giovedì 25 maggio 2023

Le voci dela notte

Le voci della notte

Nelle notti di plenilunio, quando il caldo soffocante costringe a stare con le imposte aperte, i raggi della luna fanno capolino nella mia stanza, dove il sonno è un dolce desiderio inappagato. Qui tra pensieri e ricordi si consuma il tempo dedicato al riposo, con l’orecchio teso all’ignoto. Con gli occhi immersi nel cielo, attraverso l’ampia finestra che funge da cornice, una manciata di stelle gioca a nascondino, mentre, più in là, la luna, nascosta alla vista, proietta una sinistra lama d’ombra sul pavimento della stanza. Appena fuori dalla finestra, quasi addossato alla parete, il ramo di un verde loto, con soavi ritmiche, silenziose movenze, mi trascina all’interno la frescura della notte. Il silenzio che si accompagna all’oscurità, stanco d’aspettare, si fa suono: è il lontano abbaiare di un cane che cerca lì’amico lontano, che gli risponde come fosse l’eco della sua voce o, forse, un appuntamento cercato o il fruscio carezzevole di un’alta picea glauca, la cui cima ondeggia, vanitosa, per mostrarsi alle stelle o il rombo svigorito e discontinuo delle auto che sfrecciano, con spavalda incosciente temerarietà, quando lo stridìo di una frenata può essere la salvezza o l’anticamera della morte. Forse perché il caldo non  dà tregua o per non lasciarmi solo la cicala fa il suo apparire col suo monotono frinire, al quale si aggiunge quello di mille grilli canterini. E’ la movida di mille esseri che popolano la notte a tenermi compagnia. La luna, nascosta, che attendevo finalmente si mostra, cancellando ricordi e pensieri, ma la sua misteriosa presenza mi spinge a domandarle quello che gli uomini si chiedono da sempre: “ Che fai tu, luna, in ciel? Dimmi che fai Silenziosa luna? Sorgi la sera e vai…..” Mentre cerco una risposta che non so darmi, un boato scuote la mia stanza. Il mio gatto impaurito salta sul letto. Egli non sa. Mi alzo per ammirare quello che immagino: le fontane di lava che il mio vulcano mi regala . un tripudio di colori e di suoni. Sono le tre di una notte inquieta. La festa è appena incominciata, dopo che l’Etna, vinta la sua timidezza, sceglie il momento migliore per mostrarsi e farsi amare. Non odo più rumori, né canti di cicale e grilli, anche i cani hanno finito di abbaiare, come se tutti insieme si fossero sfarinati in mille silenzi, per ascoltare il canto di Lei, che si fa natura. . Ora c’è Lei, la mia montagna a tenermi compagnia con il suo borbottio e i suoi mille giochi di fuoco. E’ tutta la natura in estasi \.Lei, Lei, all’ombra della quale sono nato e cresciuto, che sento dentro di me, che impetuosa ribolle, come quel suo sacro fuoco che si sprigiona in cielo a sfidar le stelle.

mercoledì 24 maggio 2023

La solitudine

La solitudine

 

Quando la solitudine ti attanaglia, ti pervade, ti rode, investe la tua anima, occupa da sola i tuoi pensieri quotidiani, quando ti senti solo anche in mezzo ad una sterminata folla di persone che ti circondano, quando in una parola indossi la maglia della solitudine, che vuoi strapparti di dosso, ma non ci riesci e, così ridotto, non intravedi nemmeno l’ombra di te stesso che ti fa compagnia, sei vicino al punto di non ritorno: la depressione. In questa sterminata pianura dell’anima senza dune, orizzonti o punti di riferimento, il pensiero rotola su se stesso, aggrovigliandosi; non distingue la ragione delle forme, dei colori; il tuo mondo interiore sbrodola verso l’esterno, come da un invisibile orifizio, senza che un ricambio visivo, sensitivo, olfattivo ricambi dall’interno questa inarrestabile emorragia interiore.

Eppure, se hai la forza di fermarti un attimo in questa caduta verticale incontro all’abisso, non rivolgere lo sguardo verso il basso che ti attrae; volgi il tuo sguardo altrove. Cerca un appiglio, un interesse che possa tramutare il precipizio in risalita. Aggrappati pure alla testa di un serpente, purché non precipiti, e raccogli le tue forze. Alimentale con la forza dell’amore che puoi dedicare agli altri nei mille modi che la vita ti offre. Quel poco che ti è rimasto si rigenererà al suo interno, per ingigantirsi, tracimando la tua stessa anima. Scoprirai nella forza dell’amore per gli altri la ragione della tua stessa vita. Oppure sappi che questo buco nero dell’anima, la depressione, può essere riempito con una sapiente, continua lettura o, se ne hai la vena, con lo scrivere di tutto. Nella lettura ti mescoli ai personaggi che incontri, rendendoli reali, col privilegio che non possono recarti danno; con lo scrivere doni ad un mondo immaginario, che non puoi o vuoi conoscere, il contenuto della tua anima che, se repressa, esplode nel delirio dell’assenza.

Un esperienza di vita e un augurio per chi è inconsapevole funambolo sulla sottile fune dell’esistenza.                              

 

lunedì 22 maggio 2023

 

I tesori di Val Calanna

 

Un luogo incantevole della nostra Etna che va visitato

 

Quando vi giungi dal bivio per Monte Pomiciaro, percorrendo, tra castagni e pometi, la provinciale che da Zafferana conduce a Nicolosi, hai l’impressione di avere sprecato il viaggio. Dal piazzale che si apre sulla valle, una folta vegetazione di faggi t’impedisce di scorgere, come benda agli occhi, lo scenario che mai immagini.

Evita di roderti il fegato per la mancanza di servizi e per i cumuli di spazzatura che dribbli con i piedi, bestemmie d’umane greggi, lasciate lì a mutarsi in rifiuti di vergogna.

Facendoti spazio, tra contorti rami di faggio, raggiungi, non senza pericolo, una zona scoscesa che si apre sull’immenso: è Val Calanna. Un tempo rigogliosa gola profonda di verdi pascoli, di lievi e pure acque, oggi perennemente sepolta dall’ira del vulcano.

Dimentica il pericolo e la tristezza che il sito offeso ti offre e volgi lo sguardo in quella che fu una valle, dove la lava si è tuffata, rubandole persino il nome.

T’interroghi, stupito, cosa rappresenti quello che si stende sotto i tuoi piedi: se una cascata di nero basalto scolpita da una divinità, se un’onda gigantesca mummificata,  se la tomba d’impareggiabile flora sepolta, se “voglia” di nuova vita quegli sparsi cespugli di timida vegetazione che spuntano tra onde di lava contorta, se il resto di una valle in gramaglie che piange la sua creatura “uccisa” in grembo, se il fantasma di un’isola sommersa che qui affiora dalla roccia, se atolli in un mare di morte, se il sogno infranto di una lingua di fuoco che voleva tuffarsi in mare.

Forse solo lo specchio della tua anima, perché in quel nero mare immobile di lava vi scorgi quello che l’animo tuo ti suggerisce: il primo gradino dell’inferno, in un presagio di morte o la testimonianza di un miracolo naturale che il tempo ha fermato.

Se ci fosse una rotonda che si affaccia a sbalzo sulla valle d’incanto “venderei”, tanto il secondo, quella visione di magia. Non chiederei denaro, ma brandelli dell’anima di chi si affaccia, per immolarli alla natura che qui ha generato se stessa immortale. Un “tesoro visivo”, quel che resta della Val Calanna, abbandonato da noi uomini rimasti “primitivi”, come uno dei tanti   rifiuti,

ivi, non raccolti.

domenica 21 maggio 2023

“A bolluvata” (Il regalo mattutino ai freschi sposi)

Mia madre mi aveva fatto indossare il vestitino della domenica, non avevo nemmeno nove anni, perché quella doveva essere una visita importante. Dovevamo portare a “ bolluvata” a Filumena, a figghia da gna Mara, ch’era convolata a nozze. Cosa centravo io "ca bolluvata", termine che peraltro non capivo, mia madre me lo spiegò prima di varcare la porta d’ingresso di Filumena che ci aspettava assieme al suo giovane marito, col quale avena passato la sera prima la sua prima notte di nozze in una casa di campagna dei miei nonni. Perché, allora, per chi non poteva permettersi un breve viaggio, le case di campagna erano il nido d’amore delle giovani coppie.  Prima di entrare nella nuova casa di Filumena, mia madre mi fece la solita raccomandazione: “ Comportati da piccolo “signorino”. Sul tavolo ci saranno sicuramente dei confetti. E’ usanza prenderne in numero dispari. Prendine solo uno e non metterlo in bocca subito. Fai conto di dovere recitare ” un gloriappatri” prima di mangiarlo, masticando con la bocca ben chiusa”.  “E cos’è il “gloriappatri”, chiesi a mia madre. Recita assieme a me: "Gloria al Padre e al Figlio e allo Spirito Santo. Come era nel principio, e ora e sempre, nei secoli dei secoli. Amen".  Entrammo. Filumena ci venne subito incontro, abbracciandoci. seguita dal marito che strinse la mano di mia madre, che porgeva alla giovane coppia un chilogrammo di “zuccarati” come fresco omaggio mattutino, “a bolluvata”. La stanza era sobria, direi disadorna. Un tavolo quadrato al centro, una credenza a muro, con piatti e bicchieri, largamente disposti per riempire il troppo  vuoto, sparsi su mensole da cui pendevano orli di pizzo fatto a mano. Intorno alle pareti  sedie di “zammara”. Dal soffitto pendeva un lampadario “a ninfa”, regalo di matrimonio, che a gna Mara aveva curato di sistemare prima che gli sposi venissero ad abitarci. Copriva il tavolo una tovaglia ricamata, al cui centro era stato sistemato un vassoio in porcellana, dentro il quale qualcuno aveva sistemato un mucchietto di paste di mandorla, circondate da bianchi confetti. Dopo le convenienze di rito, Filumena ci disse di prendere qualche dolce dal vassoio. Al rosolio ci avrebbe pensato il marito. Ripassai mentalmente le avvertenze di mia madre: “ Ti raccomando: un solo confetto, ma prima il gloriappatri…….” Mentre masticavo il confetto, a tenere la bocca chiusa, non mi fu difficile. Quella raccomandazione l’avevo sentita un’infinità di volte all’ora di pranzo o a cena. Più difficile fu resistere alla tentazione di prendere una di quelle paste di mandorla, che, ammucchiate e attorniate dai bianchi confetti, mi facevano venire l’ acquolina in bocca. Resistetti per non deludere mia madre, Lo seppi più tardi, a cosa servissero quelle paste di mandorla, quando finito il rito de “ a bolluvata” chiesi spiegazione a mia madre. “Vedi”, mi disse, “quelle paste di mandorla sono costate una barca di soldi a Filumena e a gna Mara. Servono per fare bella vista.” Allora, non capii, né potevo comprendere l’amaro senso figurato della frase, ch’era, come dire:  sono messe lì  per produrre un gradevole effetto estetico.  Filomena , questo lo sapeva. Povera, ma generosa com’era, non mi avrebbe impedito di mangiarne una. Ma  forse è stato meglio così. Aveva ragione mia madre. Ancora oggi quando mi capita di gustare le paste di mandorla mi vengono in mente Filomena, a gna Mara e a bolluvata” e solo a vederle mi viene l’acquolina in bocca, retaggio di un desiderio represso.

 

IL VENTO

 

Il vento
Dopo una giornata ventosa.
Ora che il vento tace gli alberi si raccolgono in preghiera per piangere e ricordare le foglie cadute in guerra.
Disarmate dalla morte e sepolte senza croce sotto un cumulo di terra, non più grande di un pugno chiuso, nasceranno a nuova vita.
La natura come l’uomo, ha il sangue nelle vene, la croce tra le braccia, la faccia di dolore o di gioia, a seconda delle intemperie o di un raggio di sole.
Dopo la tempesta vien la quiete.
Ora che il vento tace.
I morti non si contano, i rami spezzati non hanno ospedali per le cure, ma sangue sulla faccia e desiderio di morte, che l’uomo pietoso raccoglierà per farne brace.
Ora il vento tace.
Gli alberi hanno finito di tremare e le foglie di temere.
Ora che la natura ha placato la sua rabbia e il vento di fischiare , il silenzio si spande tra le cime dei monti, tra le nuvole passeggere, tra gli anfratti delle ombre.
S’ode appena un flebile fiato, un desiderio di quiete,annunciato dagli uccelli che ritornano a volare, dai fiori che tornano a profumare, dal sorriso della pudica mimosa sensitiva, che si chiude a ogni gesto,che non s’addica, come il vento che l’offende.
La natura è come l’uomo che geme o gioisce al variare degli eventi,che scrive pagine di poesia come un artista di teatro.
Anche un filo d’erba o una pietra hanno una storia da raccontare dopo che il vento li accarezzi o li faccia rovesciare. La natura non è mai muta, è uno scrigno aperto da cui imparare ciò che l’uomo non conosce. La si trova nel frangersi delle onde, nel frastuono di un tuono,nello scorrere di un torrente, nell’ombra amica d’un ricurvo salice piangente, nel fruscìo d’una foglia, nello scroscio della pioggia al mattino, nella cavità d’una conchiglia,tra le nuvole, o tra i fili stesi ch portano la luce o la voce: Ce l’abbiamo dentro l’anima a spazzare pensieri cattivi o a issare bandiere d’amore,a ricordarci che il tempo è passato o a spingerci verso un futuro che ci appartiene. Perché come dice San Bernardo “ciò che ti dice un bosco non lo trovi in un libro”..
Il vento.
Un ricurvo salice
l’ascolta gemendo
tra i rami contorti
per il lungo dolore.
Gli fanno eco, cantando, altri alberi
che con la mano sul fianco
sembrano intrecciare
mute danze che sanno di pianto.
Cadute foglie ingiallite
volano nell’aria,
sembrano dolci speranze
del vento rapite.

martedì 16 maggio 2023

 

Solidarietà contadina (Nostalgia per la “pausa vino” dei contadini d’una volta).

“ Na facemmu na vota ‘i vinu ?” Era l’invito rivolto ai compagni “d’anda” di chi, stressato dalla fatica, voleva riposarsi e cercare nel vino e nella compagnia la forza di continuare. Oggi si chiamerebbe “pausa caffè”. Il vino per chi lavorava di braccia era un energetico, serviva a rigenerare le forze. “U barrileddu”, che, di solito, conteneva la bevanda di Bacco, era un contenitore fatto di doghe di legno, ideale per conservarlo all’ombra di un albero frondoso o ai piedi di un muro, di solito posto “ a manca”, dove cioè non batteva il sole e spesso coperto da frasche, foglie o felci, perché si mantenesse fresco. Gli occhi dei contadini si poggiavano spesso su quel “barrileddu”,come un traguardo da raggiungere, non appena l’orologio delle forze scandiva il tempo trascorso. Non c’era un’ora esatta per consumare la “pausa caffè”, perché ogni lavoratore aveva i suoi tempi. Bere però in compagnia era quasi un rituale, perché nei costumi del contadino la pausa non era mai individuale, ma collettiva, come segno di condivisione e solidarietà. Ma anche il modo di bere era un’esclusiva contadina. Di solito “u barrileddu” aveva un  piccolo foro sulla pancia, tenuto chiuso da un pezzetto di legno appuntito, “ u stuppagghiu”, preferibilmente di “ferra”. Si sollevava con entrambe le mani e tenendolo accuratamente alzato, lontano dalla bocca, si faceva defluire il contenuto.  A bevuta ultimata “na strisciata i brazzu” sulle labbra  serviva ad asciugarle.  L’esigenza di non  accostare le labbra al recipiente era un segno di “bbona crianza” nei confronti  di chi seguiva. Ma la solidarietà del contadino non si esprimeva solamente nelle pause lavorative, la sua massima espressione si raggiungeva, quando “all’anda”  qualcuno dei lavoratori, spalla a spalla, non  manteneva il passo. Era costume aspettarlo, ma perché ciò non risaltasse agli occhi del padrone, spesso presente, era sufficiente uno sguardo d’intesa tra i compagni, rallentando ognuno il ritmo del lavoro. Era un espediente, che imponeva la solidarietà contadina nei confronti di chi, più debole, non riusciva a mantenere lo stesso ritmo degli altri. Poi, all’ora stabilità dalle consuetudini locali, seguiva la pausa pranzo, la più attesa. Era questo il momento clou, un vero tripudio di solidarietà, perché ognuno offriva agli altri un assaggio di ciò che la moglie gli aveva preparato. Di solito s’infilzava col coltello una porzione di cibo, che si offriva agli altri, generosamente ricambiati. Era l’ora dei complimenti per donna Rosa, donna Maria, donna Carmela, mogli ombra, che quei poveri pasti avevano con cura e amore preparato e ciascuno gioiva oltre che per sé, anche per la propria compagna di vita, cosicché ogni boccone intriso di riconoscenza e amore scivolava più soave nelle loro bocche e ogni fatica alleviava. Oggi il lavoro manuale dei contadini è scomparso, sostituito dalle macchine agricole e della solidarietà resta il ricordo e tanta nostalgia. Tratto da “Elzeviri sparsi” di Saro Pafumi