martedì 9 marzo 2010
I Vescovi italiani e la questione meridionale
I vescovi italiani affrontano la questione meridionale, per quello che si legge sui giornali, definendola “emergenza educativa”. Se ho capito bene, la cura dovrebbe fondarsi sulla cultura “del bene comune, della buona amministrazione, della sana impresa, del rifiuto dell’illegalità".
Non vorrei essere prosaico, ma in quest’analisi non c’é alcun accenno al problema del lavoro. L’analisi si rivolge allo spirito, tralasciando un elemento essenziale dell’essere umano: il fabbisogno. E per fabbisogno intendo il diritto al lavoro, l’occupazione quotidiana “a fare” più che “a sperare” Quella speranza con la quale i giovani convivono tutti i giorni. La vera medicina, per risolvere i tanti problemi del Sud, non sta nell’educazione “del popolo”, ma nella sua realizzazione “come popolo”. Il resto è un necessario corollario che viene da sé, in cui l’educazione si inserisce, semmai, come elemento necessario per evitare storture o devianze. Senza la premessa necessaria del diritto al lavoro, ogni tentativo educativo è destinato a naufragare e a nulla valgono gli inviti alle parrocchie “affinché si facciano promotrici non solamente di una dottrina del buono agire, ma di una pratica del buono fare”.
Riflettendo sulle attese dei Vescovi italiani mi sovvengono alla mente gli anni della mia giovinezza, quando in molti frequentavamo l’azione cattolica. Un luogo in cui s’insegnava l’arte del buon cristiano e del buon cittadino. Allora la sede era frequentata principalmente da giovani che avevano alle spalle una famiglia, la quale, pur barcamenandosi tra mille difficoltà, era sostanzialmente solida dal punto di vista morale. Mancava, però all’interno dell’allora azione cattolica, una vasta schiera di giovani che aveva seri problemi di sopravvivenza. Una pentola annerita posta traballante su due pietre non sempre era pronta a bollire, per mancanza dell’alimento essenziale.
Alcuni miei compagni di gioco che appartenevano a questa categoria, figure “anoressiche” non per scelta, ma per necessità, per sfuggire alla fame invadevano le campagne alla ricerca di ciò che fosse commestibile. Erano insaziabili cavallette alle quali era inutile spiegare che all’imbrunire cominciavano le lezioni di catechismo. Era quella che segnava il passaggio dal giorno alla notte l’ora migliore per pensare a qualcosa di “più cristiano”, alla pancia. Allo spirito avremmo pensato noi più fortunati.
Obbedienza, castità e povertà sono tre voti che scelgono i frati francescani. La prima è possibile, la seconda un po’ meno, ma la terza è una virtù eroica.
Pubblicato su La Sicilia il 09/03/2010 Saro pafumi
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