a cose” o a personaggi scollegati dalla realtà locale, ma difettano quelli più significati della storia recente. Un poco di riconoscenza non fa male, anche se la gratitudine è un termine obsoleto e non rintracciabile nel linguaggio umano.Saro Pafumi

lunedì 5 agosto 2013

Quattro passi tra gli amici dell'uomo


Mancano i turisti a Linguaglossa? In compenso abbondano i cani. LI puoi trovare di giorno e di notte, per vie e piazze. Sono diventati talmente assidui da meritarsi ognuno un nome e un indirizzo, come si fa con gli amici più intimi. Erasmo dagli occhi di ghiaccio, lo puoi trovare in Via Esperia; Giulia, una veterana del luogo, in via Oberdan; Marisa, quella col ciuffo bianco è di stanza alla stazione. Poi c’è Mercadante che abbaia di continuo quando vede qualcuno che non è del luogo. Orlando è furioso, ma con un pezzo di pane puoi fartelo amico. Poi ci sono i fidanzatini: Veronica e Costanzo, mai che si lascino per un istante. La gelosia li costringe a stare incollati. Poi ancora c’è Rambo “uno stallone” di quattro anni che gironzola per le vie del paese. Guai a incontrarlo al momento giusto: una nidiata di nove cuccioli è assicurata. Lui non teme la famiglia numerosa. Sa, col suo fiuto, dove trovare gli avanzi più appetitosi. In questa vasta schiera di amici dell’uomo c’è sempre l’attaccabrighe, Iron, il nome, una garanzia, T’insegue in auto, sfidandoti in velocità, come se volesse dirti: “ Stronzo, scendi da quella boiata di macchina e fatti una corsa a piedi, vediamo chi arriva prima”. Il depresso del quartiere si è scelto il nome da solo. Si fa chiamare Amen e staziona, sconsolato e pensieroso, sulla scalinata della Chiesa Madre. Non accetta oboli, come può sembrare, ma in compenso dispensa festosi scodinzolii. E’ un cane mite, l’ambiente ecclesiastico ha forgiato il suo carattere. Il più insopportabile e screanzato è Pissy, i cerchioni delle auto sono i suoi “doppi servizi”. Deve essere un cane extra comunitario, perché spesso preferisce le auto italiane per espletare i suoi bisogni. Attirano una certa curiosità, invece, due meticci in perenne atteggiamento affettato e lezioso. Qualcuno, osservandoli, ci ricama sopra una storia d’amore gay. Il più simpatico di tutti è Certus Primo il cui incedere austero e la sua preferenza per i cibi di qualità tradisce sicure, nobili origini. Lex è il più intelligente. Attraversa sempre sulle strisce pedonali e fa un certo effetto vedere, più avanti, “il suo padrone” che non lo fa. Come sempre in questa variegata società canina siciliana non può mancare lui, Nefandus, il più temibile, l’usurpatore del territorio. Disdegna gli umani che evita volentieri, ma ai suoi simili non fa sconti a nessuno. Segna il territorio in cui regna sovrano, che “marca” col suo inconfondibile olezzo. Le aiuole verdi sono le sue dimore, dove bivacca di continuo, mandando messaggi a destra e a manca. Non cerca il cibo, a lui tutto è dovuto. Tutti fanno a gara per farselo amico. Non si sa mai. Avere come amico Nefandus anche per gli umani è un onore.

A notte inoltrata, quando gli umani hanno finito di litigare o commettere nefandezze, tutti questi cani che qualcuno impropriamente definisce “randagi”, ma che mansueti sono oltre ogni dire, si riuniscono alla periferia del paese, dove l’homo civilis ha liberamente insediato il suo quartiere generale d’avanzi alimentari. Qui, dove la democrazia canina regna sovrana e indisturbata, ciascuno consuma il suo pasto senza spintoni e/o prevaricazioni, secondo l’antico precetto del diritto romano: “unicuique suum”. Ah! Se una volta tanto traessimo insegnamento dall’amico dell’uomo, senza abbaiare, né chiedere o pretendere come fa Amen dall’alto della sua scalinata. Pubblicata su La Sicilia il 10.08.2013.Saro Pafumi

venerdì 2 agosto 2013

Linguaglossa, oggi.

Linguaglossa, oggi


Linguaglossa ha tutte le carte in regola per essere una città turistica. Un territorio gradevole, posti letto a iosa, alberghi da tre a cinque stelle, ottimi bar, interessanti chiese, ben tenute e, cosa insolita fino a poco tempo fa, aperte al pubblico, fino a sera inoltrata. Manca l’essenziale: il turista, ossia la materia prima. Linguaglossa si può paragonare a un’auto, a folle, col motore acceso, in procinto di partire, ma che, per vicissitudine varie, rimane immobile. Fino a qualche tempo fa Linguaglossa era sinonimo di Etna Nord, di stazione sciistica: un volano se non sufficiente a mettere in moto l’intera economia cittadina, appena bastevole, però, ad attirare frotte di turisti nella stagione invernale. Gli eventi calamitosi del 2002 hanno azzerato queste velleità turistiche e Linguaglossa è piombata nel limbo dell’oblio. Altro settore dell’economia, l’agricoltura, non si caratterizza per alcun prodotto specifico, come hanno saputo fare altre realtà vicine, per cui essendo rimasta ancorata alle piantagioni tradizionali (vite e nocciolo), il territorio non si apre a nessuna nuova vocazione. In tali condizioni, quali potrebbero essere le ragioni per cui il turista dovrebbe sentirsi attratto dal frequentare Linguaglossa? Nel periodo estivo l’amministrazione comunale, sia pure tra mille difficoltà di cassa, mette in atto una serie d’iniziative cultuali e ludiche, nel tentativo di attirare l’attenzione del forestiero, ma poiché ogni piccolo centro, anche il più sperduto, ha le sue iniziative estive, le promozioni finiscono con interessare solo gli abitanti del paese, che, guarda caso, quando mettono mano nelle tasche, trovano semmai gli spiccioli per qualche “scialacore”. A questo punto a ciascuno viene in mente d’imprecare contro il destino avverso, che ostacola l’agognato decollo turistico di Linguaglossa, come se fosse colpa di un’ostile entità superiore. E’ su questa benevola diagnosi, ognuno, rassegnato, si affida a un più provvido destino. Linguaglossa sembra essere un paese in perenne attesa di un messia che sappia trarre dal suo interno le forze generatrici per il suo sviluppo turistico, e in tale attesa perde ogni giorno pezzi di se stessa. Purtroppo quel che manca a Linguaglossa è un dibattito cittadino capace d’interrogarsi sul proprio futuro. I dibattiti, in verità non mancano, ma sono relegati nei bar, dove tra un sorso di caffè e una granita di pistacchio si consuma il futuro del paese. Parole al vento in cui ciascuno ha la sua miracolosa ricetta per uscire dal limbo dell’oblio. Il giorno dopo si ricomincia, attorno allo stesso tavolo, con vecchi o nuovi protagonisti, mentre dagli alberi che ombreggiano i tavoli, le foglie cadono una a una come le stagioni, che, inesorabilmente, passano senza che accada nulla. Linguaglossa è come la camelia, bella ma senz’anima. Il suo profumo, come racconta la leggenda, glielo tolse Venere con un incantesimo, per vendicarsi della sua bellezza. Che centri pure Venere con Linguaglossa? Saro Pafumi



domenica 28 luglio 2013

Non potere programmare il futuro crea nei giovani disabilità mentale


Sarebbe opportuno abolire dal vocabolario due avverbi: “si” e “no” che in genere sono usati per esprimere affermazione o negazione nelle risposte, sostituendoli con un secco “forse” che li raggrupperebbe entrambi. Il perché dell’innovazione? In quest’epoca d’inganni non esiste alcuna certezza, intesa come parola data, come puntualità, come interpretazione di una norma, come evento certo. Questa incertezza quotidiana comprende quasi tutte le azioni umane. Per dirla con Lorenzo de’ Medici: “ Chi vuol essere lieto, sia: di doman non c’è certezza”. Purtroppo però il Medici lo scrisse nella seconda metà del quattrocento e si riferiva al futuro. Oggi l’incertezza riguarda anche il presente e abbraccia tutto: lavoro, pensione, tasse, diritti, ideali, speranze. L’affermazione o la negazione sono sempre accompagnate dal beneficio d’inventario. Il dubbio è diventato ragione di vita, lo scetticismo la stella popolare di ogni azione umana. Il cervello umano è un frullatore di interrogativi, dove i si e i no si mescolano formando una melassa d’incertezze che crea disagio, scoramento, disistima Non potere programmare genera disabilità mentale, specialmente nei giovani che vivono la loro condizione come un buco nero, una stagione senza tempo. Senza poter programmare il proprio destino, la vita si riduce a semplice attesa che è diventata la principale occupazione dei giovani, il mestiere per vivere o più correttamente per sopravvivere. Questa triste condizione di vita che abbiamo regalato ai nostri figli, fa si ch’essi siano risucchiati nel gorgo della delusione, dove ogni attimo perduto nell’attesa è un attimo di felicità sprecato, un sogno infranto, una speranza sprecata. Abbiamo rubato ai nostri figli il diritto di credere nel tempo: il futuro. “Forse un mattino andando in un’aria di vetro arida, rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo: il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro di me…..” Chissà se Montale nel comporre questa splendida poesia pensava ai giovani d’oggi. Saro Pafumi

domenica 21 luglio 2013

" L'arte" di liberarsi dei rifiuti

In un modo o nell’altro questa benedetta spazzatura bisogna pur smaltirla. Raramente il servizio di raccolta funziona e così ciascuno ha un proprio modo di disfarsene. La fantasia non manca in queste circostanze, perché la sola visione del nero sacchetto, che puzzolente dev’essere, non invita a positive considerazioni. In primo luogo perché al suo interno ci sono i resti del nostro smodato consumismo, che troppo spesso si tramuta in odiosa obesità, o il necessario frutto dei nostri sacrifici quotidiani, che si dissolvono in spregevoli, effimeri rifiuti. Occorre disfarsene, ma la celerità del desiderio del suo smaltimento è inversamente proporzionale al servizio di raccolta. Dalla necessità di stare meglio e progredire o qualche volta, purtroppo, di regredire, nascono le idee. Ciascuno ha il proprio metodo collaudato e ripetitivo. C’è chi deposita il sacchetto vicino alla porta del condomino accanto, anziché alla propria, quasi a volerne marcare la distanza; c’è chi lo porta con sé in auto e alla prima curva , non visto, lo lancia dal finestrino verso una destinazione sconosciuta, come un’offerta d’aiuto verso chi soffre, conservando l’anonimato; c’è chi ha un preciso obiettivo, un personale centro di raccolta alla periferia cittadina che col tempo si trasforma in discarica collettiva; c’è chi da buon samaritano lo offre all’inconsapevole contadino di campagna, perché i frutti del suo fondo abbiano il fecondo apporto del suo spontaneo contributo; c’è chi amante degli animali preferisce che il sacchetto col suo contenuto abbia una funzione evangelica: sfamare gli affamati, c’è, infine, chi tradisce il suo odio verso l’effimero, l’inutile, l’inservibile, sfoggiando tutta la sua crudeltà: “L’impiccagione” del sacchetto alla ringhiera del balcone, dove per giorni “il messaggio penzolante” che si vuol dare è la metafora dell’inefficienza, dell’abbandono. Un’espressione artistica molto ricercata dai turisti, che nella sua fredda rappresentazione scorgono una new body art popolare dai variopinti colori, perché ciascuno in questa rappresentazione immateriale v’inserisce un proprio stile, dal tipo di corda , al colore del sacchetto, dal tipo di nodo, all’olezzo che caratterizza i gusti familiari. Ma quel nero sacchetto, più di tutti, rappresenta il nostro modo di essere , di vivere, di agire, forse la nostra stessa coscienza sporca, che si cerca di cacciare il più lontano possibile, che inesorabilmente ci torna in faccia o ci pende sul capo. Inesorabilmente, perennemente come la nostra inciviltà che ci marchia a sangue. Pubblicata su La Sicilia il 21.07.2013.Saro Pafumi

lunedì 8 luglio 2013

L'individualismo cinico con cui viviamo

L’individualismo cinico con cui conviviamo


Spesso mi chiedo cosa significhi amare il proprio paese. Rispettare l’ambiente, mantenerne l’equilibrio, conservarne le tradizioni, parlare il linguaggio dei propri padri? E’ sufficiente tutto ciò, se questa condotta, pur doverosa, tralascia lo sviluppo della comunità in cui si vive, impedendone il progresso? A volte capita. Quando capita, bisogna interrogarsi se le ragioni di un mancato sviluppo siano imputabili a ragioni obiettive o manchi qualcosa nell’animo umano, che pregiudichi tale sviluppo. Linguaglossa è un esempio, dove il tempo pare si sia fermato a mezzo secolo addietro, con l’aggravante che la dote lasciataci da chi ci ha preceduto, con opere e azioni, è stata corrosa più che dall’inesorabile trascorrere del tempo, dall’apatia di chi è venuto dopo. Purtroppo Linguaglossa non è la sola, basta girare lo sguardo attorno. Spesso una persona si distingue per l’abito che indossa, che, se pur passato di moda, ma dignitoso, conserva la sua insita eleganza, ma se le toppe aggiunte nel tempo o qualche sgualcitura ne inficiano l’originaria forma non è l’abito che perde valore, ma chi lo indossa. Il territorio, nel suo insieme, è l’abito della comunità che ci vive dentro. Preservarlo e conservarlo è un dovere, ma renderlo più fruibile e seducente è un obbligo verso chi ci ha preceduto, ma ancor di più verso noi stessi. Lo sforzo di una qualsiasi comunità d’anime deve essere proiettato a migliorare se stessi, non a vivere di rendita o peggio ancora a sciupare la dote tramandataci. Purtroppo, in certe realtà, il passaggio dall’apatia all’ignavia è breve. Quando una comunità ne resta coinvolta, rischia di annebbiare le proprie facoltà intellettive, scambiando il benessere proprio in neutralità, che impedisce di decidere e progredire. L’individualismo esasperato che caratterizza il mondo moderno finisce con lo svilire il concetto di comunità, secondo cui ciò che non ci appartiene in senso stretto, non è meritevole d’interesse o di tutela. Da qui il lento inesorabile declino di ciò che ci sta attorno, come se appartenesse a un mondo che non ci appartiene. Mi viene in mente una frase di Cicerone quando allude allo zoppo che gioca a palla, incapace di correre e rimandarla, ma solo disposto a ritenerla. E’ come se fossimo tutti zoppi in quest’epoca d’individualismo cinico e smodato e le comunità tutte ne risentono. Saro Pafumi 08.07.2013



giovedì 4 luglio 2013

I Domenicani a Linguaglossa

Sarà perché sono affetto da nostalgia, intesa non come dolore del passato, ma come angoscia del presente, che mi è difficile rassegnarmi all’idea che la Casa San Tommaso, più nota come Collegio dei PP. Domenicani di Linguaglossa, sia lasciata al suo destino. Un’opera imponente, realizzata grazie alla caparbietà dei Padri fondatori e con l’ausilio economico dei nostri compaesani emigrati, che hanno creduto e voluto l’opera. Per circa mezzo secolo fucina di cultura e di educazione civica, dove l’insegnamento era una missione e l’apprendimento, un privilegio. Due generazioni di giovani, che ivi hanno trovato le loro radici culturali, in cerca di mete, che i più hanno realizzato con successo. Poi, col declino culturale delle sue origini, seguì un languido tentativo di conversione in attività residenziale, camuffata da iniziative pseudo turistiche, fino a diventare il sepolcro di se stessa, quale oggi è. Purtroppo il destino dell’’ex Collegio, appartenente all’ordine dei PP. Domenicani, è in quel di Napoli, nelle mani di chissà quali organi decisionali. Il disimpegno culturale, affettivo e materiale in cui oggi versa l’opera non è solamente la premessa della sua ineludibile distruzione, ma il tradimento dello spirito che l’ha originata. L’attuale chiusura del plesso suona offesa ai Padri fondatori, a quanti hanno contribuito a realizzarla, ai maestri di vita che vi hanno insegnato, ai tanti giovani che ivi si sono forgiati culturalmente, alla cittadinanza di Linguaglossa, al territorio circostante, allo stesso Ordine Domenicano, che in San Tommaso d’Aquino ha il proprio dottore della Chiesa. Poiché il decorso del tempo, congiunto al disinteresse, non è elemento di conservazione, ma di distruzione, sarebbe giudizioso che Linguaglossa, rappresentata dalle sue autorità, facesse sentire la sua voce. Questo grido angosciato, di chi ivi ha forgiato la sua formazione di vita, lo devo prima ancora che a me stesso, ai miei insegnanti, alla loro memoria, al loro sacrificio. Mi consolerebbe vedere aperta anche solamente una delle tante finestre che si aprono sul cortile del Collegio. Immaginerei che al suo interno vi scorra ancora la vita, scacciando l’idea funesta che oggi vi alberghino solamente i fantasmi del passato. Pubblicata su La Sicilia il 04.07.2013. Saro Pafumi.           

domenica 30 giugno 2013

La sorte della piscina di Linguaglossa appesa a un filo

In un paese che si rispetti poteva mancare la piscina? E così tra suppliche, raccomandazioni, promesse, finanziamenti ad hoc, anche Linguaglossa ebbe la sua “vasca”. Restava il problema di chi e come gestirla, perché per un’opera del genere, con un bacino d’utenza limitato, i costi di gestione andavano preventivati. L’opera rimase per lungo tempo inutilizzata, finendo con l’essere l’ennesimo esempio di spreco di risorse all’italiana. Poi venne il colpo di genio. L’amministrazione del tempo nel concedere al dott. G. Russo l’esclusiva dell’escursione estiva da Piano Provenzana alla sommità dell’Etna gli “impose” l’apertura della piscina comunale. L’imprenditore catanese, dalle larghe vedute, capì fin dall’inizio che quella “amichevole imposizione” era un peso, tuttavia si rassegnò a subirne le conseguenze, fedele a quell’ottica imprenditoriale, secondo la quale qualche ritorno economico va sacrificato, se finalizzato allo sviluppo complessivo del territorio. Oggi le cose sono cambiate: la concessione dell’escursione estiva è in scadenza, il dott., Russo è passato a miglior vita, “l’imposizione amichevole” non è più percorribile e la piscina, quale destino avrà? D’imprenditori illuminati ce ne sono pochi, d’imprenditori disposti a scommettersi ancor di meno, con l’aggravante che la piscina di Linguaglossa nell’ambito Etneo non è più né un’esclusiva, né una novità. con un bacino d’utenza sempre più limitato, per via anche e non soltanto della crisi economica, che incombe in ogni ambito della vita sociale. A meno di un altro colpo di genio, il pessimismo è d’obbligo e la possibilità che la piscina chiuda o non riapra è un’ipotesi alquanto verosimile. La morte di un territorio non avviene sempre ed esclusivamente per calamità naturali, terremoti, alluvioni eruzioni. Avviene purtroppo e più sovente per calcoli errati, per previsioni azzardate, per finanziamenti scollegati con la realtà, per mancanza di risorse economiche, per scarsità d’iniziative, che, giorno dopo giorno, comportano l’impoverimento di tutto il comprensorio. Avviene soprattutto per mancanza di uomini e d’ide, senza le quali non si va da nessuna parte. La sorte della piscina è pertanto appesa a un filo e quel che più meraviglia, è che non si sa chi tiene in mano il filo.Saro Pafumi.

lunedì 24 giugno 2013

Strada Piano Provenzana Monte Etna nessuna certezza

Il prossimo mese di luglio scade alla Società concessionaria la convenzione per l’uso della strada comunale, che attraversa il territorio di due Comuni: Linguaglossa e Castiglione di Sicilia, che consente ai turisti l’escursione guidata fin quasi alla sommità del vulcano sul versante Nord.  Nessun bando di gara finora, che assegni una nuova concessione o proroghi quella attuale. Si direbbe che stiamo navigando a vista. Intano, il fermento tra gli operatori è al massimo, ma come di solito avviene nel nostro Bel Paese: “Pariamo o arriviamo sempre fuori tempo”. Che ci sia sotto, da parte di qualcuno, una strategia “occulta” è legittimo pensarlo, a meno che la vicenda non si configuri come l’ennesima schizofrenia collettiva autolesionistica. Il che va messo pure in conto, stanti i risultati deludenti fin qui visti col rilancio dell’intero versante. Poiché i tratti di strada che da Piano Provenzana conducono alle sommità appartengono a due Comuni: Linguaglossa e Castiglione, sarebbe giudizioso che i due Comuni trovassero un reciproco accordo, in quanto a durata della concessione e a modo d’esercizio. Ma il nodo da sciogliere è proprio quest’ultimo, anche se nessuno ufficialmente vuole ammetterlo: Chi deve transitare su detta arteria? Uno, nessuno, centomila? Le promesse fatte prima delle elezioni dai rappresentanti dei due Comuni interessati si muovono in direzioni diverse. Trovare la quadra è difficile: qualcuno corre il rischio di perderci la faccia. In questo tira e molla tra (privati) interessi contrastanti, nessuno ha il coraggio di dire le cose come stanno, che equivale a dire “ nenti sacciu e nenti vogghiu sapiri”. Ciascuna parte in causa considera la concessione come “cosa nostra” e con quest’antico criterio si va avanti. Tutto ciò si può pure capire, quando ci sono interessi in campo, se,però, accompagnati da progetti credibili., che invece mancano o sono nebulosi E poi dicono che in Sicilia certa “mentalità” è sconfitta o è emigrata altrove. Certo modo di pensare, noi siciliani l’abbiamo nel DNA. C’è nel parcheggiare la nostra auto, nella precedenza sulle strade, nelle riunioni di condominio…….Pensate che manchi quando gli interessi si fanno più stringenti? In questi casi, per fortuna, non si uccide, tanto chi è destinato a perderci la vita è il territorio, che poi, guarda caso, siamo tutti noi. Pubblicata su La Sicilia il 24.06.2013. Saro Pafumi

domenica 16 giugno 2013

Vivere da single, obbligo o scelta?


“Penso che sia arrivato il momento ch ti sposi”, consigliava il padre, rivolto al figlio ultra maggiorenne. “Ritardare il matrimonio significa cercare più l’interesse che trovare l’amore”.

“Sono già ammogliato, si chiama Clio, ha vent’anni e l’amo con lo stesso ardore del primo giorno” rispose il figlio, con disarmante naturalezza al padre che l’ascoltava stupefatto.

“Clio? Come la moglie del Presidente?” ribatté il padre.

“Si. Ma è 1500 di cilindrata, Turbo Diesel, cinque porte. Non posso permettermi il lusso di un’altra “moglie”, perché già questa tra rate di mutuo, carburante, assicurazione, meccanico, carrozziere, gommista e altro assorbe il magro salario che percepisco come precario. In compenso non brontola come una vera moglie, mi collabora nelle quotidiane fatiche ed è fedele.

Ah, se l’auto avesse un’anima! Potrei convolare a nozze vere, perché già la legge non richiede la diversità di sesso: possedere un’anima è sufficiente”. E poi trovare l’altra “metà di mela” è difficile: quasi sempre è “mangiata” o è una pera”.

Le condizioni di molti giovani, commedia dell’arte a parte, quale può sembrare il breve dialogo tra padre e figlio, sono quelle su descritte: giovani “ammogliati” con un’auto che costa e assorbe più di una vera moglie. Il sesso? E’ l’ultimo pensiero dei giovani. Fuori e dentro le discoteche, nelle strade di campagna, a casa propria o altrui, sulle auto, fare sesso è come acquistare un chewing gum dal tabaccaio. Al resto pensano i genitori, il più delle volte con una pensione da fame, che, per affetto e paterna solidarietà, la dividono con la prole. Qualcuno ha scritto che “un single, uomo o donna, è un essere indipendente che sceglie di crescere, pur passando il tempo con un uomo o una donna”. Eppure, sarebbe saggio se molti giovani riflettessero, leggendo un sonetto di Shakespeare:

“Passi a to vita schettu picchì timi di fari chianciri l’amanti a luttu? Ah, si lassi sta terra senza figghi, idda peggiu d’un’orfana si senti………fallu p’amuri meu, addiventa patri ccussì la to biddizza passa e figghi”.Saro Pafumi

domenica 9 giugno 2013

L'inarrestabile declino dei nostri centri storici.

Chi ha la ventura di visitare i centri storici dei nostri paesini rimane smarrito di fronte al loro continuo, inarrestabile declino. Un tempo centri propulsori di economia, potere e vita rappresentativa, sono diventati, col trascorrere impietoso del tempo, aree morte e abbandonate. Le case per lo più “patrizie”, un tempo popolate, sono diventate involucri senz’anima. Le finestre dei palazzi, talvolta sontuosi, che con il loro sbadiglio mattutino, facevano intuire la ricca vitalità che vi albergava, sono diventate palpebre socchiuse dietro le quali si aggirano i fantasmi di chi vi abitava, cacciati, partiti, deportati chissà dove. Un’aria di tristezza e di abbandono, quasi di morte li avvolge. Non si vedono più nelle viuzze, un tempo salotti estivi, massaie sedute di spalle intente a sferruzzare, bofonchiando parole incomprensibili o pettegolando sull’occasionale, sfortunato passante, né si sentono i passi cadenzati di asini svogliati col loro carico di preziosi alimenti o di fieno. Inutile alzare il capo: dai balconi delle case patrizie nessun segno di vita, nemmeno la parvenza di un’anima risucchiata dal lento evolversi della storia. Auto in sosta perenne si vedono nelle viuzze, appena larghe da consentire il solo passo di un pedone; sembrano la parodia di un corteo funebre, anch’esso immobile, quasi a indicare che qui tutto è inerte, perché il tempo ha sepolto uomini e cose. Di questi centri e dell’opulenza dei loro palazzi resta la testimonianza di una qualche sbiadita foto ricordo o il caparbio abbraccio di una pianta rampicante a ciò che di questi palazzi rimane: un ultimo disperato baluardo contro l’incuria umana più devastatrice del tempo.


Pubblicata su La Sicilia il 09.06.2013.Saro Pafumi.

domenica 2 giugno 2013

Le famiglie disattente nell'educazione dei figli.


L’Italia ha riconosciuto la convenzione di Istanbul. Un passo avanti nella difesa della femminilità. Tutto ok verrebbe da dire, perché se c’è una legge, finalmente, che disapprova alcuni comportamenti maschili, prima tollerati, la circostanza induce all’ottimismo. Nutro qualche dubbio, però, che le cose cambieranno in modo sostanziale, perché ciò che deve cambiare è una certa, manifesta rilassatezza della famiglia nei confronti dei figli e delle figlie, più vulnerabili dei primi. Il lavoro familiare, lo stress, la crisi, le preoccupazioni quotidiane, una certa, eccessiva, irresponsabile libertà nei confronti della propria progenie non consente alla famiglia di seguire i propri figli nella vita quotidiana con il dovuto rigore. Avviene, per esempio, che le famiglie non conoscono il gruppo di amici dei propri figli, la loro vita al di fuori della famiglia, i loro amori, talvolta tenuti segret, e neanche eventuali atti di violenza subiti, perché la donna in generale ragiona più col cuore che con la testa, il che non permette di avere la necessaria lucidità che le permette di prevenire determinati atti violenti. Il rapporto famiglia-figli è la chiave che consente di verificare la validità di un rapporto messo in essere dai propri figli. Se a ciò si aggiunge che determinati rapporti sentimentali nascono, crescono e si evolvono attraverso “ la rete” le sorprese sono o possono essere dietro l’angolo. Un tempo la mano della promessa sposta si chiedeva ai genitori, oggi purtroppo la vita delle proprie figlie “si abbandona” in mano a sconosciuti in nome di una libertà acquisita che non consente ai genitori consigli, interventi, veti ecc. Le figlie non sono bambole di pezza con cui giocare L’interessamento, la vigilanza dei genitori sono doverosi. Certi spiacevoli, dolorosi accadimenti comportano purtroppo la responsabilità delle famiglie, troppo assenti e distratte. Senza una continua, doverosa, assidua vigilanza dei genitori, la legge può sanzionare l’atto delittuoso, ma certamente non prevenirli. Saro Pafumi

domenica 26 maggio 2013

Sentirsi estranei in patria

Don Sarbaturi Sciarmenta, contadino doc, pozzo inesauribile di saggezza, mi confessava l’altro giorno di sentirsi un estraneo in patria. “Non Le capita”, mi diceva, “d’incontrare per strada un vicino di casa, un amico, un parente e di trovarli irriconoscibili? Non mi riferisco all’espetto fisico, ma all’animo, che li fa apparire differenti, diversi, sconosciuti Nel loro sguardo e financo nel loro gestire c’è qualcosa che impedisce di trasmettere emozioni, come se una voragine angosciante abbia preso il posto delle loro speranze, delle loro attese, delle loro illusioni. Automi che camminano, manichini inespressivi sembrano; gestualità senza senso, sguardi senz’anima, parole soffocate dalla noia o dalla delusione, quelle che trasmettono. Nel mio lento girovagare per le vie del paese non riconosco nemmeno le strade che percorro, coperte da cumuli d’immondizia, piene di buche, nelle quali il piede malfermo vacilla, inciampa, tenta di riprendersi, invano, come se persino la terra in cui si è nati s è rivoltata contro. Anche i fiori, che, un tempo, con il loro profumo risvegliavano sogni sopiti e familiari sembrano, ora, stanchi di donarci il loro alito e gli alberi, affranti e svogliati non dondolano più, smaniosi di spogliarsi delle loro foglie, uniche testimoni di vita. “A volte, allo specchio” continuava don Sarbaturi Sciarmenta, “ non riconosco nemmeno il mio viso. Non sono gli occhi stanchi che lo appannano, né le numerose rughe che lo solcano; è la luce dei miei occhi che si è spenta, dentro i quali si specchia l’anima affranta e fiaccata che mi accomuna con gli altri che incontro. Allora capisco che anch’io sono un estraneo a me stesso”. “A Lei succede?” mi chiedeva.

“Don Sarbaturi”, replico, “questo non è più il vostro mondo. Siete stato catapultato su un pianeta sconosciuto, dove l’amore, la solidarietà, la fede, la speranza, i sogni sono solo ricordi che qui non attecchiscono. Non siete solo, in questo nuovo mondo, siamo tutti extracomunitari, finalmente uguali, perché a tutti manca la gioia di vivere"
Pubblicata su La Sicilia il 28.05.2013. Saro Pafumi.



.

mercoledì 8 maggio 2013

Linguaglossa e i suoi personaggi verghiani

“ Mi dovete fornire due litri di latte al giorno, caldo, senza schiuma e alle sette di mattina” disse don Pippinu  ‘ntisu “spaventu” che abitava a Linguaglossa a due passi dalla chiesa madre. Pronunziò l’ordine con tono risoluto e per mantenere le distanze diede del “voi”, al capraio che conduceva in pascolo le sue terre. U Zu Giddiu che vendeva latte appena munto con capre a seguito, quell’ordine aveva dovuto subirlo senza batter ciglia.  “ Senza schiuma”, lo pretendeva don Pippinu,  “ca scumazza” voleva fornirlo u zu Giddio. La differenza non era di poco conto, perché con quel po’ di “scumazza”  ogni giorno ‘o zu Giddio, era riuscito a costruirsi mezza casa  A fine mese quando  u zu Giddiu presentava il conto a “scumazza” c’entrava e come, perché don Pippinu non era tipo da farsi infinocchiare. Le grida si sentivano in tutto il quartiere, perché è vero “ca a scumazza” c’era ma non nella percentuale che don Pippinu calcolava. Il nomignolo “ spaventu” a don Peppino gli era stato affibbiato dagli amici del circolo dei civili, perché non c’era discorso che non iniziasse o finisse, senza quel sostantivo: “spaventu! aumentanu i tassi”, spaventu! calau u prezzu du vinu; “un si ni pò più, chi spaventu!…..” U zu Giddio che "capraru” era, ma di cervello fino, aveva trovato il modo di vendicarsi con don Pippinu che secondo lui voleva “sparagnari” troppo "supra a peddi ‘i puvireddi”. A quel tempo le capre circolavano per il paese, munte sotto il portone di casa dei signorotti che il latte pretendevano, caldo e cremoso. Poiché le capre, come tutti gli  esseri umani, fanno i loro bisogni, u zu Giddiu faceva in modo che defecassero proprio sotto il portone di don Pippinu, lasciandovi un  tappeto d’escrementi che ogni mattina la serva si scomodava di rimuovere tra le imprecazioni del padrone che gridava: spaventu! ’un si ni po’ cchiù di stu zimmuru di capraru!”. Se ‘u zu Giddiu aveva perso “la battaglia da "scumazza”, don Pippinu non era stato vittorioso sull’altro fronte, perché quando u zu Giddiu passò a miglior vita, davanti al portone di don Pippinu le cose mutarono radicalmente. Non  c’era più, è vero, quel tappeto d’escrementi che tanto faceva infuriare don Pippinu, ma nemmeno quel latte che adorava. La morte s’era portato via u zu Ggiddiu insieme al suo latte, che per don Pippinu, nato signorotto, aveva un sapore speciale, perché proveniva dal pascolo delle sue terre ch’erano “roba sua” come il latte che producevano le capre du zu Giddiu. Saro Pafumi

sabato 27 aprile 2013

Una madre non muore mai

“ Un fascio di rose rosse per mia madre che oggi compie centodieci anni”. Detta così la frase, rivolta da uno sconosciuto al fioraio, che conosco da una vita, mi lasciò interdetto. Avere una madre alla veneranda età di cento dieci anni appena compiuti, non è una fortuna che capita tutti i giorni. Timidamente mi accostai all’insolito interlocutore per saperne di più, perché un traguardo così ambito m’incuriosiva. “ Mia madre è deceduta da oltre trent’anni, ” precisò con naturalezza, “ma per me è come se non fosse mai morta” La sento, l’ascolto tutti i giorni e la festeggio tutti gli anni, come se fosse accanto a me con la dolcezza del suo sorriso che mi aiuta a vivere. Una madre non muore mai e nessun figlio si spoglia della placenta che l’avvolge per tutta la vita.” In quel fascio di rose scarlatte che lo sconosciuto teneva in mano e nelle sue pacate parole lessi l’amore e la certezza che lo guidava. La fede, pensai, è una virtù che aiuta a vivere, una grazia che illumina, una forza che intinge la ragione nella certezza. La madre, morendo, aveva lasciato in eredità a quell’uomo non soltanto la forza del suo amore materno, ma gli aveva trasmesso “il testimone” della vita, in quella che è e rimane una corsa a staffetta tra genitori e figli. Ma per vincere e arrivare alla meta, non basta la forza e la volontà, bisogna correre sospinti dall’alito di chi ci ha donato la vita. Si può vivere la gioia di avere dieci figli, ma la forza che si riceve dall’amore avuto dalla propria madre è una fonte che non si esaurisce mai.   “ Un fascio di rose rosse….”, forse è l’inizio di una preghiera profumata inviata a colei che ci sostiene e ci accompagna per tutta la vita. Saro Pafumi

lunedì 22 aprile 2013

Il diritto di proprietà cancellato

Meno male che mio nonno è morto, pace all’anima sua, perché se doveva pagare l’IMU sulla casa che abitava, conoscendo la sua spilorceria, sono certo che avrebbe venduto la casa e si sarebbe ritirato in convento. Occorre prendere atto che oggi chi possiede una casa se non è un disgraziato, poco ci manca. Un tempo chi possedeva una casa era considerato fortunato e chi era proprietario di un pezzo di terra possidente. Oggi entrambi appartengono alla categoria degli “inquilini” tartassati, essendo venuto meno il diritto di proprietà. Ne sanno qualcosa le migliaia di agricoltori che possedere anche poca terra è come avere una malattia in famiglia. Un tempo la loro unica preoccupazione erano le calamità naturali: grandine, mal secco, filossera. Oggi queste malattie hanno un solo nome: imu. Ricordo ancora la voce squillante di un mio compaesano, comunista doc “ Nunziatu a monica” che dall’alto di un tavolo, lui che a malapena raggiungeva, scarpe comprese, un metro e sessanta, negli anni cinquanta nella piazza principale di Linguaglossa “ attizzava” i contadini, mezzadri compresi, al grido, arrabbiato, acuto e squillante: “ La terra ai contadini”. Oggi se quello stesso grido disperato ma insieme augurale fosse ascoltato dai contadini, il povero Nunziato a monica” sarebbe, a furor di popolo, rovesciato dal tavolo e inseguito con i forconi. Cambiano i tempi, le risorse, le energie, gli uomini e le idee, ma la terra rimane ancora oggi la nostra unica fonte di sostentamento. Peccato che questa realtà l’abbiano dimenticato sia i contadini sia lo Stato, i primi nell’illusione di vivere una vita migliore, affrancata dalla fatica dei campi, ora che la meccanizzazione ha reso tutto meno oneroso e lo Stato che si ostina a tartassare o non tutelare quella parte di ricchezza che la natura con generosità ci regala, facendoci odiare anche il vaso di prezzemolo che teniamo sul davanzale della finestra.


Pubblicata su La Sicilia 22.04.2013. Saro Pafumi

lunedì 15 aprile 2013

Un popolo che venera il dio denaro

“ Un si ni po’ chiù” un monologo corale che si sente ripetere ad ogni angolo di strada, al bar, sul bus, in treno, alla Tv e persino in famiglia prima, durante e dopo i pasti. Il tema è sempre lo stesso: il denaro che, di metallo o di carta, ci avvolge, ci coinvolge, si rivolge a grandi e piccoli senza distinzione di sesso, lingua e religione. Un’ossessione che ci condiziona, ci pervade, ci plasma a suo piacimento come peste bubbonica che corrode corpo e anima. Una tragedia collettiva sempre esistita, che la crisi attuale, ha materializzato trasformandosi in una maschera infeconda che ci ha reso maledettamente uguali. Dove non ha potuto la rivoluzione francese col suo grido: “égalité, ha potuto il dio denaro che tutto divide e tutto accomuna verso il basso. “ Un si ni po’ chiù” è diventato l’inno nazionale sotto la cui bandiera si riconoscono popoli e nazioni. Si vota, ci si sposa, si divorzia, si vive, si muore “di” e “per” denaro. “ Spread, tasso, interesse semplice o composto sono i nuovi messaggi evangelici che sostituiscono fede speranza e carità. Del resto cosa dice il prete? “ Senza stola non si confessa e senza soldi non si canta messa”. E se la predica viene da quel pulpito, cosa resta per sperare? “Dacci oggi il nostro euro quotidiano” il nuovo Pater che ha sostituito l’antica preghiera cristiana. Dal confessionale non ascolti più la voce del ministro di Dio che per penitenza ti assegna tre Ave e tre Pater, ma un’offerta per le Ancelle della Divina Misericordia. Anche nei sogni il denaro ha fatto il suo prepotente ingresso non come gesto d’amore, di piacere o d’indulgenza, ma come angoscia, incubo che ti fa gridare nel bel mezzo della notte, sudaticcio e mezzo assopito: “Un si ni po’ chiù” mentre banconote, grandi quanto manifesti murali, ti svolazzano attorno senza che le mani possano coglierne una. Saro Pafumi


Pubblicata su La Sicilia 15.04.2013

martedì 9 aprile 2013

Piano Provenzana: si sciolgono neve e speranza


“Una riflessione è forse d’obbligo” conclude il suo articolo l’amico Incorpora a proposito della riapertura degli impianti di Piano Provenzana vanificata dalla pioggia di cenere, (La Sicilia 06/04.) Il problema è che continuando a riflettere senza fine la neve si scioglie e insieme la speranza. Mi chiedo: Ora che gli impianti di risalita sono ultimati grazie agli sforzi di chi è preposto alla ricostruzione e al funzionamento, cos’altro ci vuole per fare ripartire la ricostruzione delle infrastrutture senza le quali gli impianti sono una cattedrale nel deserto? Sull’argomento sono stati versati fiumi d’inchiostro da chi ha a cuore le sorti di questo versante, ma finora la soluzione non s’intravede. Undici anni sono un’eternità per mettere in cantiere la ricostruzione, con le conseguenze che la crisi in atto comporta. A ciò si aggiunge che a luglio di quest’anno scade la convenzione con la società che ha in concessione la strada che porta al cratere per le escursioni e gli animi di quanti vogliono partecipare a questa fetta di turismo in itinere sono già in ebollizione. La vicenda per chi conosce i termini della concessione è complessa e le soluzioni sono alquante nebulose se non addirittura inesistenti allo stato attuale. Si corre il rischio che anche questa fetta di turismo estivo finisca a bagnomaria con gli esiti disastrosi per l’economia di questo versante, come se il tempo trascorso inutilmente non sia stato foriero di disagi. A parte gli investimenti economici e organizzativi che tali iniziative comportano, mancano del tutto le strategie o almeno sono alquanto nebulose. Gli umori poco allegri, i mal di pancia, i mugugni sono abbastanza diffusi. Sono gli unici, concreti elementi presenti “in piazza”, oltre alla visibile cenere vulcanica che con puntualità quasi quotidiana ci ricorda che qui tutto “è noia, noia, noia” come recita una vecchia canzone ritornata
Pubblicata su La Sicilia 09.04.2013
Saro Pafumi

sabato 6 aprile 2013

Quelle foto color seppia

Quelle foto color seppia


Facebook, più che un libro da sfogliare, è un circolo mediatico globale, dove incontrare persone sconosciute, amici con i quali scambiare ricordi, riflessioni, opinioni, battute che fanno da collante tra quanti accedono a questo servizio. A volte sul sito capita di trovare interessanti foto dei nostri paesini etnei, tra queste, le più pregevoli, quelle che raccontato vita, costumi e personaggi d’altri tempi. La nota curiosa della pubblicazione di queste foto è il dibattito che scaturisce attorno ad esse, all’interno del quale spicca in particolar modo la nostalgia di quanti, emigrati, apprezzano quelle foto come frammenti della loro anima lasciata lì a fiorire. Ricordi scoloriti, eppure presenti nella memoria di ognuno. La nostalgia che colpisce l’emigrato di fronte a queste foto è un rimpianto malinconico, spesso legato alla giovinezza o all’impossibilità di rivivere le emozioni legate al tempo trascorso. Per chi, invece, non ha vissuto “il martirio” dell’emigrazione, rimanendo nel proprio paese, con il quale ha condiviso le ferite inferte dal tempo, quelle foto color seppia esprimono sentimenti diversi: rabbia, frustrazione. delusione per come il proprio paese si è degradato, calpestando storia, tradizioni, usi, costumi che invece l’emigrato ha conservato intatti nella memoria. Due modi diversi di giudicare. Eppure, quelle foto color seppia siamo noi, deformati dallo specchio del tempo, immagini scolorite nelle quali ciascuno cerca invano se stesso come se il tempo trascorso non ci appartenesse. Saro Pafumi

martedì 12 marzo 2013

L'assedio di Grillo alla politica

Ho l’impressione che in molti non abbiamo compreso a fondo il fenomeno Grillo. Quale la sua strategia? Essa è racchiusa in una frase rappresentativa rivolta ai politici: “ArrendetevI! Siete circondati” Una frase intesa come assedio alla vecchia politica che va spazzata nella sua totalità. Per ricavare un’immagine plastica dello scopo politico di Grillo basta fare riferimento agli assedi medievali, quando l’esercito assediante, forte di catapulte, torri semoventi e arieti cercava di scalare le mura nemiche o di fare breccia espugnandole e ridurre alla resa il sovrano assediato. Le moderne armi di Grillo sono le socialnetwork con le quali vuole espugnare la vecchia politica per costruire un ordine nuovo fondato su regole diverse, Costituzione compresa. Allo stato il risultato elettorale di Grillo ha prodotto profonde brecce nelle certezze della politica, ma l’assediante non è riuscito ancora a penetrare nella fortezza da espugnare. Il tempo gli darà ragione? Dentro le mura nemiche, il caos è totale e le strategie difettano. Se la strategia di Grillo resisterà alle sirene ammaliatrici del potere la presa della Bastiglia è prossima, senza spargimento di sangue, ma con mezzi democratici. Non c’è che attendere “il diciotto brumaio”. Mi sembra di vedere Grillo travestito da Murat entrare nella sala del Consiglio dei Cinquecento ( Parlamento) urlando “ Sbattete fuori tutta questa gente”. A volte la storia, capricciosa, si diverte a ripetersi. Saro Pafumi

sabato 2 marzo 2013

Pensionati emigranti

• “I popoli che abbandonano la propria terra sono condannati alla decadenza” Una frase di Mussolini, che qualcuno dice d’ispirazione dannunziana. Comunque sia c’è del vero in quest’affermazione terribilmente attuale. Una nota trasmissione televisiva denunziava la scelta di molti pensionati che hanno deciso di trasferirsi dall’Italia, per esempio in Tunisia, non per ragioni turistiche, bensì economiche, laddove una sia pur magra pensione consente un menage quotidiano sereno e accettabile. Se ai molti giovani che hanno già abbandonato l’Italia o si propongono di farlo, aggiungiamo i pensionati, una categoria mai sfiorata dal desiderio d’emigrare, “la decadenza” è dietro l’angolo e con essa la desolazione di un territorio, al cui interno rimane la solitaria, forzata massa dei cassaintegrati, ai quali nemmeno la possibilità di espatriare è data. Quell’amara riflessione unita alla speranzosa esortazione di non abbandonare la propria terra, può non piacere per la fonte che l’ha ispirata, ma è terribilmente ammonitrice sulle negative conseguenze di una simile scelta. Nell’animo del pensionato costretto a emigrare non c’è la fiduciosa attesa del giovane emigrante, bensì la consapevolezza di una fiducia tradita, l’amarezza di un esilio anche se liberamente scelto. Sembra ascoltare le accorate parole del Manzoni: “ Addio, monti sorgenti dalle acque, ed elevate al cielo, cime inuguali note a chi è cresciuto tra voi… Quanto è tristo il passo di chi, cresciuto tra voi, se ne allontana!” Vorrei che l’amarezza di questi versi non sia il canto nostalgico del pensionato-emigrante, ma il grido straziato dei politici, ai quali riserverei la sorte di abbandonare il proprio paese, o di viverci tra le stesse ristrettezze riservate ai pensionati.


• Pubblicato su La Sicilia il 02.03.2013. Saro Pafumi.

sabato 23 febbraio 2013

Linguaglossa e i suoi figli migliori.


Non molto tempo fa Linguaglossa si mobilitò in pompa magna per accogliere il Prof. Di Bella che con la sua somatostatina aveva creato un certo interesse scientifico nella cura contro il cancro. Fino allora il nome del Prof Di Bella era conosciuto solo negli archivi anagrafici del Comune di Linguaglossa. Giornali e televisioni a quel tempo non lesinarono nulla sulla vicenda e il nome di Linguaglossa, paese natio del professore, rimbalzò agli onori della cronaca. Poi in seguito a dibattiti e convegni, la cura fu dichiarata inefficace, almeno nelle forme e nei modi indicati dallo scienziato. Il nome del Prof. Di Bella piombò nell’oblio e con esso Linguaglossa con le sue celebrazioni in onore del figlio prediletto Linguaglossa non è nuova a simili infruttuosi esploits. Negli anni sessanta stessa sorte toccò a F. Messina, figlio anch’egli di questa terra, che “disdegnò” Linguaglossa per motivi tuttora poco chiari, ma non del tutto. Di recente “la disattenzione” del paese verso i suoi figli migliori ha mietuto altre vittime, sia in campo politico, che in quello letterario e artistico, ligia alla regola.” Nemo profeta in patria sua” Di questo difetto congenito di Linguaglossa, la primogenitura spetta paradossalmente proprio F. Messina che nel lontano 1932, stando ai suoi stessi ricordi ne fece le spese nel suo paese natale. Nell’episodio raccontato dall’Artista, si annida, forse, la radice del disinganno verso la sua terra, se la mancata accoglienza, allora pomposamente annunciata dalle autorità locali (podestà era il dr. Rosario Reganati) con tanto di banda all’ingresso del paese fu un vero fiasco. “ A ricevermi all’ingresso del paese non trovai che lo zio e due suoi amici…disoccupati” E più oltre, il suo commento sulla vicenda: “Fortunatamente in Sicilia certi progetti entusiastici, perseguiti fervorosamente nell’immaginazione, raramente si concretano. Si sviluppano nella mente ma poi si afflosciano nell’incontro con la realtà, barriera quasi insormontabile per chi ha elaborato un’idea e l’ha, per ciò stesso esaurita”. Messina visse a Linguaglossa solo pochi anni quattro o cinque, ma la sua sensibilità di artista, proiettata a penetrare nell’animo umano gli permise di scrutare attraverso il carattere dei genitori, quello più in generale dei siciliani. Forse sta qui la chiave per interpretare Messina e il rapporto travagliato che ebbe con la “sua” Linguaglossa, ma anche con la Sicilia in generale, dalla quale non ricevette commissioni artistiche (parole sue), se non in ritardo rispetto alla sua riconosciuta fama. Ecco il suo amaro sfogo, quale trapela da una lettera confidenziale inviata a un amico, che affida ai versi di Foscolo: ” Tu non altro che il canto avrai del figlio, o amata mia terra….”.Il resto è vita. Saro Pafumi