mercoledì 28 dicembre 2011

Il sogno, il santo, il lavoro nero.


Oggi ho fatto un sogno. Chiedevo, genuflesso, non so a quale Santo o Divinità di farmi trovare un lavoro, in quest’isola scordata dal Signore. “Capisco che chiedo troppo”, imploravo “ ma se mi hai fatto nascere, è per svolgere in questo mondo una qualche attività” . “M’è rimasto solo il lavoro “nero”, ma è immorale” mi rispose la Divinità, con un filo di voce da somigliare a un sospiro. “ Tu che sei Giusto”, chiesi: “Non è più immorale non trovare lavoro? La società definisce “nero” il lavoro sottopagato, perché nero è il colore della sofferenza, dell’intrigo, dell’ambiguità. Ma senza il lavoro “nero”, dimmi, forse che la mia sofferenza diminuirà? Un tempo, ricordi? Il pane nero era l’alimento dei poveri, ma era tanta la fame nera, da farlo apparire bianco, bianchissimo agli occhi degli affamati. Oggi che siamo assetati di lavoro non distinguiamo i colori in questo mondo, dove grigio è il colore prevalente. E poi, Santo o Divinità, chi Tu sia, perché definire “nero” il lavoro sottopagato, ma non anche quello iperpagato? L’ingiustizia sta nella misura, poca o eccessiva che sia”. Mentre, genuflesso, interrogavo l’Entità, una mano si posò sulla mia spalla. Mi voltai e chiesi: “Chi sei?” “Sono San Precario”, rispose, con voce ferma e austera. “Perché cerchi il lavoro nero? Non sai che esso è immorale? Vieni con me, ti offro un lavoro precario” aggiunse.” Ma non è immorale pure quello, giacché non offre continuità, il reddito non è adeguato e il futuro è incerto?”, domandai. “Sì, ma quello l’uomo l’ha reso legale e ciò che è legale non può essere immorale” aggiunse San Precario, con una smorfia da sembrare un rimprovero. Balbettai qualcosa, forse imprecai, non ricordo, poi, di botto, mi svegliai. Mi vestii in fretta, ricordandomi che quello era il mio primo giorno di lavoro “nero” e corsi, corsi, a tutto fiato, masticando parole irripetibili contro San Precario. Pubblicata su La Sicilia il 29.12.2011 Saro Pafumi.

lunedì 26 dicembre 2011

Le amarezze di un coltivatore di agrumi.


Solo, seduto, ricurvo su se stesso. Fuori il cielo stellato. La finestra si apriva su di un’ampia vallata sfavillante di bianchi fiori di limoni, appena accarezzati dalla luce della luna. Il tepore della primavera e la brezza marina trascinavano dentro la stanza il fresco profumo della zagara appena fiorita, il resto si disperdeva al di là dell’’orizzonte. Don Marianu, “ U signurinu”, come lo chiamavano i contadini, era nato lì, in quella stessa stanza, un lontano giorno di primavera. Il suo primo respiro si era impregnato del soave profumo della zagara, che amava. I limoni per lui non erano solamente frutti, rugosi, aspri, succosi, erano la sua ragione di vita. Generazioni prima di lui erano vissute grazie a questo frutto, nato dal sole. Ora non più. La crisi, la globalizzazione avevano reso quel frutto magico una semplice spugna da spremere, “pastazzu” per animali. Solo, seduto, ricurvo su se stesso recuperava dal fondale della mente i tanti, dolci ricordi del passato, come fa il pescatore col suo palamito appesantito da mille ami. I figli che di limoni non volevano sentir parlare, più volte gli avevano detto: “ vendi ! vendi !" . A lui, che con quei limoni ci aveva mantenuto la famiglia e fatto studiare i suoi quattro figli quel “vendi ! ”, insolentemente ripetuto, era apparso un pugno sferratogli nello stomaco. La delusione lo aveva incupito, reso canuto, i limoni invenduti avevano devastato il resto. Solo, immerso in quell’ampia vallata di limoni fioriti, ne respirava l’aria profumata che puntualmente a primavera la natura gli donava. Che i limoni marcissero ai piedi degli alberi, pensava. A lui bastava quel magico profumo di zagara, che nessuna crisi poteva portargli via. Pubblicata su La Sicilia il 27.12.2011 Saro Pafumi

venerdì 23 dicembre 2011

Supermercati e codice a barre


Non so se sia la sfortuna che mi perseguita o semplici spiacevoli coincidenze, di certo coi supermercati il mio approccio non è decisamente favorevole. Non è infatti la prima volta che acquisto un articolo, segnato sul banco di vendita con un prezzo, che alla cassa me lo ritrovo maggiorato. La giustificazione: “ l’addetto non ha avuto il tempo di aggiornare il prezzo al banco”. La giustificazione , se il termine possa dirsi appropriato, non convince affatto. Non vedo come si possa trovare il tempo di cambiare centinaia di codici a barre nei vari articoli posti in vendita e non trovare il tempo di cambiare il cartellino sul banco espositivo. Non vorrei pensar male. Ma non è che “la cosa” puzzi di bruciato? Poiché il prezzo è visibile al banco espositivo, riportato a barre sull’articolo, risulta impossibile per chi ha fatto la spesa controllare uno ad uno la corrispondenza dei vari articoli acquistati. Un rimedio ci sarebbe: indossare un casco sormontato da un lettore di codice a barre e controllare la rispondenza su quanto segnato al banco, a costo di passare per un evaso da una casa di cura per malati mentali. “La disumanità del codice a barre sta nel fatto che, una volta programmato, si comporta in maniera perfettamente onesta” questa l’opinione di Isaac Asimov, fatta propria dai supermercati. Come dargli torto. Cittadini occhio al prezzo! Il trucco può avere le sembianze di un “pacco” natalizio. Pubblicata su La Sicilia il 24.12.2011. Saro Pafumi

mercoledì 21 dicembre 2011

Il vecchio contadino,il risparmio, i giovani, i desideri.


Ascoltare don Sarbaturi “Sciarmenta”, contadino doc, che, da giovane, strappando il tempo al lavoro “fece” le scuole serali c’è sempre da imparare. Egli sul risparmio ha una sua teoria che mette in pratica e si sforza d’insegnare all’ultimo dei suoi cinque figli che, a differenza dei fratelli, non ha voluto emigrare “in continente”. “Io”, esordisce, “ col denaro non ho problemi, ma mio figlio, come tutti i giovani, qualche volta esagera. Nel senso che se va alla pescheria e trova il pesce spada a trenta euro e “ u masculinu” a cinque, si fa u cuntu di quantu costa menzu chilu di pisci spada. Ora, dico io, se hai in tasca solamente cinque euro cu ti porta a vardari u pisci spada? Il problema dei giovani d’oggi è che non hanno capito che il concetto dei risparmio è cambiato. Ci portu n’esempio: oggi si può mettere un euro da parte? No! E allora? E allora bisogna fare come faccio io che, tornando a casa, dico a quella santa di mia moglie: oggi abbiamo risparmiato dieci euro, ché anziché comprare mezzo chilo di pesce spada ho comprato un kg di masculini. Il risparmio, dico io, non va indirizzato sul denaro, ma sui desideri. “ Sparagnari” non vuol dire, oggi, mettere da parte il denaro, ma contenere i desideri. Oggi dalla bocca di tutti non nesci a parola “sparagnari”e si dimentica “cca quannu lu patri spenni e spanni cci lassa a li figghi guai e malanni.” “Don Sarbaturi” , lo interrompo, “a parte i vostri proverbi e le vostre metafore, appropriate, la vostra teoria sul pesce spada è una magistrale lezione sul risparmio, ma ditemi: non v’è mai venuto il desiderio di comprarvi una bella fetta di pesce spada?” “Mancu ppi sognu! Allura, scusassi, lei, come mio figlio, della teoria sul pesce spada, come la chiama lei, non ha caputu nenti. Si non avi i sordi è lu disideriu cca avi a risparmiari, comu ci l’aia a fari capiri!”. Pubblicata su La Sicilia il 22.12.2011.Saro Pafumi

martedì 20 dicembre 2011

Edicole e liberalizzazioni

Alla fine, in tema di liberalizzazioni, la montagna partorì un topolino: le edicole. Prendersela con le edicole è come “cercare la salute in ospedale” recita un proverbio napoletano. La ragione di siffatta necessità sfugge a ogni logica. Già le edicole! Rivolgendomi al pescivendolo, mi verrebbe da dire: “Mezzo chilo di triglie e già che c’è me le incarti nel quotidiano di oggi”, perché a furia di trovare i giornali dappertutto (benzinai in primo luogo) le edicole dovranno per forza di cose incrementare la vendita di “ spagnuletti e ruccheddi” come di fatto da qualche tempo avviene. In Italia, stando alle statistiche, non legge quasi nessuno. La maggioranza legge i giornali a sbafo e quando ha tempo si limita a scorrere i titoli cubitali e le cronache paesane. Una domanda l’avrei da fare al senatore a vita Monti: “Perché non libera i carburanti, spazzando via le compagnie petrolifere che in atto occupano l’intera filiera (ricerca ed estrazione del petrolio, importazione, raffinazione, distribuzione e vendita a dettaglio) ”. Già i carburanti! E come si può dinanzi allo strapotere delle compagnie petrolifere? Il ministro Passera sul tema ha dichiarato. “ Siamo in presenza di stazioni di servizio concessi in comodato” Con ciò?! Forse quando è stata varata la legge sull’equo canone, non s’è espropriato di fatto il diritto di proprietà? Cosa potevano i proprietari contro quella legge? Fare la serrata mettendosi davanti alle porte delle abitazioni e non fare entrare gli inquilini? Sono ragioni sociali che impongono certe leggi, a prescinde da ….. Ha dovuto, il prof, Monti, fare marcia indietro con i tassisti, figuriamoci con i mostri del petrolio. Su questo fronte Il Premier Monti sa bene che : ‘E denare so’ ‘a voce e ll’omme” e in fatto di denaro le Compagnie petrolifere hanno la voce grossa. E allora si liberalizzano le categorie che rappresentano i “cani sciolti” dell’economia: le edicole, per l’appunto, che abbaiano ma non mordono. Fare la voce grossa con i deboli e piccola con i grandi non è una virtù rara in questo paese. Pubblicata su La Sicilia il 20.12.2011 Saro Pafumi

domenica 18 dicembre 2011

ICI e "bamboccioni"

Nella manovra finanziaria testé approvata si prevede per il pagamento dell’ICI sulla prima casa una detrazione di 50 euro per ogni figlio a carico, anche se maggiorenne, purché non superiore a ventisei anni. Qualcuno dovrebbe mettere sotto il naso del Prof. Monti le sentenze della Cassazione che impongono a carico dei genitori il mantenimento, senza alcun limite temporale, dei figli maggiorenni non economicamente autosufficienti o privi “incolpevolmente” dei mezzi di sussistenza. A “mandare i bamboccioni fuori di casa” ci aveva provato senza risultato Padoa Schioppa. Ora ci riprova il prof. Monti che escludendo dalle detrazioni dell’Ici i figli maggiorenni di età superiore a ventisei anni, pare voglia ripetere l’infelice frase usata dal suo predecessore. A tutto ciò si mette di traverso la Cassazione, la quale statuendo l’obbligo di mantenere i figli maggiorenni “incolpevolmente” disoccupati, si spinge a statuire che “nella ricerca del lavoro il giovane deve ispirarsi alle proprie aspirazioni, al percorso scolastico universitario e post universitario, alla specializzazione, al mercato del lavoro, con particolare riguardo al settore nel quale il soggetto abbia indirizzato la propria formazione”. Il che, detto i termini brutali, significa che se mio figlio, per esempio, ha deciso di fare il medico, potrebbe rifiutarsi di fare il capo infermiere al Gemelli, con la conseguenza che me lo ritrovo a carico sine die. Un principio giuridico quello della Cassazione scollegato dalla realtà del mondo del lavoro. In casi come quello testé ipotizzato, non avulso dalla realtà, ai genitori farebbe comodo la detrazione di cinquanta euro, risparmierebbero, in quest’epoca largamente informatizzata, almeno una ricarica telefonica da regalare al figlio “incolpevole”.
Pubblicata su La Sicilia il 18.12.2011. Saro Pafumi.

venerdì 16 dicembre 2011

Eliminare subito il titolo di onorevole

Forse è più facile scalare l’Everest a piedi nudi che convincere i deputati a ridursi le indennità. Anche volendo, non è facile, perché con le divisioni i deputati non hanno dimestichezza. Hanno chiesto tempo per fare i calcoli. Non è di tutti dividere per due gli undicimila euro che ora percepiscono. E così tra calcoli, riscontri e la prova del nove hanno chiesto tempo fino ad aprile. In attesa che i loro conti tornino, sarebbe meglio chiedere da subito che sia eliminato il titolo di “onorevole” che non costa nulla ed è persino immeritato. Ho letto da qualche parte che un tempo i deputati ricevevano per il loro servizio nell’interesse della collettività un obolo e per tale motivo erano considerati “ degni di onore”. Ora che l’obolo è diventato lauto appannaggio, vitalizio, privilegi e il servizio nell’interesse della collettività è diventato interesse proprio, il titolo onorifico non ha più senso. In caso di resistenza del ceto interessato, affidiamone l’uso ai parcheggiatori come fanno col titolo di “dottore” che non negano a nessuno. Pubblicata su La Sicilia il 16.12.2011. Saro Pafumi

giovedì 15 dicembre 2011

Pensioni, genio e follia

Pensando a Monti e alla sua “regola” di pagare le pensioni con una somma che non superi i cinquecento euro in contanti, verrebbe da ripetere con un noto filosofo: “ Genio e follia hanno qualcosa in comune: entrambi vivono in un mondo diverso da quello che esiste per gli altri”. Come si possa pretendere che un pensionato, costretto a stare in fila alla posta per ritirare la “sua” pensione di seicento o mille euro, rifaccia la fila per ottenere il saldo di quanto dovutogli?. Se non è follia questa, certamente è materia per psichiatri. Si vuol camuffare il limite imposto, con la scusa di evitare pagamenti in nero, imponendo la richiesta di una carta di credito che necessariamente presuppone l’apertura di un conto corrente che, anche se fosse a costo zero, sarebbe ugualmente una iattura. Immaginate una nonnina che invece di ritrovarsi in mano novecento euro in contanti che le fanno luccicare gli occhi, si ritrova la credit card plastificata con il PIN da digitare Se non le prende “una botta” poco ci manca. In questa vicenda-farsa di nero c’è solamente la coscienza di chi ha potuto immaginare una simile sciocchezza. La ragione sfugge alla logica, salvo che non si voglia nascondere una triste realtà: lo Stato non ha i soldi ed è costretto a pagare a rate. Ammetterlo sarebbe un suicidio, pensarlo è legittimo. Sarei curioso di vedere uno di questi alti burocrati impegnato a convincere quella moltitudine di vecchietti costretti a mendicare i propri diritti o quelli dei propri congiunti defunti che hanno faticato una vita per ritrovarsi con le brache calate. C’è un limite alla decenza, si chiami Stato o Pinco Pallino chi deve osservarla. Pubblicata su La Sicilia il 15.12.2011. Saro Pafumi

venerdì 9 dicembre 2011

Corruzione fa rima con prostituzione

Cos’è la tangente?” mi chiese il professore di matematica. Per uno come me che in quella materia “zoppicava “non fu facile trovare l’esatta definizione. Dopo un suggerimento bisbigliato del mio compagno di banco riuscii a mettere insieme quattro parole che davano una definizione approssimativa della figura geometrica. Me la cavai con un sei immeritato. Se oggi mi si facesse la stessa domanda, pronto risponderei: “La percentuale più o meno elevata che è chiesta in cambio di favori nella trattazione di una pratica”. Questa seconda definizione è entrata così fortemente nell’uso comune che quando si parla di tangente, nessuno pensa alla geometria, ma l’associa al denaro, al burocrate che di essa si ciba per proliferare. Causa ed effetto della tangente è la corruzione, un tappeto volante su cui prende posto chi ha le giuste leve in mano per decollare. E’ talmente diffusa dalla base al vertice della piramide impiegatizia e non solo, da assumere aspetti decisamente epidemici. Forse sarebbe il caso che al “tangentomane” si vietasse di percepire lo stipendio, potendo egli lautamente vivere di “mazzette”. Si avrebbero due risultati: lo Stato risparmierebbe una montagna di soldi e il concusso potrebbe contrattare ”liberamente” la percentuale da pagare. In buona sostanza si tratterebbe di legalizzare “la prassi” che etimologicamente significa: il trattare affari, modo di procedere per consuetudine e…. con qualche forzatura… “rubare lecitamente”. Le leggi servono per essere interpretate alla luce di nuove esigenze sociali e di costume. Ogni accanimento contro la tangente è destinato a fallire, perché come avviene nel rito del matrimonio sono in due a dire “si”. E poi…corruzione fa rima con prostituzione, entrambe presenti da tempo immemorabile. Pubblicata su La Sicilia il 10.12.2011.
Saro Pafumi

martedì 6 dicembre 2011

Linguaglossa e le vicende dell'imprenditore vitivinicolo

Ho letto con interesse l’articolo pubblicato su La Sicilia del 6/12: “Imprenditore vitivinicolo di Linguaglossa. Ricevo minacce e attentati. Chiudo l’azienda” Non vorrei che le dichiarazioni fatte dall’imprenditore che tra l’altro annovero tra i mei amici, facessero passare il messaggio che “Linguaglossa” è nelle mani del rachet. Quando questi episodi accadono in una qualsiasi località, di solito non sono casi isolati, anzi rappresentano il segno di una collettività vittima di fatti criminosi che in taluni casi determina una metastasi inarrestabile. Le cose nel caso in esame sono leggermente diverse e le vicende dell’amico imprenditore devono inquadrarsi in episodi squisitamente personali che non riguardano l’intera comunità in cui i fatti hanno avuto origine. Il caso denunziato, oggetto per altro d’indagini giudiziarie, è certamente da qualificare come indegno e da condannare, per il quale si esprime la più ampia solidarietà al soggetto offeso, ma attenti a non qualificare il caso come endemico all’intera società. Una precisazione che va fatta non tanto a uso della collettività linguaglossse consapevole di essere estranea a ricatti malavitosi, ma della collettività in genere che dalla lettura di siffatti episodi criminosi potrebbe dedurre conclusioni avventate e non veritiere. “A ognuno le sue disgrazie”, dice un vecchio modo di dire e Linguaglossa ha quelle che l’Etna periodicamente le riserva. Ci bastano e ci avanzano queste, le altre per fortuna non ci appartengono. Pubblicata su La Sicilia il 07.12.2011. Saro Pafumi

lunedì 5 dicembre 2011

Introdurre il tax-day

Tutti i giorni televisione e giornali ci ammanniscono il solito ritornello: manca il lavoro, la disoccupazione cresce, la rabbia è tanta. Quello che manca, a mio parere, oltre al lavoro, è trovare il tempo di lavorare per chi il lavoro ha. Oggi chi ha una piccola azienda trascorre il tempo in fila in qualche ufficio, alle poste, in banca, alla camera di commercio, all’Inps, all’Agenzia delle entrate per nominare quelli di maggiore frequenza. Non si ha il tempo di pagare una bolletta ed ecco, di ritorno, trovare chi ti aspetta: il solito postino con l’ennesima cartella da recapitare. Le carte ci soffocano, le bollette ci sopraffanno, con l’aggravante che essendo diversamente scaglionate non c’è praticamente giorno “esentasse”. Sulla mia scrivania tenevo una cartella contenente le bollette da pagare, con su scritto “ tasse da evadere” al quale ingenuamente avevo dato il significato di “tasse da pagare”. La cosa richiamò l’attenzione di alcuni organi investigatori con una serie di domande al riguardo. Da allora sulla stessa carpetta, contenete le solite bollette da pagare, per evitare spiacevoli interpretazioni ho scritto: “ Le mie prigioni”. Dinanzi a siffatta inondazione d’imposte, bollette e tasse sarebbe il caso, forse, per non far sprecare tempo a chi lavora, d’introdurre il tax-day ossia, la giornata dedicata al pagamento delle tasse che può precedere o seguire la commemorazione dei defunti, giacché entrambe sono accomunate per una ragione o l’altra a un profondo senso di tristezza e di depressione. Un’ ennesima ricorrenza civile nell’interesse dello Stato e per chi non vuol perdere tempo per lavorare. Pubblicata su La Sicilia il 06.12.2011. Saro Pafumi.

sabato 3 dicembre 2011

Eutanasia e paradosso

Il caso Magri e la sua “dolce morte” hanno riaperto il dibattito sul diritto all’eutanasia. Vorrei, sul caso specifico, dire la mia, anche se vale meno del due a briscola. La dottrina cattolica ci ha insegnato che la vita degli individui è regolata dal libero arbitrio. Un concetto filosofico-teologico, secondo il quale ogni persona è libera di fare le sue scelte e Dio, anche potendo, non utilizza il suo potere per condizionare le scelte dell’individuo. Il ricorso all’eutanasia s’inquadra nel contesto del libero arbitrio, permettendo all’individuo di scegliere anche la morte con le conseguenze sul piano religioso che tale atto comporta: il peccato, ossia l’inferno. Può Dio spedire all’inferno un individuo che abbia, per esempio, condotto una vita esemplare, sol perché nell’attimo finale non ha avuto la forza di sopportare le “sue” sofferenze? Se così fosse, immagino, però che Dio spedisca, sì, quel tale all’inferno, ma riservandogli un ambiente con l’aria condizionata. A prescindere dalla battuta che può sembrare blasfema, il ricorso all’eutanasia che in Italia è vietata, impone un’altra riflessione: la disparità sociale. Chi economicamente può, si sceglie “la dolce morte”, chi non può, deve affidarsi a mezzi economici e violenti. Se l’eutanasia fosse ammessa, risparmieremmo almeno questo secondo aspetto, il più macabro. Pubblicata su La Sicilia il 03.12.2011.Saro Pafumi