giovedì 21 novembre 2013

Sul significato del toponimo Linguagrossa

Il lettore G. Cappellano su questa rubrica (16/11) ci ammannisce una lezione sul probabile significato del toponimo LinguagLossa / LinguaGrossa? Posso assicurate il lettore, che l’argomento ha impegnato, fin dall’antichità il fior fiore di studiosi: Arezio, Brietio, Fazello, Omodei Maurolico ecc, non ultimi i nostri concittadini Calì e Cavallaro, alla ricerca della vera identità di Linguaglossa, la cui prima citazione compare in un decreto di Ruggero II del 1145. La ricerca verte anzitutto sull’origine del vero nome, che per secoli, fino al ‘8oo , è riportato nei documenti col nome di Linguagrossa (con la “erre”), poi ad opera di un certo Sac. Don Francesco Pafumi, ripresa qualche tempo dopo, da un altro tal Carmelo Maria Pafumi corretto con il nome di Linguaglossa (con la “elle).Il quesito è pertanto duplice: Linguaglossa o Linguagrosa? E quale il significato da attribuire? La soluzione del primo quesito non dovrebbe essere particolarmente difficile, se dall’origine (1145), fino all’’8oo il sito era chiamato Linguagrossa (con la “erre). Maggiori difficoltà presenta, invece, il secondo quesito, ossia il significato del toponimo che varia se si parte dal nome originario Linguagrossa o dal nome trasformato Linguaglossa, il cui significato di quest’ultimo è chiaro: ripetizione del sostantivo “lingua” più la traduzione dal greco dello stesso sostantivo, “glossa”. E’ sul significato del primo toponimo “Linguagrossa” che le in interpretazioni divergono, fino a scadere nelle leggende che nulla hanno di storico. Resta dunque il mistero,  per nulla “poco impegnativo”: perché Linguagrossa? Pubblicata su La Sicilia il 21.11.2013 Saro Pafumi

mercoledì 13 novembre 2013

Linguaglossa o Linguagrossa?

Linguaglossa o Linguagrossa?


E’ da tempo che a Linguaglossa centro etneo, vera porta dell’Etna, divampa la polemica sull’originario toponimo del paese: Linguaglossa o Linguagrossa? Una semplicissima “elle” in luogo di “erre” o viceversa, che se non cambia nulla in termini storici (sulle effettive origini si sa ben poco), cambia molto sul significato del toponimo. Le interpretazioni si sprecano e naturalmente differisco non poco se il significato da attribuirsi si riferisce all’uno o all’altro nome. Non mi attribuisco doti di studioso di storia “patria”, tuttavia mi permetto una semplice riflessione. Dagli studi sull’origine della cittadina pare che il suo nome sia riportato in un documento che risale al 1145 in cui si faceva riferimento a un “privilegio “ di Ruggero II in cui per la prima volta appare il nome di Linguagrossa. Tale nome resiste, con alterne vicende, se non vado errato. fino al 16oo/17oo, epoca in cui Linguagrossa assume definitivamente il nome di Linguaglossa. Mi chiedo: se nei documenti più antichi (1145/1600/ Linguagrossa è così denominata, ossia con la “erre” a posto della “elle”, cosa si aspetta per chiamarla definitivamente “Linguagrossa”, un toponimo peraltro riportato sul frontone del Palazzo Comunale, che illuminate, trascorse amministrazioni hanno voluto riportare e altre successive hanno mantenuto? Risolto questo primo problema il significato del toponimo, si semplifica.

Saro Pafumi Pubblicata su FB. Il 10.011.2013su La Sicilia il 12.11.2013

domenica 3 novembre 2013

Certe credenze......

Certe credenze….


da “Racconti di sera” di Saro Pafumi

Quella mattina la campana a morto cadenzata e straziante aveva suonato a lungo nella Chiesa dell’Annunziata.

Don Turi e donna Rosa, compagni da una vita, per raccogliere gli ultimi rintocchi avevano “appizzato” l’orecchio, piegandolo, con l’indice , in direzione del suono, per capire chi, uomo o donna , la sorte avesse, quell’oggi, estratto. Un tocco, due, pausa, poi un tocco, due. I rintocchi ripetuti erano due, due volte ripetuti, che secchi e penetranti trafissero, come sottile lama affilata, il petto di donna Rosa, avendo la sorte scelto, questa volta, una donna.

Don Turi e donna Rosa per un attimo si guardarono, muti, come per riprendere fiato, poi d’un tratto don Turi, con mano incerta aprì l’uscio della porta per vedere se per caso “la morte” era là, vicina.

Era da tempo che donna Carmela il cui uscio si apriva tre passi dopo la casa di don Turi diceva di “volersene andare”, dopo la morte del marito e senza figli, emigrati in Australia. Ma i panni che donna Carmela il giorno prima aveva stesi non c’erano, il che faceva bel sperare.

Ad andarsene, la sera prima, era stata donna Maria “a panittera”, improvvisamente, in punta di piedi, senza chiedere permesso a nessuno. Don Turi lo seppe, quasi subito, uscendo di casa, alla prima svolta del vicolo, dove donna Maria teneva bottega, dove poche persone, affrante, di buon mattino, bisbigliavano confuse parole, davanti alla saracinesca abbassata.

Don Turi fece ritorno a casa, con passo incerto, per avvertire la moglie, che nelle orecchie aveva ancora il suono della campana a morto.

Si sedettero vicini, in silenzio, tenendosi per mano.

Poi d’improvviso donna Rosa, emanando un lungo respiro represso, come per liberarsi di un peso che aveva sullo stomaco, sbottò:“ E gli altri due, chi pensi che saranno?”







“ Gli altri due ?” replicò, stupito, il marito. guardandola negli occhi “.

Perché ti sei scordato che quando nel quartiere muore una persona, se ne tira dietro altre due?”.

“ Già” rispose il marito, “ ma, noi grazie al cielo, godiamo ottima salute”.







“ E donna Maria? replicò la moglie “ Non pareva che assieme al pane vendesse salute? Eppure, se ne ‘è andata senza dir nulla. La morte quando ti deve prendere, non guarda in faccia nessuno, giovane, vecchio, malato o sano che sia”.

“Rosa” disse il marito, per cambiare discorso e con tono risoluto: “ Mettiti qualcosa addosso e andiamo a fare visita a quella sventurata, perché non possiamo fare finta che nel quartiere non è successo nulla e poi donna Maria è una vita che ci forniva il pane appena sfornato”.

Donna Rosa prese uno spolverino che teneva nell’armadio, lo indossò, si annodò ben stretto il fazzoletto che le cingeva il capo e assieme si diressero verso casa di donna Maria dove il parentado e tutto il quartiere s’era riunito.

Il feretro era stato sistemato, all’entrata nella prima stanza dopo l’ultima rampa di scale, tutt’intorno i parenti avevano sistemato alcune sedie, perché chi voleva fermarsi avesse il tempo di recitare almeno un Ave. Il resto dei presenti era disposto sui gradini della scala, perché la casa di donna Maria, era quella che era, piccola, appena una “saliera”.

Don Turi salendo per le scale, seguito dalla moglie, più che il pensiero per la morta, un altro lo turbava: capire, tra gli astanti, chi poteva essere “il secondo ad essere chiamato”, visto che quasi tutto il quartiere era lì riunito. Dispensava strette di mano a destra e a manca, ma sotto sotto cercava di scrutarne gli sguardi, per capire se qualche indizio lo potesse tranquillizzare.





“Hai visto comare Mena?” disse alla moglie, una volta tornati a casa, “Si è mangiata la carne addosso, era irriconoscibile , grande e grossa, una volta, com’ era”.

E don Franciscu, u scarparu”, replicò la moglie, quasi compiaciuta “ non hai visto che sembrava un Lazzaro resuscitato; s’era fermato in fondo alle scale perché di salirle gli mancava il fiato”.

Quelle riflessioni avevano dato coraggio a don Turi e a donna Rosa che contavano i giorni dalla morte di donna Maria, perché secondo quell’antica credenza erano trenta i giorni entro cui ci sarebbero state la seconda e la terza chiamata.

Intanto, a distanza di dieci giorni dalla dipartita di donna Maria “una voce” s’era sparsa nel quartiere con la velocità del fulmine e il rumore più forte di una bomba. Si diceva che in Australia il figlio maggiore di donna Carmela aveva per un incidente perso la vita.

Don Turi, saputolo al circolo dei pensionati, tra di sé, tirò un sospiro di sollievo e commentando la notizia, le uniche parole che riuscì a pronunziare furono: “povero figliolo” per non dare adito ai presenti che la notizia, nonostante tutto, lo tranquillizzava.





Il conforto durò poco, perché don Turi ritornato a casa e riferitolo alla moglie, non fu certo se quella morte così lontana, dovesse essere esclusa dagli abitanti del quartiere, come donna Rosa sosteneva, perché se era vero che il figlio di donna Carmela era nato e cresciuto in quel quartiere, in Australia da oltre cinque anni era emigrato e là era deceduto.

Il dubbio di donna Rosa fece ripiombare don Turi nell’angoscia, perché annullando quella morte sia pure ingiusta, il conteggio doveva essere rifatto e di giorni ne rimanevano solo venti.

Intanto l’attenzione di Don Turi e donna Rosa si concentrava sempre di più su donna Carmela, che vecchia, sofferente e distrutta per la prematura morte del figlio la morte la desiderava più di ogni altra cosa.





Don Turi e la moglie, in verità, non desideravano la morte di nessuno nel quartiere, ma quell’oscura credenza che trovava spesso riscontro nella realtà non li faceva dormire di notte e vivere di giorno.

E venne quel giorno, il ventiduesimo dalla dipartita di donna Maria.

Questa volta toccò veramente a donna Carmela che la morte del figlio aveva accelerata.

Don Turi e la moglie ne rimasero sinceramente addolorati, ché se anche quella di donna Carmela, era una morte annunciata, ancora una volta la credenza trovava conferma e quella stretta vicinanza a soli tre passi dalla loro casa, la morte li avvicinava.

Doveva con la morte di donna Maria, del figlio di donna Carmela e di donna Carmela ritenersi, nel quartiere concluso l’infausto rito della sequenza mortale?

Negli otto giorni mancanti, tutto poteva accadere, pensò don Turi, che a differenza della moglie, data la sua età, si riteneva l’eventuale prescelto, nel caso in cui i conti non sarebbero tornati.

Nulla disse alla moglie del suo dubbio e del suo affanno, ma nelle orecchie sentiva avvicinarsi a passi felpati la morte, distante appena tre passi.

Di buon mattino tirò fuori da sotto il letto due vecchie valige che, apertele, sistemò sopra il talamo.

Disse alla moglie di preparare poche cose da portare, perché quello doveva essere un giorno da festeggiare.

“Non ti ricordi” disse don Turi, alla moglie, incredula e sorpresa, “che il giorno delle nozze, “lo stretto” ti avevo promesso di farti attraversare?”.















“ Si. ma, poi, non se ne fece nulla per via che iniziò la guerra e là non ci potemmo andare.” lo riprese donna Rosa, con l’aria di chi a quella promessa non aveva rinunciato mai.

“Oggi, è quel giorno”, replicò don Turi mentre con affanno chiudeva le valige dove la moglie aveva riposto le poche cose da portare.

Presero un treno sbuffante che li accompagnò fino a Messina, un viaggio di quattro ore, interminabile, e man mano che quel convoglio ferroso, faticosamente sferragliava, don Turi sentiva allontanarsi sempre più l’odore acre della morte.

Sul ferry-boat, mentre la prua sguazzava spumeggiante e la brezza marina accarezzava i loro volti, il vento pareva portarsi via le ore i giorni e i cattivi pensieri.

Don Turi, per un attimo, si sentì giovane come il giorno delle nozze. Col suo braccio cinse il collo di sua moglie e la baciò.

Il breve tratto di mare che divideva la Sicilia dalla Calabria don Turi voleva che avesse il diametro del sole, perché su quella barca ondeggiante in mezzo al mare si sentiva sicuro, che la morte, lì, non li avrebbe cercati.

Quando tre fischi lunghi annunciarono l’approdo Don Turi non si scompose. Sollevate le valige discese seguito dalla moglie la scaletta che li conduceva al porto.

La stanza d’albergo che li attendeva fu, per dieci giorni , due giorni in più per scaramanzia, il loro nido d’amore.

Prima di fare ritorno a casa Don Turi chiese notizie ai parenti rimasti in paese se qualche dipartita, per caso, c’era stata nel quartiere.

Avutane risposta negativa , fecero ritorno, perché se la credenza era scienza la morte aveva bruciato il suo tempo.

Don Turi, in verità, non ci pensava più di portare la moglie in giro di nozze, ma a causa di quelle morti, così vicine, di necessità aveva fatto virtù.

A quella credenza don Turi ci credeva, come sapeva che quella morte, don Turi, veramente la temeva: Perciò, senza dirlo alla moglie, per pudore, aveva pensato, in fondo, che: “il fuggir non è vergogna, se a salvar la vita serve”.

Saro Pafumi