sabato 28 settembre 2013

Il sesso debole

Il sesso debole


Si è sempre detto che il sesso debole appartiene alle donne. Un’affermazione tutta da verificare, perché conoscendo la forza, le fatiche e i sacrifici delle nostre madri e delle nostre nonne, parlare di sesso debole riferito alle donne è improprio, a meno che…… A meno che per sesso debole s’intende la subalternità delle nostre madri ai loro padri e poi ai loro mariti, nei confronti dei primi in virtù di un atavico sentimento di rispetto e nei confronti dei secondi per tenere unita la famiglia, che solamente la donna-madre con la sua abnegazione e le sue virtù riesce a portare avanti e preservare. A pensarci bene oggi quell’antico luogo comune va ribaltato, identificando il sesso debole con il genere maschile. Le attuali condizioni femminili sono del tutto cambiate, in primo luogo perché la donna ha finalmente conquistato una certa autonomia economica e culturale, in secondo luogo perché il vincolo del matrimonio non è legato alla sua indissolubilità, prova ne sia la facilità con cui questo vincolo è reso solubile.

Le attuali vicende delittuose definite “femminicidi”, dimostrano, se ce ne fosse bisogno, il definitivo tramonto dell’antico concetto di maschilismo, inteso come presunta superiorità dell’uomo sulla donna (se mai ci fosse stata), assegnando al genere maschile l’attributo di sesso debole. Che cosa sono questi continui, orrendi femminicidi, se non il segno tangibile di una deriva maschilista? Essi mostrano l’incapacità del maschio di sapersi o potersi affrancare dalla presenza femminile intesa sia come soggetto, oggetto o puro strumento, ma comunque paurosamente necessaria alla sopravvivenza maschile. Una condizione di rovesciata subalternità, che fa l’uomo prima che carnefice, vittima di se stesso, con le sue debolezze e fragilità. E’ su quest’ultime che occorre educare l’uomo, insegnandogli ad affrancarsi dalle sue paure, ma anche e soprattutto a sapere conquistare la sua piena autonomia esistenziale, nella quale la donna da tempo immemorabile conserva il suo indiscusso primato.Saro Pafumi

mercoledì 25 settembre 2013

La vendita di cibi in strada è qualcosa d'indecente

La vendita di cibi in strada è qualcosa d’indecente.


L’indecenza di vendere cibi per strada è una tradizione che affonda le radici in epoche lontane. Qualunque sia l’origine araba, greca o romana poco importa. Quello che colpisce e stordisce è la permanenza di quest’abitudine che non trova riscontri in paesi civili. Per fortuna qualcosa si è fatto in quest’ultimo cinquantennio, basti pensare a quanto accadeva fino a pochi decenni addietro. Allora, ricordo, i macellai avevano l’abitudine di appendere la carne macellata all’esterno delle botteghe. I “quarti” di vitello penzolavano ancora sanguinanti dal gancio che li sosteneva, assediati da sciami di mosche e vespe alle quali era assicurato il privilegio di assaporarli anticipatamente. Chi aveva un certo pudore usava l’accortezza di deporre ai piedi dei “quarti” una vasca per la raccolta del gocciolamento che abbondante defluiva, col disgustoso risultato che l’espediente comportava il richiamo di un’enorme quantità di altri insetti. Il pubblico abituato a queste antiestetiche visioni, entrava e comprava. “ A merci esposta è menza vinnuta”, poco importa se a portarsi a casa era anche un groviglio di escrementi che gli insetti depositavano. All’epoca la fame era tanta, la carne, un lusso, l’igiene, un capriccio. Oggi la vendita degli alimenti per strada offre la medesima visione di cinquant’anni addietro. Non si vedono i “quarti” che pendono, ma si cucina di tutto e ogni città ha un proprio nutrito menù: u pani ca meusa, i stigghiola, i babbaluci, a quatumi, i cacocciuli arrustuti, u purpu bugghiutu. I gas di scarico che corrodono anche le pietre, si depositano soavemente sui cibi cotti per strada e il tutto va a finire nel ventre dello stomaco. In compenso com’é caratteristico questo modo di cucinare: gli stranieri ne vanno matti e le foto si sprecano, ma non ho visto un solo straniero accostarsi per “gustare il prototipo” fotografato. La foto serve per altri scopi : per fare vedere chi siamo, come viviamo. Guai a parlar male di queste consuetudini. Il men che ti possa capitare è buscarti l’epiteto di persona snob”, con la puzza sotto il naso, che non ama le tradizioni. Poi, se entri in un supermercato, l’igiene ti obbliga ad indossare un paio di guati di plastica per prendere la frutta scelta. Non c’è che dire. Siamo i campioni delle contraddizioni, i fautori delle consuetudini più retrive, i sostenitori dell’igiene “alternata”, i narcisisti dell’obbrobrio. Meglio stenderci sopra un pietoso velo sopra e……

Pubblicata su La Sicilia il 25.09.2013 Saro Pafumi.


martedì 24 settembre 2013

La fontana muta di Linguaglossa

La fontana muta di Linguaglossa


Quando a Linguaglossa l’amministrazione “rossa”, alla fine degli anni cinquanta, fu assalita dalla voglia di costruire fontane pubbliche, quelle “artistiche” per intenderci, le scelte caddero su due quartieri: San Rocco e Piazza S. Francesco.

La prima detta “ dei mori”, dopo alterne vicende legate alle solite beghe politiche, ha avuto una sorte altalenate: chiusa, ripristinata, devastata, ripristinata, oggi è funzionante, ma sulla cui durata nessuno ci può giurare, perché a Linguaglossa come in tutto il Bel Paese, le cose s’incominciano, ma dopo un periodo di relativo fervore, si abbandonano.

E’ la malasorte toccata a quella di Piazza S. Francesco, che dopo la nascita ha perduto l’uso della parola, qual’ è una fontana dalla quale inspiegabilmente non zampilla acqua. Eppure, con le moderne tecnologie non ci vorrebbero grandi cifre per ridarle “voce, perché una fontana che ha perduto la sua funzione col suo festoso zampillare è segno di depressione per la comunità tutta che l’accetta in questa sua nuova veste di struttura inabile.

La fontana di S. Francesco con la sua funzione perduta non rappresenta più una fonte di vita, ma un monumento all’indolenza eletta a sistema, nella quale, Linguaglossa, da tempo, è piombata. A Linguaglossa siamo originalissimi: accanto alla “fontana dei mori” abbiamo inventato la “fontana muta”. Intanto, per cominciare, si potrebbe usarla per fare stagionate la salsiccia, noto prodotto locale, che, appesa, richiamerebbe frotte di turisti. La macelleria è a due passi. Pubblicata su Fb il 24.09.2013Saro Pafumi

domenica 22 settembre 2013

Quelle sere d'inverno, attorno al braciere da "Racconti di sera" di Saro Pafumi


Quelle sere d’inverno, attorno al braciere.


da “Racconti di sera” di Saro Pafumi



Non era il braciere attorno al quale, finita la fatica, si raccoglievano che li riscaldava, ma la loro condizione di sofferta fratellanza che li accomunava. Riposarsi, con la schiena rotta dopo una giornata di lavoro e dopo avere consumato l’ultimo boccone di pane, tagliato col coltello a roncola, che chissà quante cipolle aveva affettato, era come trovarsi in paradiso. La stanchezza non si leggeva sui loro volti o, se c’era, era smorzata dal buio della stanza illuminata da un piccolo lume a petrolio e annebbiata dal fumo dei sigari che quei contadini accendevano uno dopo l’altro. Ciascuno aveva la sua storia da raccontare ,triste, come la vita che il destino gli aveva cucito addosso. Ragazzino, in mezzo ai contadini, che dissodavano le terre dei miei genitori, la sera, attorno a quel braciere, vivevo le loro storie con il fiato sospeso, come se il mio respiro dipendesse da quei racconti. Se qualcuno, raccontata la sua prima storia, si fermava per scavare nella memoria, si sentiva solo il guaiolare di qualche volpe di passaggio e l’abbaiare dei cani che, invano, la inseguivano. “Poi ?” Chiedevo, come un assetato che beve alla fonte del sapere. Quel “poi” infrangeva d’incanto quel silenzio tormentato e giù altre storie da raccontare, perché il contadino questo ha di bello: non scrive, non legge, ma racconta cose vissute con la stessa forza e passione del migliore romanziere.

Don Turi, il più vecchio, con la sua giacca mezza scucita, posata sulle spalle, era il più triste. La morte della moglie se l’era cucita addosso, come un abito da indossare, e con quell’abito menava la vita tutti i giorni, dall’alba al tramonto, curvo sul piccone, per dissodare non la terra, ma i ricordi più belli vissuti con la moglie. Nei suoi racconti il nome di Maria, la moglie, aveva il sapore dolce dell’amore. Poi, per non rinverdire con quel nome lo strazio che aveva nel cuore, usava dire “Lei” sollevando l’indice, come per chiamare testimone quella creatura ch’era volata anzitempo in cielo.

Donn’Affiu, un omone dall’età indefinibile, parlava invece della sua infanzia. Disgrazie ne aveva da raccontare. Aveva perso il fratello di vent’anni , ch’era saltato in aria mentre sistemava l’innesto per fare esplodere una mina nella galleria dove lavorava. Il padre non voleva sentirne di aiutare la nuora, vedova con due figli da sfamare, perché non aveva condiviso la fuitina del figlio che quelle braccia, a sentir lui, doveva ancora impiegare per mandare avanti la famiglia che l’aveva messo al mondo. Così donn’Affiu s’era visto costretto a “rubare” in famiglia per mandare avanti quelle tre sfortunate creature. Era lui ,la mattina, che strigliava e “governava” l’asino e lo stallatico doveva rimuovere per farne un cumulo, che nella vigna al momento giusto bisognava sotterrare. D’accordo con la madre, che negli occhi innocenti di quei suoi piccoli nipoti vedeva il volto straziato del figlio strappato al suo cuore, donn’Affiu nascondeva un pane, avvolto nella carta, tra il letame, che, non visto dal padre, finiva in bocca a quei tre disgraziati. Poi, era un chilogrammo di fave o di ceci a fare la stessa sorte. Quando un giorno il padre tirò le cuoia, il destino di quelle creature mutò. C’era quella famiglia infranta da salvare e donn’Affiu pensò bene di sposare la cognata. Giurò sull’altare di non volere altri figli, per non confondere col suo sangue l’affetto viscerale che nutriva per quelli del fratello. Un sacrificio che il Buon Dio ricambiò regalando a donn’Affiu un corpo grosso, ma un cuore più grande ,una salute di ferro e una famiglia in prestito dove non mancava mai pane e amore.

Don Vicenzu, il massaro, che ci ospitava, aveva, intanto, già fatto tre giri di vino, riempiendo i bicchieri fino all’orlo, perché, si sa, l’offerta del vino è segno di ospitalità, ma serve anche per sciogliere la lingua e addolcire i pensieri. L’abitudine di riempire i bicchieri fino all’orlo era, allora, caratteristica dei contadini, che con quel gesto, a onta delle regole di buona creanza, indicava segno di generosità. Quelle storie don Vincenzo le conosceva a memoria, perché non era solo il lavoro che divideva con i compagni, ma anche le pene, che in silenzio ascoltava.

La moglie del massaro, donna Lia, se ne stava in disparte, a rammendre. Come facesse a cucire con quel buio pesto nella stanza, annerita dal fumo, era un mistero tutto femminile. Ascoltava in silenzio, anche se talvolta un incomprensibile brontolio tradiva la voglia di dire la sua, che a malapena tratteneva. “Quei racconti erano cose da uomini, sì, per Dio”, pensava, “ma perché alla donna era consentito di parlare solo sotto le lenzuola?”

Itanu, il più giovane, per timidezza o per rabbia si mangiava le unghie e con esse la terra che quelle unghie avevano catturato, strappando ciuffi d’erba dai muri infestati di parietaria. Era dovuto tornare in fretta dall’Australia perché il padre era morto, lasciando la moglie incinta e tre figli piccoli ai quali bisognava dare da mangiare. Quando partì, qualche anno prima, aveva appena compiuto diciotto anni e il costo del biglietto aveva dovuto rimediarlo dalla generosità dei parenti. Sulla nave nemmeno un soldo in tasca e viverci un mese quando durava la traversata, era come attraversare, senz’acqua, il deserto su un cammello. Solo acqua e pane che qualche cameriere di bordo, per pietà, gli rimediava. Quando arrivò al Porto di Brisbane, senza i cinque chili che aveva lasciato per digiuno sulla nave, la felicità gli aveva tolto persino il morso della fame. Aveva così tanto metabolizzato l’acqua salata del mare che gli venne solo una gran voglia di bere. Qualcuno sulla nave gli aveva insegnato qualche parola d’inglese: Working, bread, soda Water. Solo quest’ultima ricordava, ma pronunziandola “situata” non trovava nessuno che lo aiutasse a dissetarsi. Quando, morto di sete, senti alle spalle che qualcuno parlava la sua lingua gli parve di non essere mai partito dal paese. All’estero, a quei tempi, la fratellanza era un obbligo e così Itanu, grazie a quei paesani trovati lì, per caso, trovò pure il lavoro. Scaricava cassette di frutta che non aveva mai visto, né sapeva come si chiamasse. Quando il sabato il padrone della farm lo pagava, egli metteva in tasca quel denaro incomprensibile, senza contarlo. Lo guardava come se non gli appartenesse, perché dall’altra parte del mondo c’era qualcuno che lo aspettava. Poi l’incanto si spense, i sogni svanirono, il ritorno al paese si fece pressante. Adesso era li, attorno a quel braciere, in mezzo ai suoi compagni a raccontare il suo breve sogno australiano. Costretto, suo malgrado, a legarsi la zappa alle mani, quella zappa dalla quale, forse, non s’era staccato mai.

Donna Lia, intanto, finito di rammendare, aveva accorciato lo stoppino del lume a petrolio, non si sa per risparmiare o per dare il segno che bisognava andare a dormire. Il pagliericcio, accanto alla stalla, era lì che attendeva le membra stanche di quei disgraziati. Un altro giorno di fatica li attendeva, io altre storie d’ascoltare.

Saro Pafumi

lunedì 9 settembre 2013

Tempo di funghi

Tempo di funghi


A frotte invadono valli e monti, i cercatori di funghi. All’alba, s’inerpicano su per le montagne in cerca dell’odoroso porcino. Sembrano volenterosi che partono per la guerra. Cercano, frugano, scavano in ogni dove, con ardore e fiuto, mai sazi del raccolto sottratto alla benefica natura. Le ceste ricolme non si contano, ad onta della legge che impone limiti precisi. La stagione è propizia e quando il raccolto è abbondante, non c’è legge o regolamento che tenga. Anche se il cofano dell’auto è pieno, l’ingordigia suggerisce un’altra ricerca, come se un ultimo porcino, che non vedi, ma avverti, è là ad aspettarti. Maledici l’ombra della sera che, benefica, incombe a difesa della natura, da quello scempio senza fine. Poi sazio, ma non troppo, fai riorno a casa. Ormai quel raccolto, rubato alla natura, disteso sul tavolo della cucina non fa più storia. Una nuova, programmata, necessaria incursione agreste ti toglie il fiato e attendi che la notte, veloce, passi, perché per un cercatore la corsa al fungo è senza fine, come il desiderio smodato e incontrollato dell’uomo, che, da sempre, il frutto agogna senza fatica.

“Oh, guata un fungo, e quindi un altro: oh quanti funghi

Usciti son per tutto, appena han vista quella poca di piova” (Leopardi) cantarella felice, non sazio il cercator, tra foglie e rami che la terra coprono.

Saro Pafumi



mercoledì 4 settembre 2013

Pochi ospedali? Forse troppi e male organizzati

Pochi ospedali? Forse troppi e male organizzati.


“Un vecchio che vive in un piccolo centro abitato lontano dai grandi ospedali”, come Linguaglossa per fare un esempio ( ma il paragone regge anche per altr5i piccoli centri)”, mi faceva notare don Sarbaturi Sciarmenta, contadino doc, noto per la sua proverbiale saggezza, “quando pensa alla morte, lo fa in modo pessimistico per due ordini di ragioni: in primo luogo perché la morte, sentendola vicina, la considera un affare serio, come altrettanto serio è immaginare come morire.



“Vediamo quello che mi può capitare” aggiungeva don Sarvaturi Sciarmenta “se mi dovessi sentire male. Il primo pensiero dei miei parenti è di accompagnarmi al pronto soccorso che è il posto più vicino. Poiché in genere nei pronti soccorsi di paese se cerchi la fiala non trovi la siringa e se hai la siringa non trovi la fiala, il medico di turno si limiterebbe a darmi una sbirciatina e abbozzando l’espressione di chi intende dire: "Ma a mia ccu mi ci porta nta ci centu missi” consiglia i miei parenti di ricoverarmi nell’ospedale più vicino (da noi, a Giarre), senza nemmeno chiedersi, se ho il tempo d’arrivarci.



A sirena spiegata si parte per l’ospedale indicato (Giarre. Andare a Taormina non si può)). Ma se le condizioni sono serie o richiedono interventi specialistici anche questa seconda tappa si rivela inutile. Si corre quindi verso altro ospedale, d solito Acireale. Ma anche qui i reparti specialistici non sono completi, per cui non resta che recarsi a Catania”.



Con molto buon senso don Sarbaturi Sciarmenta, aggiungeva: “ Come si vede la situazione non è piacevole Che fare?



1) “Si potrebbero abolire le tappe intermedie, di solito inutili, guadagnando tempo prezioso;



2) Si potrebbe confidare nella Divina Provvidenza o rassegnarsi al destino. In fondo, morire mentre si corre verso l’ospedale” concludeva don Sarbaturi Sciarmenta “è come scegliersi una “morte sportiva “.



Che bella metafora quella di don Sarbaturi Sciarmenta. Ironia o amara saggezza? Forse la paura di ciò che può avvenire e, purtroppo, avviene, fatti i debiti scongiuri, vivendo lontano dai grandi ospedali o vicino a quelli, che potenziati non sono, e quindi inutili.

Come dargli torto.



Saro Pafumi

domenica 1 settembre 2013

I dieci comandamenti per chi reca in un ufficio


I Dieci comandamenti per chi si reca in un ufficio

Primo: Fai uso di camomilla per affrontare con calma e serenità il travaglio che ti attende.

Secondo: usa la gentilezza nel rivolgerti all’impiegato: “ Scusi se la disturbo e la distolgo dai suoi onerosi impegni, ma ho una domanda da rivolgerle (segue quesito).

Terzo: essere brevi e concisi perché solo per il pubblico impiegato il tempo è denaro.

Quarto: abbassare ripetutamente il capo , in silenzio, per ogni documento richiesto.

Quinto: non chiedere mai se l’elenco sia completo, perché lo saprai, dopo le tante volte che ti sarai recato presso lo stesso impiegato, aggiungendo o intercalando nuovi documenti.

Sesto: confidare nella fortuna, perché se l’impiegato con cui hai trattato la pratica è assente, sostituito o trasferito, devi, come nel gioco dell’oca, iniziare tutto d’accapo.

Settimo: non chiedere mai il tempo che ci vorrà per l’espletamento della pratica. L’impiegato, in questo caso allargherà le braccia che, bada, non è segno di sconforto, ma un indicatore senza tempo.

Ottavo: annota i giorni e le ore di ricevimento, perché ogni ufficio ha la sua tabella di marcia, salvo s’intende riunioni sindacali, blocchi telematici, ponti, assenze per malattia, quali: starnuti, naso che cola, mal di schiena, raucedine, stress post-festivo …..

Nono: evitare i mesi di luglio e agosto, che nei calendari del pubblico impiego, sono soppressi e non recarsi negli uffici pubblici prima o dopo il periodo feriale e nei giorni che precedono o seguono le festività natalizie e pasquali, perché in tali periodi si discutono i bilanci preventivi o consuntivi delle ferie appena trascorse o da trascorrere.

Decimo: non gongolare in caso di esito positivo della pratica. Hai appena attraversato la soglia dell’inferno.

Saro Pafumi