“A bolluvata” (Il regalo mattutino ai freschi sposi)
Mia madre mi aveva fatto indossare il vestitino della domenica, non avevo nemmeno nove anni, perché quella doveva essere una visita importante. Dovevamo portare a “ bolluvata” a Filumena, a figghia da gna Mara, ch’era convolata a nozze. Cosa centravo io "ca bolluvata", termine che peraltro non capivo, mia madre me lo spiegò prima di varcare la porta d’ingresso di Filumena che ci aspettava assieme al suo giovane marito, col quale avena passato la sera prima la sua prima notte di nozze in una casa di campagna dei miei nonni. Perché, allora, per chi non poteva permettersi un breve viaggio, le case di campagna erano il nido d’amore delle giovani coppie. Prima di entrare nella nuova casa di Filumena, mia madre mi fece la solita raccomandazione: “ Comportati da piccolo “signorino”. Sul tavolo ci saranno sicuramente dei confetti. E’ usanza prenderne in numero dispari. Prendine solo uno e non metterlo in bocca subito. Fai conto di dovere recitare ” un gloriappatri” prima di mangiarlo, masticando con la bocca ben chiusa”. “E cos’è il “gloriappatri”, chiesi a mia madre. Recita assieme a me: "Gloria al Padre e al Figlio e allo Spirito Santo. Come era nel principio, e ora e sempre, nei secoli dei secoli. Amen". Entrammo. Filumena ci venne subito incontro, abbracciandoci. seguita dal marito che strinse la mano di mia madre, che porgeva alla giovane coppia un chilogrammo di “zuccarati” come fresco omaggio mattutino, “a bolluvata”. La stanza era sobria, direi disadorna. Un tavolo quadrato al centro, una credenza a muro, con piatti e bicchieri, largamente disposti per riempire il troppo vuoto, sparsi su mensole da cui pendevano orli di pizzo fatto a mano. Intorno alle pareti sedie di “zammara”. Dal soffitto pendeva un lampadario “a ninfa”, regalo di matrimonio, che a gna Mara aveva curato di sistemare prima che gli sposi venissero ad abitarci. Copriva il tavolo una tovaglia ricamata, al cui centro era stato sistemato un vassoio in porcellana, dentro il quale qualcuno aveva sistemato un mucchietto di paste di mandorla, circondate da bianchi confetti. Dopo le convenienze di rito, Filumena ci disse di prendere qualche dolce dal vassoio. Al rosolio ci avrebbe pensato il marito. Ripassai mentalmente le avvertenze di mia madre: “ Ti raccomando: un solo confetto, ma prima il gloriappatri…….” Mentre masticavo il confetto, a tenere la bocca chiusa, non mi fu difficile. Quella raccomandazione l’avevo sentita un’infinità di volte all’ora di pranzo o a cena. Più difficile fu resistere alla tentazione di prendere una di quelle paste di mandorla, che, ammucchiate e attorniate dai bianchi confetti, mi facevano venire l’ acquolina in bocca. Resistetti per non deludere mia madre, Lo seppi più tardi, a cosa servissero quelle paste di mandorla, quando finito il rito de “ a bolluvata” chiesi spiegazione a mia madre. “Vedi”, mi disse, “quelle paste di mandorla sono costate una barca di soldi a Filumena e a gna Mara. Servono per fare bella vista.” Allora, non capii, né potevo comprendere l’amaro senso figurato della frase, ch’era, come dire: sono messe lì per produrre un gradevole effetto estetico. Filomena , questo lo sapeva. Povera, ma generosa com’era, non mi avrebbe impedito di mangiarne una. Ma forse è stato meglio così. Aveva ragione mia madre. Ancora oggi quando mi capita di gustare le paste di mandorla mi vengono in mente Filomena, a gna Mara e a bolluvata” e solo a vederle mi viene l’acquolina in bocca, retaggio di un desiderio represso.
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