domenica 26 maggio 2013

Sentirsi estranei in patria

Don Sarbaturi Sciarmenta, contadino doc, pozzo inesauribile di saggezza, mi confessava l’altro giorno di sentirsi un estraneo in patria. “Non Le capita”, mi diceva, “d’incontrare per strada un vicino di casa, un amico, un parente e di trovarli irriconoscibili? Non mi riferisco all’espetto fisico, ma all’animo, che li fa apparire differenti, diversi, sconosciuti Nel loro sguardo e financo nel loro gestire c’è qualcosa che impedisce di trasmettere emozioni, come se una voragine angosciante abbia preso il posto delle loro speranze, delle loro attese, delle loro illusioni. Automi che camminano, manichini inespressivi sembrano; gestualità senza senso, sguardi senz’anima, parole soffocate dalla noia o dalla delusione, quelle che trasmettono. Nel mio lento girovagare per le vie del paese non riconosco nemmeno le strade che percorro, coperte da cumuli d’immondizia, piene di buche, nelle quali il piede malfermo vacilla, inciampa, tenta di riprendersi, invano, come se persino la terra in cui si è nati s è rivoltata contro. Anche i fiori, che, un tempo, con il loro profumo risvegliavano sogni sopiti e familiari sembrano, ora, stanchi di donarci il loro alito e gli alberi, affranti e svogliati non dondolano più, smaniosi di spogliarsi delle loro foglie, uniche testimoni di vita. “A volte, allo specchio” continuava don Sarbaturi Sciarmenta, “ non riconosco nemmeno il mio viso. Non sono gli occhi stanchi che lo appannano, né le numerose rughe che lo solcano; è la luce dei miei occhi che si è spenta, dentro i quali si specchia l’anima affranta e fiaccata che mi accomuna con gli altri che incontro. Allora capisco che anch’io sono un estraneo a me stesso”. “A Lei succede?” mi chiedeva.

“Don Sarbaturi”, replico, “questo non è più il vostro mondo. Siete stato catapultato su un pianeta sconosciuto, dove l’amore, la solidarietà, la fede, la speranza, i sogni sono solo ricordi che qui non attecchiscono. Non siete solo, in questo nuovo mondo, siamo tutti extracomunitari, finalmente uguali, perché a tutti manca la gioia di vivere"
Pubblicata su La Sicilia il 28.05.2013. Saro Pafumi.



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mercoledì 8 maggio 2013

Linguaglossa e i suoi personaggi verghiani

“ Mi dovete fornire due litri di latte al giorno, caldo, senza schiuma e alle sette di mattina” disse don Pippinu  ‘ntisu “spaventu” che abitava a Linguaglossa a due passi dalla chiesa madre. Pronunziò l’ordine con tono risoluto e per mantenere le distanze diede del “voi”, al capraio che conduceva in pascolo le sue terre. U Zu Giddiu che vendeva latte appena munto con capre a seguito, quell’ordine aveva dovuto subirlo senza batter ciglia.  “ Senza schiuma”, lo pretendeva don Pippinu,  “ca scumazza” voleva fornirlo u zu Giddio. La differenza non era di poco conto, perché con quel po’ di “scumazza”  ogni giorno ‘o zu Giddio, era riuscito a costruirsi mezza casa  A fine mese quando  u zu Giddiu presentava il conto a “scumazza” c’entrava e come, perché don Pippinu non era tipo da farsi infinocchiare. Le grida si sentivano in tutto il quartiere, perché è vero “ca a scumazza” c’era ma non nella percentuale che don Pippinu calcolava. Il nomignolo “ spaventu” a don Peppino gli era stato affibbiato dagli amici del circolo dei civili, perché non c’era discorso che non iniziasse o finisse, senza quel sostantivo: “spaventu! aumentanu i tassi”, spaventu! calau u prezzu du vinu; “un si ni pò più, chi spaventu!…..” U zu Giddio che "capraru” era, ma di cervello fino, aveva trovato il modo di vendicarsi con don Pippinu che secondo lui voleva “sparagnari” troppo "supra a peddi ‘i puvireddi”. A quel tempo le capre circolavano per il paese, munte sotto il portone di casa dei signorotti che il latte pretendevano, caldo e cremoso. Poiché le capre, come tutti gli  esseri umani, fanno i loro bisogni, u zu Giddiu faceva in modo che defecassero proprio sotto il portone di don Pippinu, lasciandovi un  tappeto d’escrementi che ogni mattina la serva si scomodava di rimuovere tra le imprecazioni del padrone che gridava: spaventu! ’un si ni po’ cchiù di stu zimmuru di capraru!”. Se ‘u zu Giddiu aveva perso “la battaglia da "scumazza”, don Pippinu non era stato vittorioso sull’altro fronte, perché quando u zu Giddiu passò a miglior vita, davanti al portone di don Pippinu le cose mutarono radicalmente. Non  c’era più, è vero, quel tappeto d’escrementi che tanto faceva infuriare don Pippinu, ma nemmeno quel latte che adorava. La morte s’era portato via u zu Ggiddiu insieme al suo latte, che per don Pippinu, nato signorotto, aveva un sapore speciale, perché proveniva dal pascolo delle sue terre ch’erano “roba sua” come il latte che producevano le capre du zu Giddiu. Saro Pafumi