martedì 26 luglio 2011

Personaggi di paese tra realtà e leggenda

Spesso nei racconti delle persone anziane si richiamano alla mente personaggi rimasti memorabili: per la bravura nei mestieri esercitati, per certe loro stravaganze, per le imprese portate a termine, per le caratteristiche fisiche o di carattere o più semplicemente per la carica di simpatia che li ha distinti. Sono piccole storie personali che ciascuno a volte condisce esaltandone il lato umoristico o quello umano. Di questi ricordi vive l’anziano, aggrappato più al suo passato che al presente. A Linguaglossa, nei racconti di “ personaggi e storie” sono pieni i ricordi.
Don Pippinu “cosci ‘i viulinu”, per le sue gambe arcuate, lunghe e sottili aveva un incedere molleggiato come se a posto delle ginocchia avesse due ammortizzatori. Egli è stato l’antesignano del lavoratore precario, alternando alla finta ricerca del lavoro la voglia di non trovarlo… Egli, per certi versi, è stato il vero interprete del sillogismo napoletano:: “il lavoro è una fatica, la fatica fa male, il male fa morire, perciò non lavoro”.
Don Pippinu “mazzola”, provetto barbiere, non usava le forbici, ma la macchinetta tosatrice, perché, ai suoi tempi, ll “pediculus humanus capitis”, volgarmente chiamato pidocchio della testa, si annidava spesso tra i capelli dei giovani. Poiché la macchinetta era quella che gli aveva lasciato in dote il padre, più che tagliare i capelli li strappava, tra le grida dei giovani che si servivano della sua maestria. Memorabile la sua prima notte di nozze con “ a ‘gna Santa carru-carru” Al momento di “consumare”, si racconta, si fece il segno della croce, recitando: “In nome di Dio e ‘ da ‘gna Santa” e la moglie di rimando: “ trentanove e tu quaranta”. Personaggio di rilievo per bravura nei calcoli don Giuvanni “ u liprinu”. Se gli dicevi di essere nato, per esempio, il 24 novembre del 1937, ti dava il tempo di contare fino a tre ed ecco la risposta: quel giorno, era un mercoledì. Memorabile la scommessa tra don Saru e don Matteu. Il secondo sosteneva di essere in grado di mangiare fino a cento arancini. Ad ottanta, buttò la spugna, ma ottanta arancini, a pensarci, sono “una montagna”.
Don Marianu “u scaricaturi” trasportava i barili di vino, a spalla, dalla cantina al piano di carico. Contava i bicchieri di vino che tracannava per ogni barile trasportato. A fine giornata chiuse il conto a 320. Donna Nina “a paparuni” stava accovacciata davanti all’uscio del suo ballatoio sia d’estate che d’inverno, Don Angiulu “ u carritteri”, un prete naturale e genuino come lo aveva fatto sua madre. Quando in groppa al suo asino andava in campagna era seguito da una frotta di giovani manigoldi che gli cantavano in coro: “ Patri donn’ Angiulu carritteri, orbu davanti e sciancatu d’arreri”. Seguiva da parte del malcapitato una giaculatoria di male parole da fare impallidire l’uomo più blasfeno. E poi ancora don Ninu “ sputracavaddi”, Peppi “ u piru”, donna Francisca “nicchi-nacchi”, Enna “ a babba” Carmina “a ciunca”, Peppi “ u surci”, “Babbi ‘i ciccia”, donna Rosa “a pisciara”, “a matarazara”, Turi “ menza cajella”, Ninu lapollu “ u vanniaturi” e tanti altri che ricordare riempirebbero quest’intera rubrica. Simpatici, indimenticabili personaggi di paese, ciascuno con la propria storia sulle spalle, tra realtà e leggenda, vivi ancora oggi nei ricordi.Saro Pafumi

martedì 12 luglio 2011

Lettera a un figlio

Quanto accade nella società di oggi, ti confesso, mi lascia amareggiato, perché ciò che la mia mente quotidianamente registra non lascia presagire nulla di buono, né la mia età mi consente di assistere al suo evolversi. Non voglio trasmetterti, perciò, il pessimismo che mi attanaglia, perché non trovo giusto lasciare questo messaggio a te che, pieno d’entusiasmo, come lo ero alla tua età, hai il mondo davanti. Nell’espressione del tuo volto, però, colgo giornalmente la mia stessa amarezza, ma mentre il peso dei miei anni la rende insopportabile, la tua affonda nella speranza. Se così non fosse, ne soffrirei, perché un’incolpevole gioventù “bruciata” è come una vecchiaia sofferente. Noi adulti, ebbene che tu lo sappia, abbiamo vissuto una stagione di colpevole sprovvedutezza, se in qualche caso, per fare un esempio, a soli quarant’anni ci è stato riconosciuto il diritto alla quiescenza. La nostra spensieratezza, giova ammetterlo, l’abbiamo in parte costruito sul futuro di voi giovani, se il mondo che vi lasciamo in eredità è irto di affanni e difficoltà. Un vecchio proverbio recita: “ u patri ca spenni e spanni lassa ‘e so figghi guai e malanni”. Una massima di saggezza che abbiamo dimenticato per un cinquantennio sollazzandoci tra spensieratezza e irresponsabilità. Qualcuno ci rimprovera che la nostra pensione finisce nelle vostre mani, dimenticando di ammettere ch’essa ci è stata da voi anticipata. Per fortuna non è sempre così, perché tanti di voi giovani hanno la dignità di non chiedere, preferendo affrontare sacrifici e/o privazioni, ma se anche ciò non fosse, altro non è che restituirvi a rate quanto vi abbiamo anticipatamente tolto Un paese non è in guerra solo quando è contro altri belligerante, ma anche quando il suo popolo combatte la sua quotidiana battaglia per sopravvivere. E’ questo il mondo di macerie matreriali e morali che avete ereditato e di ciò dovremmo chiedervi perdono. Alea iacta est!, putroppo. Non mi resta che spronarti alla speranza, ma constato ch’essa, per fortuna, fa parte del tuo patrimonio. Mi consola l’averti trasmesso, almeno, una parte di me: l’ottimismo, che a me non serve più. Saro Pafumi

martedì 5 luglio 2011

"I putii" di frutta e verdura a Linguaglossa negli anni cinquanta

Linguaglossa intorno agli anni cinquanta “i putii” di frutta e verdura erano “zone franche” sottratte ad ogni forma di controllo igienico e fiscale. “ A Matarazzara”, Donna Francisca “a lampiunara”, donna Rosa “mazzavinti” si contendevano “ a matrici”, “ e quattrucanti”, “ a Nunziata” il primato delle vendite. L’igiene era sconosciuta e la concorrenza anziché sui prezzi verteva sulla grammatica. Chi entrava ‘nda putia di donna Francisca “a lampiunara”, doveva fare vere acrobazie lessicali per individuare il prodotto: cavofioli, aragi, pesica, sbergi, fica niuri, pumadori, erano i cartelli più gettonati, scritti per lo più in dialetto o tradotti in italiano volgare appesi ai rispettivi contenitori con “gnacchi di lignu” che la sera servivano, all’interno, per appendere la biancheria ad sciugare. Oggi alle venditrici sono richiesti grembiule e copricapo, mentre a quei tempi u fantali era d’obbligo non per igiene, quanto per evitare di sporcare la veste “ripizzata”, chè risparmiare si doveva il sapone” a pezzu” fatto in casa con la liscivia e la fatica di lavare a mano. A Donna Francisca i mutandoni apparivano sotto alla veste che a furia di lavarla, si era abbondantemente accorciata. A matarazzara, d’inverno, teneva sotto le gambe “ a conca” col carbone al quale non aveva dato il tempo di maturare, cosicché l’odore acre dell’ossido si mescolava con quello della frutta marcia. Tale abitudine le aveva fatto rimediare fastidiose “ rociule” ai piedi e “ vistose “ crapriole”alle gambe, talché in paese era un esempio da non imitare. Per cassa si usava una “cufina” dove erano conservate le poche lire incassate. Le “ova frischi” come si leggeva sul cartello, esposte nel paniere con la paglia erano vendute, per esaltarne la genuinità, ancora sporche come quando erano uscite dal loro buco naturale. Chi non si serviva “de’ putii” aspettava che di buon mattino arrivassero in paese con i loro asini gli ortolani “ francavigghioti”, che dentro “le bertule” portavano la freschezza dei loro campi. I prezzi erano più bassi e la qualità migliore, ma tutto, legato all’orario e alla quantità che si esauriva in mattinata. L’incubo di questi ambulanti era però una giardia municipale che usava acquistare esibendo una banconota da diecimila, pretendendo il resto per due “mazzi” di lattughe. Qualcuno furbescamente aveva annotato il numero di serie e giura che la banconota fosse sempre la stessa. Oggi si compra con l’indicazione geografica, la frutta di stagione si trova tutto l’anno, l’aglio cinese ha soppiantato quello di Sant’Alfio, ma nessuno ci puo’ fare ritrovare “i pira don santu”, “i pruna regina” ,”i fichi de’ terri ianchi”, “i pumma cola”, “i pira paradisu”, “i pira faccibedda” vere delizie e dolcezze rubate al nostro palato. Saro Pafumi.