martedì 30 gennaio 2024

Ora "Ascuta!" lo dico io.

 

Ora “Ascuta !” lo dico io.

Era immaginabile l’imbarazzo di ASCUTA a rispondere alle mie due domande. rimaste senza ascolto. Il che contraddice la finalità della vostra associazione/partito. Se avete scelto come logo “ASCUTA”, è prevedibile che qualcuno vi ponga una o più domande, perché l’esortazione ad ascoltare contiene un messaggio fatto di parole. Se mancano queste, il dialogo, si fa per dire, diventa tra muti. Dove starebbe la conclamata novità del vostro essere diversi dagli altri, se vi private delle parole o le impedite agli altri? Mi verrebbe da dire che siamo caduti dalla padella nella brace, il che era prevedibile, perché spogliarsi di pregiudizi, in questo nostro paese è impossibile. Ne è pieno il nostro DNA. Altro che nuove generazioni, se si rimane ancorati a un passato che non muore. A questo punto, permettetemi un consiglio: o cambiate musica o cambiate il vostro logo, sostituendolo con altro di questo tenore: “Iò ma cantu e iò ma sonu”.Auguri per il vostro futuro.

 

lunedì 29 gennaio 2024

Linguaglossa,un paese di spettatori

 

Linguaglossa, Un paese di spettatori.

Poco è cambiato in questi ultimi cinquant’anni. La popolazione continua a essere assente nella vita pubblica del nostro paese. Al tempo dei partiti, gli schieramenti erano definiti, e i cittadini usavano il battimano per acclamare i leader del proprio partito. Memorabili gli scontri tra i giganti della politica. Da una parte G. Barletta e dall’altra S. Calì. I cittadini spettatori di battaglie che non capivano, ma fedeli al proprio credo politico. Oggi di questi dibattiti rimane solo uno sbiadito ricordo. Sopravvive una loro lontana eco nel vari social, senza quell’afflato politico, che segnava i dibattiti di allora. La distanza tra chi amministra e il popolo é più marcata. Quasi incolmabile. Si parla di politica solo nei bar, tra un cappuccino con cornetto e un buon caffè, distanti, come siamo, dai tanti problemi che ci assillano. Fanno bene i politici a non tenere in nessun conto le poche opinioni che i cittadini manifestano sul loro operato. Hanno capito che i cittadini non hanno corpo, ma sono solo ombre vaganti in un mare d’indifferenza generale. Leggendo i vari social che sporadicamente si occupano della vita amministrativa del nostro paese, è evidente la “riservatezza” dei cittadini, con la quale si approcciano ai problemi, che diventa paura di manifestare la propria opinione, rinunziando in tal modo a quella libertà di espressione che deve essere patrimonio di tutti. Mettere “mi piace” alla fine di un articolo, è per molti come mostrare la propria nudità, che non è una forma di pudore, ma mancanza di coraggio. Per costoro non esiste alternativa. Il mutismo è la loro parola armata. con la quale non si persegue la verità, ma ci si accontenta di immaginarla. Siamo spettatori di una realtà che non  ci appartiene, avendo  delegato ad altri la facoltà di scegliere a posto di noi. rinunziando consapevolmente a ogni critica, che ha un solo nome: ignavia.

domenica 28 gennaio 2024

I lampioni di Piazza Matrice

 

I lampioni di Piazza Matrice.

Il territorio d un paese è come l’organismo umano. Bisogna averne cura, perché in caso d’incuria soffre per poi soccombere. In questo nostro paese si decide all’insegna del pressapochismo, senza che nessuno batta ciglia sul merito di certe discutibili iniziative. Come sia potuto accadere, mi chiedo, per esempio, che quei lampioni di rara bellezza che ornavano Piazza Matrice, siano stati, rimossi e collocati, se non erro, nella Villa Milana.La loro solenne presenza in quel posto dava alla piazza un’aria aristocratica da “Belle epoque”. Nella Villa Milana, invece, quei capolavori di arte tardo romantica si confondono con le numerose piante, perdendo valore e fascino. La visione di quei lampioni suggeriva una concezione romantica della vita, rappresentata dalla suggestiva canzone di Modugno “L’uomo in frac Si diceva: “ Come sia potuto accadere…..”. Purtroppo in quel periodo di felice fermento del paese, sì intrecciavano interessi di bottega. Accadeva, infatti, che si lucrasse su certi lavori pubblici, per cui “il fare” si mescolava “al ricevere”, eseguendo opere pubbliche, nella certezza di ricavare benefici personali. Lo spostamento dei lampioni dalla Piazza a Villa Milana, con la scusa di rinnovare l’illuminazione del sito, con altra ben più moderna, rappresentava una ghiotta occasione di spesa, che non andava sprecata. Se questo spostamento comportasse una scelta scellerata, poco importava, suffragata, com’era, dall’indifferenza del paese. Altro esempio, la costruzione del ponte sulla linea ferroviaria della Circum etnea. S’iniziava l’opera sfruttando un finanziamento, pur con la  consapevolezza di non poterlo ultimare, lasciandolo incompiuto per oltre trent’anni. Poco importava  se quel manufatto incompiuto  deturpasse un quartiere. La logica era sempre la stessa: spendere e spandere, ossia sperperare  al fine di lucrare. Oggi la politica è cambiata: non si fa nulla. Siamo caduti dalla padella nella brace. In compenso è accresciuta l’attenzione verso il territorio, non certamente nei confronti del tessuto urbano, che continua a essere ignorato, ma su problemi più ordinari: la raccolta della spazzatura, la circolazione viaria, la refezione scolastica, ecc. Abbiamo perso l’abitudine di pensare in grande e viviamo di rendita, quella lasciataci da chi ci ha preceduto. E i giovani? Hanno altro cui pensare, troppo fragili per accettare le difficoltà e gli inciampi che la vita gli offre. Soffrono per mancanza di prospettive. Da qui la loro voglia di cambiare tutto, senza però una visione valida su cui far confluire il loro sforzo. In quest’epoca di transizione non ci resta, dunque, che segnare il passo, in un’attesa indolente e senza scopo.

 

giovedì 25 gennaio 2024

Il sapore del passato.

 Il sapore del passato.

Spesso la nostalgia del tempo passato invade la nostra anima. E’ il momento in cui i nostri ricordi assumono forma, e l’anima si scioglie nel delirio di viverli. Momenti, che il tempo ha sbiadito, ma non spento. Ogni mezzo è utile per tuffarci nel passato. Un frutto, un fiore, un dolce, inghiottiti dalla monotonia della vita quotidiana, ci fanno ritrovare il sapore del tempo perduto La mostarda, la cotognata, le castagne infornate con le divertenti “scattiole”sono sapori che continuano a deliziarci. Assaporare un grappolo di uva bianca appesa alla trave del solaio, per consumarla fuori temo, diffusa consuetudine per quei tempi, ci riporta al tempo della vendemmia, con i suoi riti e le sue tradizioni. Ritrovare la ‘muscatedda’, oggi scomparsa, ci ricorda la guerra che si combatteva tra il pecoraio, il massaro, il confinante, le vespe e il padrone, tutti in corsa per accaparrarsela. E la soppressata casalinga appesa alle canne, per asciugare? E le frittelle di ricotta coperte di zucchero? Quanta nostalgia per i ciclamini e le violette, che si raccoglievano nei noccioleti al tempo della raccolta, che par facessero rivivere “il Sabato del villaggio”. Quanti i contadini che tornando a casa trascinavano seco nei pantaloni intrisi di fatica e fango, il profumo della “nipitedda”, che si accompagnava alla “mpicalora”, croce e delizia per le mogli, che quei logori, infestati vestiti dovevano ripulire. Fa tanta tenerezza vedere ancora tra le tegole che coprono la stalla rari mucchi di ficodindia, oggi sostituiti, per colazione, da caffèlatte burro e marmellata. E il sanguinaccio, nella versione dolce, con pinoli e diavolini colorati, come guarnizione? Che delizia, perduta ! Oggi, questi ricordi sono sepolti nella memoria, ma quando riemergono, ci restituiscono brandelli di spensierata gioventù, Sono le ali della nostra fantasia, che ci fanno volare tra cieli tinti d’azzurro e pieni di sogni: desiderio d’immortalità. 

mercoledì 24 gennaio 2024

La telenovela

 

La telenovela.

E’ diventata una ‘vexata quaestio’ la telenovela dei quadri che il nostro concittadino Mario Vasta, artista di talento, aveva intenzione di donare al Comune di Linguaglossa, suo amato luogo di nascita. Tra alti e basi, proposte accettate o respinte, soluzioni suggerite e scartate, ammiccamenti e ipocrisie varie, si articola tutta la vicenda, la cui soluzione è ancora lontana. Forse si sta aspettando che la famiglia dell’Artista si stanchi di questo ignobile, altalenante condotta e mandi tutto a monte. Ipotesi plausibilissima e giustificata, per chi nei panni dei donanti, incontra tanta resistenza e/o incomprensione verso un atto di assoluta generosità. Sento di esternare una sensazione di sdegno oltre che verso le Autorità, che non riescono a risolvere la questione, anche nei confronti della popolazione, che in un frangente come questo, si limita a guardare. Capisco che la cultura non interessi più di tanto, paradossalmente nemmeno a coloro, che pomposamente dichiarano di curarla, ma in casi come questi, l’orgoglio di un paese deve farsi sentire, perché se vogliamo che Linguaglossa cresca, lo sforzo deve essere corale. Se una questione, come quella in atto, non trova soluzioni, nonostante la sua superabile, connaturata semplicità, cosa dovremo aspettarci per problemi ben più complessi? Se in questo paese non abbandoniamo la cultura dei favoritismi a questo a quello di turno, non diventeremo mai adulti. La questione dei quadri è, di là della pochezza di chi deve decidere, la cartina di tornasole di una società spenta e lontana dai problemi del paese.

lunedì 22 gennaio 2024

Linguaglossa, un paese "irredimibile"

 

Linguaglossa. Un paese “irredimibile”.

Nemmeno al tempo dei partiti politici esisteva la guerra che oggi c’è tra noi cittadini. Sembra una guerra civile poggiata sul nulla, perché di nulla stiamo parlando, in un paese immobile, alla ricerca di un’identità perduta. Un’atmosfera di odio e indifferenza che si nota camminando per le strade o smanettando tra i tanti social, che ci ‘deliziano’ giornalmente. Da che cosa nasce questo senso d’incomprensione, divenuto avversione, è poco chiaro. Forse dall’insoddisfazione, che c’è dentro di noi, la cui causa ci piace addebitare agli altri. E così’ ogni parola, commento o critica diventano pietre scagliate contro gli altri. In questa sassaiola, che ci riguarda tutti, restano confusi i ruoli dei protagonisti, e non si capisce chi lancia e chi riceve i sassi. Una sola cosa appare chiara: ciascuno si sente vittima di qualcosa o qualcuno. In questo pericoloso piano inclinato in cui si sostanzia l’intera comunità, è comodo sconfinare nel personale, passando alle invettive, anziché confrontarsi su problemi generali, che riguardano il futuro del paese. Un confronto su temi generali, diventa un cortile, un affare tra comari, dimostrando a quale livello intellettivo è giunta la nostra società, che per certi versi, non c’è da stupirsi, ricalca il palcoscenico dei dibattiti in TV. dove trionfa un provincialismo da strapazzo. In questo clima da cortile, forse è meglio tirare i remi in barca, perché per un paese che non vuol crescere, non c’è nessuna discussione utile da portare avanti. Prendendo a prestito, un’affermazione di Sciascia, vien da dire che Linguaglossa, è divenuto un paese “irredimibile”.

domenica 21 gennaio 2024

Le lacrime e la verità

 

Le lacrime e la verità.

Chissà se un giorno la scienza riuscirà ad analizzare le lacrime non nella loro composizione chimica, che già si conosce, ma come emozioni e sentimenti che contengono. Si piange per un dolore fisico, per una sofferenza emotiva, per la perdita di una persona cara, per rabbia, tristezza, cordoglio, frustrazione o in qualche caso anche per gioia. Identificare il grado di dolore o gioia nelle lacrime può essere l’inizio di un percorso ben più importante: distinguere le vere lacrime da quelle false, il che significa scoprire le variazioni degli stati affettivi..Già siamo sulla giusta strada perché è stato scoperto che le lacrime emotive contengono elementi più alti di proteine. manganese, potassio e ormoni, che, se non liberati, potrebbero nuocere all’organismo. Una scoperta che avvicina la ricerca della verità, quella che l’uomo tende a raggiungere, senza mai riuscirci. La speranza è nella scienza, Se si è scoperto,così pare, il peso dell’anima, non è lontana la possibilità di scoprire la verità, che c’è dentro di noi. E’ stato scoperto che una coppia di cromosomi X e Y (XY) determina un maschio e una coppia di cromosomi X e X (XX) determina una femmina. Chissà se esiste il cromosoma che contiene la verità. Sicuramente in un anfratto sconosciuto e remoto della nostra mente esisterà il cromosoma della verità. Se la verità ha una sua struttura,costituita dal rapporto tra pensiero e realtà, scoprire questo rapporto , significa scoprire la verità, che nessuno può mettere in dubbio,giacché ci sarà corrispondenza tra ciò che si pensa e la realtà. Se scoprire le lacrime finte da quelle vere, è possibile, sarà possibile scoprire le parole finte da quelle vere. Se si dovesse scoprire tutto ciò, il modo sarebbe certamente migliore.

 

giovedì 18 gennaio 2024

Un paese che odia è un paese destinato a non crescere

 

Un paese che odia è un paese destinato a non crescere.

Come si fa a far capire a tanti cervelloni pensanti, che criticare il proprio paese, non significa denigrarlo, ma stimolarlo a crescere?

Come di si fa a far capire a tanti cervelloni pensanti, che criticare il proprio paese, offrendo soluzioni, significa amarlo e farlo crescere?

Come si fa a far capire a tanti cervelloni pensanti, che la critica costruttiva, oltre che un diritto è un dovere?

Come si fa a far capire a tanti cervelloni pensanti, che la critica non è mai personale, ma riguarda le istituzioni, a prescindere dal colore?

 Come si fa a far capire ai cervelloni pensanti, che la verità va sempre detta, anche se fa male ascoltarla?

Non serve criticare chi critica, ma confutare con atti concreti ciò che non si condivide, fornendo risposte adeguate.

Non serve seminare odio verso chi critica, che significa fuga da se stesso, frutto dell’ignoranza e simbolo di debolezza intellettuale e causa di disgregazione sociale.

Piuttosto cerchiano di mettere insieme i cittadini di una collettività, tenendoli insieme, come si fa con i grani del rosario, non da un sottile filo, ma dalla solidarietà. 

mercoledì 17 gennaio 2024

Il turismo,una risorsa.

 

Il turismo, una risorsa

Linguaglossa dopo “la scorpacciata” degli eventi estivi rientra nella normalità, che si concretizza nello stato di sonnolenza che la caratterizza ormai da tempo.

Forse, tirati i remi a bordo, da un’imbarcazione ferma, sarebbe il caso di pensare a come recuperare il tempo perduto.

Linguaglossa ha due serbatoi da cui attingere per il suo sviluppo: il centro cittadino e l’Etna.

Il primo richiede attenzione, conservando quello che di buono possiede e rendere godibile quella parte trascurata che potrebbe fornire aspetti di sviluppo. Penso alle numerose stradine all’interno del tessuto urbano, molte ricche di fascino, che potrebbero, se oggetto di cura, rappresentare un gioiello da condividere e presentate come elemento caratterizzante del tessuto urbano. Su quest’argomento ho scritto un post, che pubblico separatamente. Chi ha voglia di leggerlo lo troverà su FB: “Le stradine non muoiono”.

Per quanto riguarda il tema Etna. In problema è più complesso. Ci sono errori irrimediabili e altri che si possono ancora correggere, se si vuole mettere mano a un serio, armonioso sviluppo.

Gli errori. Avere in primo luogo progettato la posizione delle casette-souvenir in posti distanti tra di loro. Alcuni certamente penalizzati nel periodo invernale. Altri collocati in un sito che toglie visibilità al complesso che sta alle spalle e crea problemi di circolazione nel periodo invernale. Più di tutto è incomprensibile la sistemazione degli alberghi così distanti l’uno dall’altro. In alta montagna sarebbe stato opportuno avvicinarli tra di loro. Rimuovere montagne di neve costa. L’area residenziale sarebbe  potuta essere progettata a forma di ferro di cavallo, con gli alberghi al centro e le casette- souvenir, ai lati. Alle spalle ampi parcheggi. Competenti urbanisti avrebbero di certo meglio progettato la zona. Oggi è impensabile modificare l’ubicazione delle casette, ma le strutture residenziali potrebbero avere una migliore posizione.

Solo riflessioni, nulla di più, che, però, potrebbero essere la piattaforma per approfondimenti in materia. Certe soluzioni potevano essere oggetto di studio molto indietro nel tempo ma tant’è. Forse è tropo tardi? Parlarne giova.

 

domenica 14 gennaio 2024

Quei segnali d'allarme spesso sottovalutati

 

Quei segnali d’allarme spesso sottovalutati.

Certe tragedie familiari che troppo spesso irrompono nella società d’oggi, col fragore di una bomba, non nascono quasi mai per caso. Se così fosse potremmo parlare di pura follia. Hanno invece una genesi prolungata, un malessere che cova sotto cenere, per poi sfociare in delirio puro: una sofferenza metabolica del cervello che catapulta il soggetto in una realtà senza ragione. Ogni forma di prevenzione è difficile, perché il soggetto non comunica al mondo esterno questo suo personale malessere, rimanendo confinato dentro il suo io malato. Né può essere diversamente, perché chi n’è affetto non cerca aiuto negli altri, consapevole di non poterlo ricevere, vivendo in una società di per sé malata, in cui ciascun individuo è più o meno afflitto dagli stessi problemi e quindi incapace di offrire aiuto e/o comprensione, a partire dai parenti più stretti. In questa forma di isolazionismo autogestito, il malessere assume forme parossistiche irreversibili. Da qui al baratro il passo è breve. In queste condizioni, consapevoli del disagio che si vive, sarebbe il caso che chi n’è affetto, si affidi, senza remore, a strutture adeguate, ossia a centri medici che sappiano interpretare i disagi dell’anima e offrire quel supporto psicologico di cui necessita il soggetto malato. Perché di vera malattia si tratta e non di semplice raptus . Coloro che sono vicini a queste famiglie (genitori, fratelli, sorelle, ecc), in cui il disagio del quotidiano vivere non può non essere non visibile, dovrebbero essere le prime sentinelle a far scattare l’allarme, magari allertando apposite strutture di cui la società è carente, ma di cui si sente impellente bisogno. Pubblicato oggi 14.01.2024 su La Sicilia

sabato 13 gennaio 2024

Mia madre e le 'cuzzole'

 

Mia madre e le 'cuzzole'.

Ogni venerdì era una gioia ritornare a casa, dopo una settimana di lezioni universitarie a Catania. Sapevo che il giorno dopo mia madre mi avrebbe preparato le “cuzzole”.Durante la settimana avevo fatto il pieno dei famosi arancini acquistati da Guardina, che teneva il negozio di gastronomia in Via Etnea all’altezza della Sala Roma. Inconfondibili oltre che per il gusto, per l’aroma che catturava l’olfatto di chi si trovava nei pressi. Altro negozio che mi attraeva era la gastronomia Cristaldi, ubicata nei pressi dello slargo da cui dipartiva Via Caronda. Un luogo magico per la preparazione della famosa pasta alla palermitana e per le polpettine fritte di “muccu”. Il sabato mattina mia madre mi mandava da donna Maria “a famusu” con panetteria vicino alla Matrice, per acquistate la pasta di pane, che serviva per la preparazione delle cuzzole.Un’arte in cui mia madre eccelleva, non servendole, come d’uso, inzuccherate, ma imbottendole con acciughe e formaggio primo sale o con formaggio e pomodoro fresco o con cicoli (zirinculi), secondo le preferenze dei familiari. Per distinguerle usava infilzarle con spezzoni di stuzzicadenti. Una vera prelibatezza, oggi quasi perduta, che mi ricorda gli anni della mia giovinezza. Sono tradizioni culinarie che vanno conservate e tramandate, non solo per la loro genuina preparazione, ma più di tutto per ritrovare la freschezza del tempo e preservarle dall’oblio.

venerdì 12 gennaio 2024

Una nuova religione

 

Una nuova religione.

Smanettando su Internet alla ricerca di notizie meritevoli di approfondimento m’è capitato “tra le dita” un sito che può definirsi “ilconfessionale” dei giovani e meno giovani, non quello di pregevole noce che tante volte abbiamo visto in chiesa, ma quello più moderno, rigorosamente telematico,nel quale ciascunoconfessa i propri desideri, spesso esclusivamente indirizzati alla ricerca dell’anima gemella, come panacea di frustrazioni vissute. Nessuno si sognerebbe di gridare in pubblico: ” Voglio fare sesso”, invece il significato nemmeno tanto criptato di questi messaggi telematici è proprio questo. In una società che del consumo e del sesso,oltre che di altre biasimevoli abitudini, ha fatto la propria religione, non c’è da stupirsi. Meraviglia non poco, però, la spregiudicatezzadi alcuni messaggi, in particolare di persone“felicemente” ammogliate con prole,alla ricerca di una seconda, terza, quarta anima gemella. Ciascuno di noi può nutrire inconfessabili desideri, ma prudenza impone di non esternarli in pubblico o per chi ci crede di affidarli, semmai, al proprio confessore o allo psicologo.Come si giustifichi questa confessione pubblica? Leggerezza, spregiudicatezza, disinvoltura, irresponsabilità, sfrontatezza? Solo terapia.Affacciarsi alla finestra di Internet non significadialogarecon la propria “Giulietta”,ma affidare al mondo intero le proprie frustrazioni, dove“ l’altro” è una sconfinata moltitudine di persone e la parolaha ilfragore rumoroso di un uragano, disperato, quantoillusorio. Un grido liberatorio di aiutodi chi in Internet cerca la fede o laforza di credere inse stesso. Forse sta nascendo una nuova religione: Google.

Il compleanno

 

Il compleanno.  (da: Collana di racconti).

Don Concetto aveva preparato tutto per il suo cinquantesimo compleanno. Era stufo di mangiare tutti i giorni pane e olive, pane e cipolla, o dissodando la terra, pane e lumache, che infilzava con la punta del coltello, arrostendole sulla brace,

o pane e formaggio, quel poco che riusciva a racimolare dal pecoraio, facendo finta d non vedere, quando questi portava a pascolo, a contratto scaduto, le sue pecore nelle terre del padrone. Stanco del solito mangiare, aveva portato alla moglie due chili di stocco, che aveva ordinato a don Maru, raccomandandogli che fosse della qualità San Giovanni, perché lo cucinasse alla messinese, come sapeva fare lei. Donna Rosa, cercando tra le poche derrate alimentari, che teneva in casa, si era accorta che mancava quasi tutto per preparare lo stocco, che piaceva al marito. Don Giovanni non era passato, come ogni mattina col suo carrettino, ricco di ortaggi e l’olio era poco, perché donna Rosa aveva saltato, per mancanza di soldi, il giro settimanale di donn’Affiu, l’ugghiularu, aiutandosi nella frittura con la più economica sugna. In quanto all’olio, pensava di chiederlo a comare Lucia, la vicina di casa, perché non tutte erano disposte a regalarlo, prezioso e costoso qual era. Per rimediare tutti gli ingredienti necessari a cucinare lo stocco doveva farsi il giro del quartiere, perciò si diede con le mani una sistemata ai capelli, si snodò il grembiule che indossava per le faccende domestiche, avviandosi per fare la questua. Si accorse che aveva ai piedi ancora le ciabatte, per cui tornò indietro per aprire l’armoire, dove teneva conservate le uniche paia di scarpe che usava la domenica, andando a messa e si avviò, chiudendo l’uscio alle spalle. Trovare ciò che le mancava non era difficile, perché, a quel tempo, tra le donne del quartiere la solidarietà era di casa, a partire dal lievito per il pane, che passava di mano in mano. Quando riuscì a rimediare il necessario, fece ritorno a casa, mettendo sul fuoco il tegame, perché tutto fosse pronto al rientro del marito, avendo cura di cucinarlo prima, perché riposasse, per esaltarne il sapore. A quell’epoca quando le donne avevano finito le faccende domestiche, si riunivano. di solito presso  qualche comare, sedute con le spalle al sole, per rammendare, cucire, spettegolare, in attesa che i mariti facessero ritorno dal lavoro. Don Turi era il primo che arrivava e l’ultimo ad avviarsi al lavoro, sfaticato com’era ritenuto nel quartiere. Le comari vendendolo rientrare, fischiettando, con la zappa in mano e lo zaino sulle spalle,guardavano divertite donna Mena,come per dirle : “Tu pigghiasti, ora tu cianci” Don Turi, in verità, se era sfaticato, aveva un pregio: amava sua moglie, e da lei era corrisposto. Ogni qualvolta tornava dal lavoro le portava sempre un pensierino: una manciata di fragole di bosco, avvolte in pampini di vite,un mazzetto di ciclamini, che donna Mena metteva sotto il naso delle comari,che invidiose erano, anche se preferivano nasconderlo. Poi era la volta degli altri mariti, che alla spicciolata facevano ritorno. Era il momento in cui il sole s’imbucava all’orizzonte,ognuna si riportava la sedia a casa e il raduno delle comari terminava, per dedicarsi al marito. All’epoca i compleanni si festeggiavano solo tra familiari, per le ristrettezze economiche, che non consentivano inviti. Donna Rosa per festeggiare il marito aveva pensato anche ai dolci: una resta di fichi secchi e  una manciata di ‘scattioli’, scelti tra le castagne infornate,assieme al vino che profumava di ginestra, quella che fioriva,rigogliosa, in contrada Borrigliona, dove don Concetto coltivava le sue poche  viti.

Oggi di quella società contadina e solidale non rimane nulla. Si è trasformata in una savana,dove le persone, tristi e inappagate, grugniscono e sbuffano come ippopotami o come coccodrilli sono in agguato pronti a versare finte lacrime per i mali altrui. I campi, un tempo rigogliosi, ora sono, abbandonati e coperti da sterco di pecora, dove germogliano solo ciuffi di finocchietto selvatico e le strade sono piene di rovi. Qua e là si vedono  vaste zone bruciate, che hanno divorato gialli cespugli di odorosa ginestra. Anche martore, donnole e conigli selvatici hanno abbandonato le loro tane per rifugiarsi in buchi profondi più dell’inferno. Si sentono solo i neri corvi pennuti gracchiare canti dì’imprecazione contro chi la sua anima ha abbandonato tra stoppie e rovi fumanti. Non ci sono più le comari, che sedute, con le spalle al sole, davanti all’uscio di casa, divoravano il tempo che non passava mai. Oggi in quelle case abbandonate danzano le porte sospinte dal vento, per attirare l’attenzione di chi passa, per invitarlo a entrare e risentire l’antico calore di chi prima le abitava. La società ha subito profondi cambiamenti, l’ultimo dovuto al covid, che ha allentato qualsiasi rapporto. Non ci riconosciamo più come vicini gli uni all’altro, accomunati dallo stesso destino, dove la solidarietà era la base di ogni rapporto umano. Lontano il tempo in cui donna Rosa chiedeva alla vicina di casa il lievito per il pane o se per caso avesse una cipolla, perché non aveva avuto tempo di andare a far la spesa, né quella mattina, come sperava, era passato don Giovanni col suo carrettino. E’ scomparsa pure la comparanza, servita a stringere un nuovo patto di amicizia in caso di matrimoni, battesimi e cresime, ridotti ai minimi termini per cause diverse. Un vincolo quella della comparanza che talvolta superava quello del sangue.

Non c’è più don Turi che torna a casa fischiettando, né donna Mena ad aspettarlo. Oggi i pettegolezzi si ascoltano alla TV, le comari di una volta si guardano in cagnesco e la solidarietà si trova solo tra i cani randagi, costretti a frugare tra i resti di un lauto pranzo. Fuori dalle abitazioni, a posto delle sedie, che ospitavano le comari, file di macchine posteggiate, che sembrano millepiedi, arti rubati agli uomini che hanno smesso di camminare, forse nell’illusione di tornare bambini e farsi cullare.      

 

 

 

 

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giovedì 11 gennaio 2024

Amiamo il paese in cui siamo nati?

 

Amiamo il paese in cui siamo nati?

Amare il proprio paese non significa amare anche gli abitanti. Per questi ultimi i sentimenti possono essere diversi: gelosie, invidie, risentimenti, divisioni politiche, questioni familiari ecc. L’amore per il proprio paese non è quello che nutre chi vi è nato, perché trattasi di un istinto atavico presente in ogni individuo. Se si fa questa domanda ai cittadini, un terzo non risponde, un terzo non sa motivarla, il restante confonde l’amore con il dovere. Amare il proprio paese significa contribuire al suo sviluppo, aggiungendo con azioni concrete qualcosa che manca, non limitato al solito balcone fiorito o al rifacimento di una facciata.

Amare il proprio paese significa:

-        Prendere parte a tutti i programmi di sviluppo.

-        Studiare la storia del proprio paese.

-        - Confrontarsi con le altre realtà vicine.

-        Conoscere la storia di coloro che ci hanno preceduto, rendendo migliore il territorio e l’economia del paese.

-        Rispettare le tradizioni.

-        Fare conoscere il paese a chi non l’ha mai conosciuto.

-        Insegnare ai propri figli ad amarlo.

-        Criticare le cose che non vanno, suggerendo soluzioni ed esempi.

-        Non considerare la Casa comune come casa propria, piegandola ai propri interessi.

-        Rispettare il territorio come casa propria, dedicandogli le stesse cure.   

Se si osservano questi suggerimenti, solo allora puoi dire di amare il tuo paese.

 

domenica 7 gennaio 2024

Don Vittorio e la moglie chiacchierona.

 

Don Vittorio e la moglie chiacchierona

Il suo negozio era appena a pochi metri da casa mia, vicino alla sacrestia. Nessuna insegna che ne segnalasse l’esistenza, essendo l’unico a vendere il petrolio a minuto. Mia madre mi mandava a comprarlo per rifornire i lumi, che, a quell’epoca, erano una fonte di luce, quando, troppo speso, la corrente mancava. Il negozio era gestito da don Vittorio e la moglie, che madre natura aveva messo insieme, anche se non avevano nulla in comune. Il primo, discreto e taciturno, com se covasse dentro di sé chissà quali sogni o segreti, o forse un tarlo, che, inflessibile e spietato, più tardi, lo avrebbe divorato. La moglie era una chiacchierona, che approfittava dell’ingresso del cliente, per sparlare di qualche paesano, di cui elencava i molti difetti. Un vero tritacarne o valente giocatrice di carambola. Perché avere la stecca in mano (il metro del giudizio), il piano di gioco (la società paesana) e una palla (la persona presa di mira), con esse faceva il gioco delle quattro sponde. Eccelleva nell’ambito del sortilegio, che esercitava per neutralizzare chissà quali mali. Se fosse vissuta al tempo dei romani l’avrebbero chiamata Erodiade, raffigurandola con una grattugia in mano, intenta a spargeva sale su tutto ciò che la circondasse. Dirimpetto al negozio di don Vittorio, altro esercente esponeva di solito la stesa mercanzia, per cui la concorrenza era spietata Tutte le volte che un cliente preferiva il dirimpettaio, “Erodiade” spargeva sale lungo la strada, per neutralizzare il successo del concorrente. L’interno del negozio poteva definirsi l’anticamera dell’inferno. Quasi sempre al buio, il risparmio era d’obbligo, o illuminato, si fa per dire, da una lampada di dieci Watt. Le mercanzie esposte erano poche, oltre al prezioso petrolio, che teneva in un angolo buio del retrobottega, dove non si sa come riuscisse a misurare la quantità da vendere, l’altra mercanzia era costituita da: lampadine, stoppini, e tubi in vetro per lumi, bicchieri, assieme a bottiglioni damigiane e ‘quartare’, articoli, questi ultimi, in comune con l’odiosissimo concorrente. Don Vittorio in paese era conosciuto anche per altre storie. Si raccontava che fosse stato un valente insegnante d’inglese, la lingua dei britannici, assai rara per quei tempi. Il perché fosse ‘caduto in disgrazia’ non è noto. A me ragazzino importava portare a casa il petrolio, che serviva a mia madre o farmi quattro risate quando, uscendo, la moglie mi precedeva, spargendo sale sulla strada, quando un cliente aveva acquistato dal dirimpettaio. Nonostante la povertà del negozio, molto diffusa a quei tempi e la scarsa offerta, don Vittorio riusciva a mantener la famiglia e a condurre una vita dignitosa, coadiuvato dalla moglie che rappresentava, per il suo carattere, l’elemento più interessante dello strano sodalizio, se è vero che era quest’ultima a caratterizzare l’esercizio con la sua lingua ‘taglia e cuce’, una vera dote, in un paese, dove di pettegolezzo si vive e non si acquista come il petrolio di don Vittorio.

martedì 2 gennaio 2024

Quando la salute e la sicurezza sul lavoro non interessano a nessuno

 Quando la salute e la sicurezza sul lavoro non interessano a nessuno.

Le riflessioni che seguono nascono dall’esperienza e da ciò che capita di vedere tutti i giorni, come nel caso dell’impianto carburanti in strutturazione all’uscita del centro urbano di Linguaglossa.Nel luogo di lavoro le condizioni di salute e sicurezza dovrebbero stare al primo posto. Chi è preposto alla vendita di carburante nelle stazioni di  servizio, il più delle volte non è cautelato in termine di salute e sicurezza. Procedere alla vendita senza una copertura che lo ripari dalle intemperie, non è una condizione idonea per chi svolge questo servizio. Le dimensioni delle pensiline,ove ci sono, che coprono gli erogatori,come nel caso dell’impianto in oggetto, sono per dimensioni del tutto inadeguate alle più elementari norme sulla salute dei lavoratori. Se una certa tolleranza è consentita alle stazioni di servizio,già esistenti, in virtù di norme desuete, la stessa non dovrebbe essere ammessa in caso di ristrutturazione, adeguandole alle più moderne norme sulla salute e sicurezza. Sono solo lacrime di coccodrillo quelle versate in occasione d’incidenti o malattie professionali, il cui costo ricade sulle casse dello Stato,che ha il dovere di prevenire, prima che curare. Sembra, invece, che la salute dei lavoratori non interessi a nessuno,se si continua a progettare e legiferare senza tenere in alcun conto le più elementari norme di salute e sicurezza sul lavoro.