domenica 27 marzo 2011

Linguaglossa non decolla

Perché Linguaglossa non decolla? E’ la domanda che frulla in testa ad ogni linguaglossese. Proviamo ad azzardare alcune ipotesi.
Le ragioni di questo mancato decollo sono varie ed articolate: il carattere, l’indifferenza, la rassegnazione, la mancanza d’iniziativa degli abitanti; la limitatezza del territorio; i vincoli urbanistici;la burocrazia. Alcuni di questi ostacoli o limiti sono presenti in altre realtà cittadine, ma quasi mai assumono forza preponderante come a Linguaglossa.
Il linguaglossese, con le poche dovute eccezioni, ha fatto da tempo le sue scelte: il "posto sicuro” ed è con questa sua spasmodica voglia e certezza che convive.
Si chiami, il posto sicuro , "operaio della forestale” un’occupazione, dove la fatica è poca e la paga più che adeguata rispetto all’impegno profuso; si chiami “ bidello”, un lavoro dove lo stipendio è garantito e la pensione mediamente superiore a quella dell’artigiano o commerciante; si chiami “articolista” quanto basta per sopravvivere, tanto al resto ci pensano papà e mamma; si chiami “artigiano”, un mestiere col quale quello che si guadagna si mette, pari-pari, in tasca; si chiami “ commerciante” un lavoro che crea tanti pensieri, il primo fra tutti, come fare per pagare meno tasse.
Ognuno a modo suo ha trovato, sia pure tra mille difficoltà, la sua strada.
Poi c’è “lo studente" che coltiva illusioni ed infine “lo svogliato” che tra un lavoro saltuario e il ricorso al sussidio della disoccupazione non s’impegna più di tanto.
Le poche iniziative che fioriscono sono, quasi sempre, prerogativa dei forestieri ben visibili in questa realtà cittadina, assai disposta ad accoglierli con gentilezza e garbo.
Il limitato territorio, appena un fazzoletto di terra, soffocato da mille vincoli urbanistici e dalla solita burocrazia impeditiva fa il resto.
In siffatto ambiente umano abituato a scandire il tempo non a giorni , settimane o mesi, ma in anni e decenni la ricostruzione di Piano Provenzana, per fare un esempio, è perfettamente in linea con i tempi.
E’naturale che in un simile ambiente, dove il torpore e la rassegnazione sono endemici, tutto rimanga immobile.
In questo bailamme d’elementi negativi territoriali e caratteriali gioca il suo ruolo l’amministrazione della cosa pubblica, ma anche in quest’ambito ognuno si è ritagliato il proprio ruolo: l’esercizio del potere sul nulla, il soddisfacinento della propria vanità o il misero gettone di presenza che in taluni casi sembra essere la ragione della discesa in campo.
Linguaglossa è pertanto come un’auto col motore acceso, ma in perenne “folle”.
Da quando? La risposta la lascio ai cittadini, se hanno voglia d’interrogarsi.
Pubblicata su La Sicilia il 27.03.2011 Saro Pafumi

sabato 26 marzo 2011

Ambulanti sull'Etna

Non vorrei passare come chi rompe le uova nel paniere degli altri, anche se in qualche caso mi è toccato di farlo, ma quanto accade sull’Etna Nord la domenica è il caso di segnalarlo. In questo versante, come si sa, manca di tutto, persino i più elementari servizi. I pochi operatori turistici sono costretti, pertanto, ad operare tra mille difficoltà raccogliendo solo le briciole di un turismo svogliato e passeggero. Durante la settimana il versante è poco frequentato, per cui agli operatori non resta che attendere la domenica per rifarsi, quando ciò è possibile, delle spese e dei sacrifici che giornalmente affrontano.
Avviene, però, che nelle festività fanno la loro comparsa i paninari ambulanti che depauperando con la loro presenza le legittime attese degli operatori a posto fisso. condividono i magri guadagni che il turismo domenicale e festivo apporta.
Non discuto sulla legittimità del loro operare, giacché le licenze consentono questo tipo di vendita, ma sarebbe il caso che qualche autorità verificasse le condizioni igieniche dei mezzi, le distanze da osservare, lo smaltimento dei rifiuti e le modalità di vendita.
Le due attività, con posto fisso ed ambulante, presentano, infatti, evidenti disparità. La prima durante la settimana, come qualche operatore, con felice espressione dialettale dice, si limita a “ cogghiri l’ogghiu supra u maccu” e paga la tasa sui rifiuti, mentre la seconda ( paninaro) approfitta delle festività per intascare guadagni non proporzionati rispetto ai sacrifici affrontati.
Il problema va affrontato nell’interesse degli operatori che sull’Etna consentono giornalmente un minimo d’ospitalità, i quali chiedono se c’è qualcuno disposto ad affrontare il problema.
Pubblicato su La Sicilia il 25.03.2011
Saro Pafumi

martedì 22 marzo 2011

Ricordo di un vecchio fotografo:don Micalangiulu


Nei piccoli paesi per passare alla storia non occorre inventare la penicillina, basta essere “speciale“ nel suo campo, come “don Micalangiulu” lo era, a Linguaglossa, nell’arte della fotografia.
In un’epoca in cui le foto erano in bianco e nero o color seppia, egli non aveva rivali. Non che il lavoro abbondasse, perché, allora, anche le fotografie dei nubendi erano all’insegna del risparmio. Poche pose immortalavano gli sposi e quelle in compagnia dei parenti non superavano il sagrato della Chiesa. Il piatto forte di don Micalangiulu erano le foto per tessera, richieste dagli scolari che nel dopoguerra, numerosi, si cimentavano nell’alfabetismo. Farsi fotografare da don Micalangiulu non era un’impresa facile.
Intanto, andava avvertito per tempo, come si fa con un pittore che deve eseguire un ritratto e concordato il giorno si procedeva alla posa. La stanza in cui avveniva la “ripresa” era disadorna, Un lenzuolo appeso alla parete faceva da sfondo a chi, seduto su di una sedia “cca zammara” doveva farsi “ u tritrattu”. Di fronte, don Micalangiulu, armeggiando da dietro la macchina con la testa coperta da un drappo nero, impartiva ordini precisi: “a testa ritta”; “l’occhi aperti “; “ cerca di ridiri e non ti scurdari di liccariti i labbra”. L’ordine di leccarsi le labbra era la collaborazione che don Micalangiulu richiedeva, sapendo che quell’espediente consentiva alle labbra di assumere la giusta lucentezza. Un trucco che don Micalangiulu aveva imparato dopo anni di consumato mestiere. La “posa” durava un’eternità, perchè don Micalangiulu, pignolo com’era, doveva cogliere quella più naturale. Qualcosa però non andava sempre per il verso giusto, talché la posa spesso andava ripetuta, il che coincideva con “ a liccatina ‘i labbra”. Chissà per quali misteriose coincidenze chi posava “pu tritrattu” quasi sempre era fotografato con la lingua di fuori, mentre si accingeva ad eseguire l’ordine impartitogli da don Micalangiulu.
L’inconveniente si verificava spesso e poiché “la smorfia” si evidenziava al momento dello sviluppo, che, a quei tempi, avveniva il giorno dopo, il rituale della posa doveva essere ripetuto al completo.
Finito il lavoro, il ritocco finale della foto, fatto a matita, rigorosamente a mano, non poteva mancare. Era questo il momento in cui don Micalangiulu in cuor suo si sentiva più che un fotografo, un artista. E artista lo era veramente, se rivolgendoci a lui gli dicevamo: “Maestru Micalangiulu, ma fa ‘na fotu?”.
Oggi con le foto digitali, basta un click e si è subito fotografi. Il resto lo fa lo scanner e il computer che le trasmette in tutto il mondo. L’arte è diventata tecnica, La macchina di don MIcalangiulu è nei musei, le sue foto ingiallite dal tempo resistono negli album di famiglia, ma il ricordo di quest’artista è nei nostri cuori.


. Saro Pafumi

venerdì 18 marzo 2011

Il fu Villaggio Mareneve tra rovine ed oblii

Il villaggio Mareneve, per l’amaro destino che lo perseguita, dovrebbe chiamarsi più verosimilmente “Villaggiu Malasorti”.
Realizzato con superficialità ed approssimazione a partire dal 1958 su 25.000 mq del demanio comunale di Linguaglossa dietro un’indennità d’esproprio di appena 600 mila lire ( delibera n.75 del 14.06.1958) divenne proprietà della Regione Sicilia che lo affidò, con un canone assolutamente simbolico ad una società palermitana ( la SAT)che non ebbe nessun interesse a gestirlo, tant’è che lo concesse in sub-concessione a privati, ricavandone un reddito parassitario; in secondo luogo perchè il complesso, privo fin dalla nascita d’acqua e luce, era carente dei più elementari servizi; in terzo luogo per la presenza di boungalov decentrati rispetto al corpo principale difficili da gestire.
Il villaggio, dopo un breve periodo di relativo splendore, cadde nell’oblio; attraversò la fase del depauperamento delle poche strutture rimaste in piedi ( una sorte comune a tutte le strutture abbandonate) ed infine subì la devastazione di un incendio.
La Regione, che di un complesso ridotto in macerie non aveva interesse a conservarne la proprietà, pensò bene di cederlo alla Provincia regionale di Catania che, in un sussulto di rara dignità, tentò il recupero della struttura., impiegando una somma considerevole per la sua rinascita. Ma poteva la “malasorte” di cui è impregnato il Villaggio premiare un ‘iniziativa del genere, smentendo quello che accade giornalmente in Italia dove un’opera iniziata quasi mai raggiunge il completamento? Il villaggio, com’è ovvio, non si sottrasse a questo destino.
Oggi langue, lì, tra pietosi, alti pini larici che sembrano nasconderlo alla vergogna del turista e all’incuria delle Autorità, dove di tanto in tanto avide mani strappano brandelli della sua struttura come fossero reliquie da conservare.
I turisti lo guardano con disgustosa attenzione, i linguaglossesi con pietosa rassegnata nostalgia, gli amministratori con disinteresse, avendo ben altro cui pensare ( la ricostruzione di Piano Provenzana), i rari visitatori che s’introducono al suo interno n’escono nauseati, non senza aver depositato qualche “rifiuto corporeo” come augurio di buona fortuna o perché consapevoli che un ricovero dove potere soddisfare al coperto sull’Etna i propri bisogni è
un’impresa.
Che fare dopo un quarto di secolo di desolante abbandono e nessuna prospettiva futura?
Demolire la struttura principale, rimuovere quello che rimane del “ fu Villaggio”e in un sussulto di dignitosa arresa bonificare il terreno sito nel cuore del Parco dell’attuale inquinamento e restituirlo al Comune che n’è stato spogliato. Una diversa soluzione ci sarebbe. Appellarsi al quarto comma dell’art 3 della citata delibera comunale dove si legge: “Se il terreno espropriato non venga adibito allo scopo di cui sopra o dovesse un giorno cessare lo scopo per cui esso viene espropriato, esso terreno dovrà ritornare di proprietà del Comune”, forse con un destino ancor peggiore dell’attuale Una risposta, però, l’attendono i sedici amministratori del tempo che firmarono la delibera, i cui corpi si rivoltano nella tomba, il turismo in generale e i linguaglossesi che della pineta sono proprietari e vittime.
Ma per far ciò occorrono amministratori che abbiano gli “attribuiti” necessari: un genere a Pubblicata su La Sicilia il 17.03.2011.

Saro Pafumi

martedì 15 marzo 2011

La bicicletta a Tokio

Cose dell’altro mondo, verrebbe da dire, anche se il Giappone, con merito, fa parte di questo mondo.
Una linguaglossese, che lavora a Tokio, ogni mattina sale sulla bicicletta e percorrendo circa sei km raggiunge la stazione dove il treno la conduce sul posto di lavoro.
Com’è consuetudine in quel Paese si parcheggia la bicicletta negli appositi stalli , non curandosi di bloccala, come solitamente avviene dalle nostre parti.
Il recente terremoto che ha investito Tokio ha interrotto per alcune ore la circolazione dei mezzi pubblici, costringendo i cittadini, numerosi, ad acquistare una bicicletta per assicurarsi la mobilità. In una contingenza come questa, la giovane linguaglossese, ragionando all’italiana, era convinta di non trovare la bicicletta nel parcheggio incustodito, nella convinzione che, dato il trambusto, chiunque se ne sarebbe appropriato. La bicicletta, tra le duemila ritirate dai legittimi proprietari, era rimasta incredibilmente e saldamente al suo posto.
Cose dell’altro mondo, verrebbe da dire, ma in Giappone è la normalità.
E in Italia? Sarebbero scomparse tutte le duemila biciclette, anche senza tsunami.
Pubblicata su La Sicilia il 16.03.2011
Saro Pafumi

Sull'Unità d'Italia



E’ encomiabile la posizione di Napoletano che difende a spada tratta l’unità d’Italia che si sposa magnificamente col ruolo che riveste, ma al di là di questa ragionevole convinzione le posizioni degli italiani in materia d’unità sono diverse ed articolate. Se parliamo di unità intesa come contiguità territoriale si può essere d’accordo, ma se nel concetto d’unità ci facciamo rientrare la molteplicità dei cittadini siamo lontanissimi dal raggiungerla. Del resto le differenze etniche sono sotto gli occhi di tutti. Si può mai sostenere che un siciliano è simile ad un veneto o un calabrese ad un piemontese? Non c’è nulla che ci accomuna, all’infuori dell’idioma, quando non si parla in dialetto. Che tante diversità possano diventare unità è tutto da dimostrare e del resto i ragionamenti che si sentono in giro sul tema dell’unità sono la dimostrazione pratica che sotto quest’aspetto non c’è unità alcuna.
Forse questo sentimento unitario si manifesta o si può manifestare in occasione di calamità o guerre, perché la paura e la sofferenza sono il comune denominatore che unisce, ma in tempo di pace e/o di benessere si affaccia prepotentemente l’egoismo come regola di vita. L’Italia è più verosimilmente il paese dei mille campanili, un po’ perchè questa configurazione territoriale è storicamente endemica a noi stessi, un po’ perché è nel nostro carattere.
In certe occasioni storiche, com’è il periodo che stiamo attraversando, se c’è qualcosa che ci unisce è il disaccordo sul concetto d’unità.
Del resto questa disunità è sempre esistita, se lo stesso Massimo D’Azeglio all’indomani dell’unità d’Italia ebbe a dire: “Fatta l’Italia, ora bisogna fare gli italiani”. Una dichiarazione che sembra fatta l’altro ieri.
Se sul tentativo d’unione nazionale ci sarebbe qualche riserva da esprimere, sarebbe prerogativa del meridione che, a suo tempo, fu letteralmente scippato delle sue ricchezze, realizzando di fatto più che un’unità nazionale una vera annessione al Regno sabaudo.
Il colmo, poi, è raffigurato dalla posizione di certi politici nordisti che di unità non vogliono sentir parlare. Una posizione logica e coerente: chi ha rubato la ricchezza e la dignità degli altri, difficilmente è disposto a restituirle o a condividere benessere, ricchezze e privilegi.
Bossi e la lega ce lo ricordano tutti i giorni.
Pubblicato su La Sicilia il 15.03.2011
Saro Pafumi

giovedì 10 marzo 2011

Dov'è lo scandalo ?

Un tempo si chiamavano diversamente, oggi si definiscono Escort, un’espressione affascinante e misteriosa che sta ad indicare la più antica professione del mondo, anche se oggi è interpretata in modo elegante e disinvolto. Fiumi di parole, controverse immagini, discorsi moralistici, difese ed accuse hanno investito questa vasta schiera di “creature” che del loro e con il loro corpo vogliono ricavare una miniera d’oro.
Questa ventata di moralismo e sconcerto nei riguardi delle Escort nasce da certe ben note vicende private di personaggi pubblici che hanno fatto da detonatore del loro destino. Il problema è vecchio quanto il mondo, perché il corpo femminile, checché se ne dica, è stato considerato come “polvere pirica” in tutte le epoche storiche, passando dalle vicende bibliche d’Adamo ed Eva, alle guerre combattute per la conquista di una donna
(Elena e Paride), alle lotte familiari ( Giulietta e Romeo), per finire alla nostre Escort, contese o conquistate non più, per fortuna, a sciabolate, ma col tintinnio dei quattrini. Nulla di nuovo sotto il sole, escluso lo sconcerto di una parte dell’opinione pubblica che vede, a ragione o a torto, nello sfruttamento del corpo femminile il degrado della donna e della sua dignità. Le Escort d’oggi non sono altro che le figlie del ” sessantotto”, epoca in cui, ad opere delle donne nelle piazze si strillava: “ il corpo e mio e lo gestisco io” omettendo d’indicarne le forme e i modi.
Quella di colpevolizzare le Escort rappresenta il ritorno di fiamma di un certo modo di ragionare o di rappresentare la donna che contrasta col pensiero delle giovani generazioni o almeno di una loro cospicua parte. Una moda puritana, in parte dettata dal momentaneo sconcerto per risapute vicende private d’uomini pubblici, che però lascia invariato il tema sul corpo femminile. Purtroppo nella storia non si torna indietro e lo slogan: “ il corpo è mio e lo gestisco io” da una parte del genere femminile non è interpretato come segno di degrado, bensì come principio di libertà. Del resto le attuali vicende danno ragione a questo modo di pensare, basti vedere il successo della giovane Ruby che, da figlia sconosciuta di un anonimo marocchino, è assurta all’onore delle cronache. Il “male” che una certa campagna di stampa e una parte dell’opinione pubblica volevano estirpare è risorto più vivo e vegeto di prima. Del resto “la Ruby” aveva di fronte a sé poche scelte: vendere tappeti per strada assieme al padre; essere la sposa-schiava di un conterraneo; studiare ed ingrossare la fitta schiera dei disoccupati o scoprire “le potenzialità” del proprio corpo. Si è guardata addosso è ha scelto.
Come darle torto vista la notorietà acquisita, grazie alla campagna di stampa e all’opinione pubblica che la volevano demolire? I giudizi si dimenticano, ma i soldi restano. E’ il modo di ragionare che noi adulti e la società in genere inculchiamo ai giovani.
Dov’è lo scandalo?
Pubblicata su La Sicilia il 11.30.2011
Saro Pafumi

venerdì 4 marzo 2011

Guardare al passato per costruire il futuro



Spesso guardare al passato aiuta a costruire il futuro.
A cavallo degli anni cinquanta e sessanta, a Linguaglossa, fiorirono varie iniziative che trasformarono il paese, rendendolo più bello ed accogliente: lo “sventramento” di Via Roma, la realizzazione della strada Mareneve, gli impianti scioviari di Piano Provenzana con annesse strutture, la realizzazione di Piazza Giardino, unica piazza “laica” tra le tante intestate a Santi, autentico polmone verde del centro cittadino. Opere che cambiarono il volto di Linguaglossa, catapultandola tra i centri a vocazione turistica. Da piccolo centro agricolo, Linguaglossa, grazie ai suoi illuminati amministratori, ebbe un notevole incremento, i cui effetti ancor oggi ( eruzioni permettendo) sono evidenti.
Con l’inizio degli anni ottanta Linguaglossa inizia a sprofondare nel suo letargo, in parte, forse, perché paga dei suoi successi, ma più di tutto per una classe dirigente, precaria e litigiosa proiettata più che allo sviluppo del territorio a vivere della feconda attività dei predecessori. Un periodo di relativa decadenza contraddistinto da opere o piani che non ha lasciato impronta alcuna.
Il tempo trascorso ha peggiorato la situazione, al punto che l’unica attività oggi posta in essere ben può farsi rientrare nell’ordinaria amministrazione.
Le opere di oggi? Strisce zebrate, cartellonistica stradale, qualche rappezzo lungo le arterie cittadine o la timida pavimentazione di strade periferiche dal risultato poco esaltante.
Si potrebbe dire che “viviamo di rendita”, che “ tiriamo a campare” in attesa di chissà quali avvenimenti. Nessuna arteria di campagna resa carrozzabile, il centro urbano lasciato nel degrado, l’Etna caduta nell’oblio o fagocitata da mille vincoli e interrogativi, le strade cittadine impraticabili quando piove o piene d’insidie che costringono l’automobilista a zig-zagare.
Per una serie di motivi, tra cui un Piano Regolatore stravagante, vincoli paesaggistici e boschivi Linguaglossa è divenuto un paese letteralmente ingessato.
La logica conseguenza di questa paralisi è il mancato sviluppo e del territorio e delle attività ad esso connesse. Con il prossimo avvento del federalismo municipale le risorse i Comuni le dovranno in massima parte ricavare dal proprio tessuto sociale o mendicarle altrove, il che significa che in presenza di uno sviluppo quasi nullo, nulle saranno le risorse da rimediare.
All’ orizzonte non appaiono progetti che lasciano ben sperare, per cui il futuro di questo ridente minuscolo, ma pur sempre affascinante paese è incerto. I soggetti che intendono amministrare non mancano, anzi, per certi versi, sono troppi. Mancano purtroppo le idee.
In medicina per curare alcune disfunzioni è praticato l’elettroshock. Quali pratiche occorre mettere in atto per svegliare una società che si è letteralmente addormentata e che non ha programmato il suo futuro?
Pubblicato su La Sicilia il 05.03.2011
Saro Pafumi

mercoledì 2 marzo 2011

A YARA

Tre ciuffi d’erba tra le mani, germogli di vita strappati come i tuoi verdi anni. Offesa da turpe mano, non sei soggiaciuta, ma volata, novella Goretti, a passi d’amata danza per risorgere ancor pura tra schiere d’angeli. A noi hai lasciato gli orchi da combattere e le lacrime che la tua purezza ha prosciugato. Grazie Yara.
Pubblicata su La Sicilia il 03.03.2011
Saro Pafumi