sabato 19 dicembre 2015

Espropriati del diritto d'amare



Espropriati del diritto d’amare
Mi chiedo cosa sarebbe dei nostri vecchi se non ci fossero le badanti straniere a prendersi cura di loro. Vedere questi vecchietti da un lato appoggiati al bastone e dall’altro sorretti da avvenenti signore, incuriosisce, intristisce ed insieme fa riflettere. Intristisce perché un’assistenza prezzolata non può mai sostituirne una fondata sull’affetto Ma le esigenze familiari connesse agli pegni lavorativi, la scarsa affettuosità in qualche caso, e non ultima una certa moda da contagio invalsa in quest’ultimi tempi fa sì che le badanti si sono rese insostituibili. Oggi si preferisce delegare ad altri l’assistenza agli anziani, anziché ritenerla un obbligo personale o familiare. Un  fenomeno reso possibile perché l’anziano gode di una pensione che permette quest’assistenza “indiretta”. Oggi il costo di una badante, se messa in regola, si aggira nel meridione intorno a mille euro al mese. Eppure, questo costo, in un’economia familiare in regressione non  è cosa da poco e il frutto di questo lavoro va a finire in massima parte all’estero. L’usanza fa riflettere, perché al di là dell’aspetto economico è quello psicologico che entra in gioco. L’assistenza delegata  ad elementi estranei alla famiglia per lingua, mentalità e tradizioni mentre priva il vecchio del suo patrimonio culturale, impedendogli quel dialogo con gli altri che lo rende vivo e palpitante di ricordi, priva i familiari, figli e nipoti dell’esperienza e saggezza che la vecchiaia trascina con se. Questo tipo di assistenza costituisce un impoverimento affettivo ed un imbarbarimento dei costumi, oltre a costituire un regalo alla morte, qual’ è ogni attimo sottratto alla compagnia dei propri genitori. Purtroppo come diceva Terenzio  “ Senectus ipsa morbus” e come tale un peso da evitare o delegare ad altri. Ma a quale prezzo? Un vecchio  curato da una badante è come un bambino adottato che da adulto scopre che i suoi genitori naturali sono altri. Un trauma che da giovane si può metabolizzare, ma da vecchio si porta nella tomba.  Ecco perché in molti vecchi così assistiti è visibile la tristezza nei loro occhi qualcosa si è spenta per sempre nella loro anima: la gioia di specchiarsi nel viso dei propri figli e nipoti, ossia l’espropriazione del diritto di amare. Saro Pafumi

Difendo i cani



Difendo i cani


Quando parliamo dél mondo animale, in particolare. degli amici cani, bisogna togliersi tanto di cappello.
Detentore (non mi piace il termine proprietario) di'un pastore tedesco al quale dedicavo nelle ore libere le mie cure, generosamente ricambiate, per sopravvenuti impegni non ho avuto modo di stargli vicino, con assiduità, per cui ho notato in lui una certa, manifesta,tristezza.
Per colmare questa mia involontaria, assenza avevo pensato di trovargli una compagna della stessa razza. Con questa trovata avevo in un certo senso riempito il mio vuoto e lenito la sua tristezza, vivendo la coppia in perfetta simbiosi.
Sennonché, dopo qualche tempo, per un crudele .destino,complice la. leishmaniasis, il mio pastore è deceduto, nonostante le molte e costose cure praticatigli.
Da qui il secondo dramma.
La vedova (proprio cosi!), inconsolabile al distacco, latra di continuo alla ricerca del compagno perduto.
Allorché mi avvicino per consolarla, con mimica inconfondibile, mi prende quasi "per mano" invocandomi l'aiuto per cercare il compagno.
Questo amore sincero mi commuove, ma come faccio a farle capire che la morte non conosce privilegi e distinzioni?
Forse dovrei sussurrarle che il suo amore è più sublime di quello degli uomini ma più sfortunato, perché non conosce il lenimento della ragione.
Mi risponderebbe, ne sono sicuro, con un ennesimo struggente latrato.
Coraggio Sasha, da oggi vedrò di esserti più compagno, piangendo insieme e dividendoci il nostro dolore.
Non è forse quello che vuoi?


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Ai giovani d'oggi



Ai  giovani d’oggi.
Finora abbiamo taciuto, sbagliando. Ma ci dovrà pur essere qualcuno che vi parla col cuore in mano. In genere questo compito spetta a noi genitori, ma quanti di noi hanno il coraggio di dirvi realmente come stano le cose? Ci sforziamo, perciò di darvi quello che possiamo, eludendo il problema principale: il vostro futuro. E’, forse, per questo senso di colpa, accompagnato dall’amore che nutriamo per voi, che vi garantiamo quel minimo di benessere che possiamo: facendovi studiare e procurandovi magari qualche sano divertimento. Ma non illudetevi, perché tutto ciò finirà alla nostra morte, nel qual caso dovrete camminare sulle vostre gambe. E non è detto che ci riusciate, perché le premesse sono assai tristi. La patria ci offre poco, impegnata com’è a salvare se stessa e anche noi, ma ci vuole tempo perché si ricostruisca. L’Europa è un cantiere aperto, in cui le cose da fare sono molte e non si comprende quali prospettive ci saranno. Per rendere l’immagine più chiara, dobbiamo immaginare l’Europa come una casa in strutturazione, dove al momento manca tutto: Il bagno, la cucina, il posto per dormire e i mobili sono accatastati in un unico ambiente. In queste condizioni la precarietà è d’obbligo e le previsioni sulla durata della strutturazione sono ignote. Nessuno ha la sfera magica nella quale poter leggere il futuro, ma, a naso, vi confessiamo che i tempi che vi aspettano saranno duri e incerti. Cosa fare in queste condizioni? Per prima cosa occorre stringere i denti, impegnarsi al massimo negli studi o industriarsi nel migliore dei modi. Chi vorrà recarsi all’estero, non perda tempo, perché arrivarci giovani serve a voi stessi e al mondo che vi attende. Per chi rimane, non disdegnare nessuna forma di lavoro, purché rispetti la dignità umana. Migliorare è sempre possibile, purché si abbiano determinazione, volontà e fortuna. Quanto durerà questo stato di incertezza e precarietà? Meglio non pensarci, perché si corre il rischio di farsi venire i brividi nella schiena. Voi giovani, avete a disposizione una piccola zattera messa a vostra disposizione dai vostri genitori, ma non è con la zattera che si può navigare in mare aperto. Occorre saper nuotare da soli, perché l’approdo è lontano e incerto, ma c’è, siatene certi. Basta volerlo con determinazione e la gioventù vi aiuta. Cosa possiamo augurarvi noi genitori? Auguri e buona fortuna. E il nostro amore, immenso, appena velato di tristezza. Saro Pafumi FB 08.06.2014

lunedì 13 aprile 2015

Il vignaiolo



Il vignaiolo
Il mestiere del vignaiolo è il più affascinante del mondo. Intanto perché tiene occupati mente e braccia ininterrottamente tutto l’anno e, non ultimo, perché non si finisce ma i di “raccogliere” il frutto del proprio lavoro, che non termina con la vendemmia, ma prosegue con il rito della pigiatura, della spremitura, con “la conta” dell’imbottare che non è affidata alla monotona noiosità dei numeri, ma all’ arte della cabala, l’interpretazione simbolica dei numeri, miscuglio di religione e superstizione, infine con l’assaggio e la vendita del prodotto che rappresenta l’apoteosi finale. Per poi ricominciare in un ciclo senza fine come è il trascorrere della vita, o della vite. Capire se il lavoro del vignaiolo finisce con la vinificazione o inizia con la potatura è una domanda senza risposta, perché la vita della vigna, anche quando apparentemente riposa, non è che l’inizio di un nuovo ciclo. Un tempo, ricordo, il contadino, dopo la vendemmia, tranciava i tralci delle viti per sotterrarli ai suoi piedi, che, se fornivano alimento alla pianta, simboleggiavano il rito della reincarnazione, perché il tralcio tranciato e interrato diventava vite esso stesso. Poi si proseguiva nei lavori della terra, non prima però che il vigneto desse spettacolo di sé nel periodo autunnale, quando le foglie delle viti sono ricami che i raggi del sole esaltano in un tripudio di colori, dal giallo al rosso, che simboleggiano la luce del sole, l’energia, la vita. Un passaggio, quello autunnale della vite, che può paragonarsi alla vita della donna, che dopo il parto s’illumina di nuovo rinnovato splendore. Dopo la potatura e prima della gemmazione inizia la quaresima della vite col suo ‘pianto” che sa di umano dolore, poi l’inizio di una lunga gestazione, dalla fioritura all’impollinazione, dalla fecondazione all’allegagione. Infine il prodigio: il parto, l’uva, che simboleggia “il natale”. Non c’è stagione della vite che non sia ricca dì fascino. La religiosa geometria che esprime un vigneto, non ha eguali in natura, scrivevo un tempo, ammirando i verdeggianti filari delle viti. Un’uguaglianza arborea, che è armonia, fratellanza, quando un tralcio si allunga per porgere idealmente la mano ad altro tralcio che si diparte da altra vite che sorge a fianco. Oggi della vendemmia d’un tempo poco è rimasto. Non è più visibile quel millepiedi umano fatto di uomini e donne con le ceste in spalla o in testa a trasportare l’uva. Una nota di poesia si può ritrovare quando la vendemmia si svolge di notte, mescolando lavoro e rappresentazione, specie se accompagnata dalla colonna sonora di un’opera lirica, perché canto, poesia è la vendemmia. La vite per fortuna non è più intesa come proficua fattrice di grappoli, ma come dispensatrice di qualità e nel vino non si ricerca solo zucchero, grado alcoolico e acidità, ma colore, limpidezza e bouquet. Non per niente alla vite s’accosta la rosa, per spiarne la sua salute. Il vino finalmente ha indossato la sua veste naturale, la bottiglia e l’etichetta è essa stessa arte. Perché arte è il più straordinario spettacolo della natura: il grappolo d’uva, non un frutto, ma un tripudio di frutti, i suoi chicchi, la cui linfa frutto di fatica e piacere,di  lacrime e sorrisi, fu scelta come nettare degli dei.  FB 11.04.2015
Saro Pafumi.

mercoledì 1 aprile 2015

Gigli d'amore



Gigli d’amore
“Ti voglio mostrare qualcosa che ti farà piacere”, mi disse il mio amico Giovanni.
Salii sulla sua auto e ci avviammo verso una destinazione che non conoscevo. Durante il tragitto, Giovanni parlò d’altro, ma io non l’ascoltai, preso com’ero dalla voglia di conoscere la cosa piacevole che voleva mostrarmi.
Quando giungemmo sul posto, una grande cancellata faceva da ingresso a una splendida villa in stile liberty. Giovanni azionò il telecomando e la cancellata s’aprì. Entrammo.
All’ingresso un duplice filare di meli fioriti faceva da cornice a un lungo viale, in fondo al quale si stagliava la villa in tutta la sua architettonica eleganza. Lo percorremmo in auto, a passo d’uomo, attorniati da un festoso stuolo di pastori maremmani.
Appena scendemmo dall’auto, Giovanni, me li presentò uno a uno: Athena, Attalos, Orghè, Basil, Nestor,Creusa, Eris. Estia.
Ognuno di quei nomi, mi spiegò, aveva un significato preciso. Mancava Anat, aggiunse, la più fertile del gruppo, non per  niente chiamata come la dea della fertilità. Era essa la protagonista da mostrarmi.
In una casetta a fianco alla villa, Giovanni aveva allestito un confortevole ricovero, dove i pastori maremmani condividevano, in perfetta armonia, la loro dimora. Un residence di lusso, se paragonato a certi orribili canili che sanno di lager. Ciascuno aveva la sua scodella dove consumare il pasto, col nome scrittovi sopra. Nove ne contai, quanti i maremmani che m’aveva indicato.
Mi venne spontaneo chiedergli: “ Come fanno i tuoi maremmani a scegliere la propria scodella?”
Giovanni non si scompose. Chissà quante volte gli avevano fatto la stessa domanda, perciò prontamente mi rispose: “Vedi, in questo mondo animale, non c’è il mio o il tuo. Ognuno consuma il pasto nella scodella che vuole. Si vive in perfetta fratellanza, senza egoismi e prevaricazioni. La distinzione tra esseri della stessa specie la facciamo noi. I cani, come impropriamente li chiamiamo, si sentono tutti uguali, non pensano a darsi un nome. Questa è una nostra invenzione, come i nomi su quelle ciotole. Per me, si chiamino Orghé, Attalos, Creusa o Estia, non fa distinzione.  Li amo tutti allo stesso modo, come allo stesso modo tutti tra di loro.
Intanto fremevo dalla voglia di conoscere l’oggetto del desiderio: Anat.
Giovanni aprì la porta che dava nella stanza della puerpera, dove una splendida maremmana aveva dato alla luce sette paffutissimi cuccioli di un bianco accecante.
Accovacciati accanto ad Anat, la loro mamma,i sette nuovi venuti sembravano un tutt’uno. Una nuvola mi parse di vedere, una bianchissima nuvola come tante disegnate nell’azzurro del cielo.
Appena Anat ci vide, girò leggermente la testa verso di noi, come per dirci: “Per favore, non disturbate il sonno di questi innocenti”. Lo disse con gli occhi che ci fissavano immobili e dolci.
Quando quella bianchissima nuvola leggermente si scompose, ciascuno di quei cuccioli prese forma. Più che piccoli esseri sembravano candidi gigli, simbolo di purezza e amore.
Morivo dalla voglia di prenderli in braccio e accarezzarli, ma mi trattenni per non rompere quel cordone ombelicale di autentico amore che ancora li legava alla loro madre.
In quella stanzetta non mancava nulla: il lettino per Anat, la culla per l’intera nidiata, ciotole, un armadietto per le medicine. Una clinica, pensai. Giovanni aveva dato a suoi amici ospitalità, amore e mutua assistenza, quella che difetta a noi umani.
Quando uscimmo da quel luogo d’amore, lo stesso bianco stuolo di prima ci venne incontro festante.
“Come fai a distinguere le tue creature l’uno dall’altro” gli chiesi, “se sembrano tutte uguali? “
 “A parte il sesso”, mi rispose, “è nel carattere, la loro differenza. Vedi questo che mi sta vicino? E’ Orghè, che significa “coraggio”, il capo branco. Un ordine dato a lui si trasmette all’intera comitiva. Non sono io a imporlo. E’ la sua indiscussa autorità”.
Confesso che avrei voluto intrattenermi ancora per scoprire quel mondo a me ignoto, ma Il mio amico Giovanni doveva rientrare.
Quando il cancello si chiuse alle nostre spalle, Giovanni mi promise che mi avrebbe di nuovo accolto nella sua villa. “Quando matureranno le mele annurche”, mi disse,”ora sono in fiore”. Scoprirai la deliziosa bontà di questo frutto, la mia terza passione.
“La terza?” gli chiesi. “I maremmani, le  mele annurche e l’altra?”  “Suvvia,non fare finta di non saperlo !” e cambiò discorso, mentre allontanandoci, l’abbaiare festoso dei maremmani andava affievolendosi.