mercoledì 24 marzo 2010

Linguaglossa,perché sceglierla

Linguaglossa come i suoi abitanti ha due facce. Puoi amarla o odiarla, apprezzarla o criticarla, esaltarla o demolirla.- Chi vi è nato o l’ha scelta non conosce mezze vie.
Per chi l’ama, Linguaglossa è un paese collinare, non popoloso, dove l’aria è mite. Il traffico automobilistico, con le dovute eccezioni, è relativamente scorrevole, i parcheggi agevoli, se persino nelle zone vietate è consentito sostare; i vigili che altrove sono “vigili”, qui sono “ list of ghosts”; l’equidistanza dal mare e dalla montagna ( appena 11 km) fa del luogo una residenza piacevole, sia d’estate, sia d’inverno, la vita scorre bucolicamente serena, con le mucche alle porte del paese, come in Svizzera. Il verde è abbondante con la fragranza dei suoi profumi; nella stagione fredda, alle otto di sera, il paese s’addormenta: unica, muta presenza nelle strade deserte i lampioni accesi, sentinelle vigili di una vita assopita. Il paese, per la proverbiale mitezza dei suoi abitanti, non conosce particolari episodi di violenza, una caratteristica che da sola è come avere, a briscola, l’asso in mano. La vita trascorre senza particolari tumulti o frastuoni, ad eccezione del monotono tic-tac del pendolo che scandisce l’inesorabile scorrere del tempo. Che vuoi altro dalla vita? Recita un noto spot pubblicitario o chi ha scelto il paese come stazione di partenza per i Campi Elisi.
Perché scegliere Linguaglossa, metterci le radici e restarci? Punto di domanda di molti altri. Il paese è appena un fazzoletto di terra racchiuso in una camicia di forza: la Sovrintendenza da una parte, il Parco dell’Etna dall’altro. La presenza all’interno del territorio d’aree boschive, pozzi idrici, vincoli idrogeologici, zona di rispetto cimiteriale, esosi oneri di costruzione ed urbanizzazione, sanciscono, di fatto, la totale inedificabilità sull’intero territorio. La costruzione di una cuccia per il cane può essere considerata violazione delle leggi urbanistiche. In questo persistente ristagno economico gli sbocchi occupazionali sono un miraggio, chi possiede un terreno edificabile è costretto a pagare l’Ici per un’area che non trova investitori, la montagna, speranza atavica, langue immersa in un sonno profondo La burocrazia, un ectoplasmo impiegatizio e cartaceo alimenta solo se stessa, spostando montagne di carte come foglie al vento, tagliando le mani di chi, con coraggio o incoscienza vuole cimentarsi in iniziative. Chi in passato, sperando nel risveglio del paese, ha aperto alberghi, ristoranti, b&b, agriturismi, pensioni, pizzerie, si ritrova sull’uscio del proprio esercizio col grembiule annodato ai fianchi, nell’attesa del turista che non arriva.
Se mai dovessi fotografare questo paese, dal volto di Giano, disegnerei un vecchio e un giovane sotto il cartello stradale che indica il paese: il primo con accanto, poggiata a terra la valigia, il secondo con la sua in mano. Lascerei che fossero i cittadini a scoprire il significato allegorico e domandarsi o affermare: Linguaglossa, perché sceglierla!?

Saro Pafumi

La mafiosità la respiriamo tutti i giorni

Chi ha avuto necessità di rivolgersi ad un ufficio pubblico o privato per il disbrigo di una pratica, ha senz’atro notato il differente stile di chi è preposto a ricevere il pubblico. Nel primo caso l’educazione, la professionalità, la cortesia sono di casa, nel secondo incontrare un impiegato con questi requisiti è come trovare una mosca bianca, con le dovute, sacrosante eccezioni. Ma poiché l’eccezione conferma la regola. tirando le somme gli uffici pubblici non fanno bella mostra di sé in quanto a gentilezza e cortesia e talvolta persino a professionalità nei rapporti con gli utenti.
Si spazia in questi casi dal mutismo, al tono infastidito, peraltro nemmeno tanto simulato, all’ostracismo dichiarato, per finire all’insolenza.
L’utente che ben conosce la psicologia dell’impiego pubblico, in genere s’accosta con rispetto e deferenza se non addirittura con timore, il che non agevola di certo l’approccio. Presentarsi “col berretto in mano”, un modo educato di chiedere, talvolta è scambiato per debolezza o timore, con la conseguenza che sul povero malcapitato si apre un inaspettato fuoco d’artiglieria.
In certi uffici, una domanda è ammessa, due sono troppe, tre sono l’anticamera dell’espulsione.
La differente condotta tra privato e pubblico sta soprattutto nella difesa di cui dispone l’impiegato pubblico, forte del sindacato che lo rappresenta, prerogativa che manca nel settore privato. Conseguenza di questa cattiva prassi generalizzata è la ricerca “dell’amico”. “Le porto i saluti del dr………….il quale mi ha consigliato di rivolgermi a Lei per………” è la premessa che apre la porta… In questi casi, La cortesia diventa un obbligo, la pratica si trova e talvolta pesino la soluzione del problema.
Se così è, mi chiedo: che differenza passa tra chi si rivolge ad un “mammasantissima”, non disponendo d’amicizie più idonee, per risolvere un problema che lo tormenta e chi si rivolge all’amico di famiglia o al conoscente influente per risolvere il suo? In entrambi i comportamenti si ravvisa il concetto di “mafiosità”.
Quando la cortesia, la disponibilità, che sono o devono esser un obbligo, si trasformano in ostracismo o sopruso, diventano necessarie le ricette per arginarla… Il benpensante che non ha gli strumenti adeguati per essere ascoltato scopre l’antidoto “nella raccomandazione” un aiuto che neutralizzi l’altrui volontà di sopraffare o di sottrarsi al proprio dovere. Da qui a rivolgersi “all’amico” per ritrovare un’auto rubata, il percorso è breve. Non importa se nel primo caso l’intervento dell’amico è gratuito ( ma può anche non esserlo) e nel secondo prezzolato. Quel che si evidenzia in entrambi i casi è la convinzione che per ottenere un proprio diritto è necessario l’intervento esterno, una forza pari o superiore alla resistenza da rimuovere. Questo germe si definisce “mafiosità” un’erba infestante che alligna nell’animo, facendo ritenere normale e necessario un atto, un comportamento di per sé riprovevole.
Un’esperienza personale. A Napoli sul Ponte della Sanità mi fu sottratta dall’auto una borsa con documenti. Mi precipitai in caserma per denunziare l’accaduto. Risposta : Torni domani Mi ricordai che in quella zona, come primario di un reparto dell’ospedale operava un mio carissimo amico. Grazie al suo intervento (per motivi professionali conosceva “ il referente” della zona) ebbi, entro un’ora dall’accaduto, i miei documenti ( senza cartella di pelle) accompagnati dalle scuse e da un ottimo caffé napoletano.
Mi salvò, in quell’occasione, lo confesso, la mia abitudine mentale “al sistema”, tipica di chi la mafiosià nel nostro corpo sociale la respira tutti i giorni.

Saro Pafumi

domenica 21 marzo 2010

La pensione del superburocrate

La Sicilia del 20/03 in prima pagina riporta la notizia che ad un superburocrate è stata liquidata una pensione giornaliera di 1369 euro. Ho letto l’articolo tutto d’un fiato, per sapere se nel titolo era contenuto un errore o la realtà era quella scritta a carattere cubitale. La pensione era vera. Ultimata la lettura, ho trattenuto il giornale tra le mani soffermandomi a fissare l’immagine del fortunato superburocrate, studiandone i connotati: capelli, fronte, occhi. naso, labbra, orecchie, mento nel tentativo di scoprire un lato di essi che non fosse comune agli altri mortali a me noti. Ogni cosa era a suo posto.
La differenza con gli altri suoi e miei simili, ho pensato, dovrà cercarsi, forse, nel suo nome, Felice, presagio di future fortune. Quanti gli uomini di nome Felice che non condividono la stessa fortuna, dicevo tra di me. Forse che la chiave di tanto successo dovrà, allora, cercarsi nella particolare scatola cranica di questo superburocrate dove un groviglio di speciali filamenti hanno fatto di lui un manager di primo livello nell’Agenzia regionale dei Rifiuti? Quelle montagne di spazzatura, per intenderci, presenti dappertutto che quotidianamente appestano terra. mare e cielo. Solo in questo putrido letamaio poteva trovarsi un siffatto primato da guinness, Un letamaio dove assieme agli avanzi del nostro sfrenato consumismo abbiamo sepolto la nostra coscienza. Un letamaio dove è impossibile separare dignità, decoro, coscienza, immondizia, letame, vergogna, morale, legge e fetore,
Pubblicato su La Sicilia il 20/03/2010 Saro Pafumi

martedì 9 marzo 2010

Sant'Agata: Torce a pila e non ceri

Non sono catanese, ma non per questo non mi sento di dire la mia sui ceri in occasione della festa di S. Agata. Sono convinto che se Sant’Aituzza, com’è chiamata affettuosamente a Catania, vedesse quei ceri che la precedono e la seguono in processione si rifiuterebbe di uscire dalla Chiesa che la ospita. Non sto qui a spiegare i mille motivi che si possono portare a sostengo di questa tesi, ma una cosa mi preme precisare. Se i ceri, per forza di cose, si devono considerare segno di fede, come fiammelle che scaldano i cuori verso la Santa patrona, perché non sostituirli con torce alimentate a pile? Capisco che questa mia proposta apparirà “oscena” ai sostenitori della tradizione, perché sostituire i ceri con torce a pila, mi si permetta il paragone prosaico, è come rinunziare al pane cotto nel forno a legna, ma poiché nel mondo in cui viviamo tutto è artificiale, persino la fede, non ci sarebbe scandalo alcuno. Potrebbe l’espediente salvare la vita di qualcuno, l’unico bene che, almeno per ora, nulla ha d’artificiale.
Salvo approvazione ecclesiastica e laica, s’intende.
Saro Pafumi

Pubblicato su La Sicilia 10/03/2010

I Vescovi italiani e la questione meridionale


I vescovi italiani affrontano la questione meridionale, per quello che si legge sui giornali, definendola “emergenza educativa”. Se ho capito bene, la cura dovrebbe fondarsi sulla cultura “del bene comune, della buona amministrazione, della sana impresa, del rifiuto dell’illegalità".
Non vorrei essere prosaico, ma in quest’analisi non c’é alcun accenno al problema del lavoro. L’analisi si rivolge allo spirito, tralasciando un elemento essenziale dell’essere umano: il fabbisogno. E per fabbisogno intendo il diritto al lavoro, l’occupazione quotidiana “a fare” più che “a sperare” Quella speranza con la quale i giovani convivono tutti i giorni. La vera medicina, per risolvere i tanti problemi del Sud, non sta nell’educazione “del popolo”, ma nella sua realizzazione “come popolo”. Il resto è un necessario corollario che viene da sé, in cui l’educazione si inserisce, semmai, come elemento necessario per evitare storture o devianze. Senza la premessa necessaria del diritto al lavoro, ogni tentativo educativo è destinato a naufragare e a nulla valgono gli inviti alle parrocchie “affinché si facciano promotrici non solamente di una dottrina del buono agire, ma di una pratica del buono fare”.
Riflettendo sulle attese dei Vescovi italiani mi sovvengono alla mente gli anni della mia giovinezza, quando in molti frequentavamo l’azione cattolica. Un luogo in cui s’insegnava l’arte del buon cristiano e del buon cittadino. Allora la sede era frequentata principalmente da giovani che avevano alle spalle una famiglia, la quale, pur barcamenandosi tra mille difficoltà, era sostanzialmente solida dal punto di vista morale. Mancava, però all’interno dell’allora azione cattolica, una vasta schiera di giovani che aveva seri problemi di sopravvivenza. Una pentola annerita posta traballante su due pietre non sempre era pronta a bollire, per mancanza dell’alimento essenziale.
Alcuni miei compagni di gioco che appartenevano a questa categoria, figure “anoressiche” non per scelta, ma per necessità, per sfuggire alla fame invadevano le campagne alla ricerca di ciò che fosse commestibile. Erano insaziabili cavallette alle quali era inutile spiegare che all’imbrunire cominciavano le lezioni di catechismo. Era quella che segnava il passaggio dal giorno alla notte l’ora migliore per pensare a qualcosa di “più cristiano”, alla pancia. Allo spirito avremmo pensato noi più fortunati.
Obbedienza, castità e povertà sono tre voti che scelgono i frati francescani. La prima è possibile, la seconda un po’ meno, ma la terza è una virtù eroica.

Pubblicato su La Sicilia il 09/03/2010 Saro pafumi

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sabato 6 marzo 2010

Quei quattro deficienti che su facebook....


Chi abita a Linguaglossa, ma non solo, non può non conoscere un personaggio che circola per le strade, piova, nevichi o faccia bel tempo. Un personaggio, “sfortunato” per certe sue facoltà, ma sarebbe meglio chiamarlo “speciale” per le sue doti d’umanità. Una dote che il Buon Dio gli ha profuso a piene mani, forse pentito di non averlo abbastanza dotato.
Un personaggio che con la semplicità ha confezionato il suo abito, col quale si mostra alla gente che lo difende e lo ama. Una creatura che l’intero paese ha adottato che, se incontri, ha il potere di strapparti il diritto di precedenza qualunque cosa tu faccia in quel momento. La sua girovaga, quotidiana presenza è di conforto per almeno due fondamentali considerazioni: ci fa sentire “fortunati”, confrontandoci e ci rende migliori per la ricchezza d’umanità che ci trasmette. Nessuno dei difetti dei comuni mortali lo sfiora: non la cattiveria, né l’invidia, né tanto meno la bramosia che ci accompagna nel nostro quotidiano vivere. La sua è una dignità composta, discreta, persino “ricercata”. Si coglie nel suo quotidiano agire, e persino nel vestire curato, che mostra in pubblico, ad onore di chi, con sconfinato amore, lo assiste. E’ dotato di una sana, spontanea allegria che talvolta sconfina in tagliente ironia, come quando ti fa cenno con l’indice, che batte ritmicamente sulla tempia, che “sei tu” ad avere qualche cosa fuori posto. Un gesto che spiazza, come parte di un copione che egli magistralmente recita. Osserva con distaccata sufficienza e curiosità chi incontra, quasi a volere chiedere con i suoi occhi divertiti: “Perché fatichi tanto? Non sai che l’esistenza è un aquilone trattenuto da un sottile filo, pronto a spezzarsi al primo soffiar del vento?” E mentre con gli occhi t’interroga, mai che esca una parola piena dalla bocca, ti chiedi se per caso quella sua aria non sia l’essenza della saggezza. Poi come esperto schermitore che studia avversario e tempo non risparmia la stoccata finale: “ Tu, nun si bbonu!”,un groviglio di monosillabi impastati, masticati con fatica che fanno pensare chi lo ascolta.
Poi quando, è lui a decidere, col suo personale e garbato incedere si allontana, scopri che qualcosa del tuo animo si è portato via, non senza averti regalato in cambio la leggerezza del suo essere. Ecco, io vorrei che quei quattro deficienti che su facebook hanno inventato il tiro a segno su certi bambini “sfortunati” conoscessero e si confrontassero con quest’autentico uomo.

Pubblicato su La Sicilia il 07/03/2010 Saro Pafumi

venerdì 5 marzo 2010

Il segno di Zorro, parole o chiacchere


Quando parlano gli esponenti delle maggiori organizzazioni sindacali, li ascolto sempre con attenzione ed interesse. Ciò che dicono è sempre apprezzabilissimo e pieno di buon senso.
Si può non condividere che i lavoratori vanno tutelati, che il lavoro è un diritto, che le pensioni devono essere adeguate al costo della vita, che le famiglie vanno difese, che le case sono un diritto per tutti? Sono parole, le loro, che lasciano il segno, come la grossa “Z” che lo Zorro immaginario incideva sul petto degli avversari. Anzi me le immagino vestiti col mantello nero, con la maschera nera, col cappello nero, pronti a togliere ai ricchi per dare ai poveri.
Che ne direste se li nominassimo rispettivamente: Presidente del Consiglio, Ministro del Tesoro e del lavoro? Il lavoro sarebbe assicurato, il benessere diffuso, gli scioperi un ricordo, la pace sociale finalmente una conquista. In caso di crisi finanziaria, niente di preoccupante: le banconote anziché su filigrana si possono stampare su carta “pulp”, come quella con la quale erano stampati i fumetti di Zorro che da piccoli compravamo.
Potremmo almeno dire che i sogni si avverano o che le parole sono chiacchiere.

Pubblicato Saro Pafumi
06.302010