domenica 30 maggio 2010

Il bene è più diffuso di quanto si creda,ma parlare del male è necessario

Dopo avere un mio amico letto e ripiegato in due il quotidiano diceva sconsolato: “ a leggere le notizie riportate cadono le braccia. Così tutti i giorni, senza che ne passi uno, solo uno che riporti notizie positive”. L’amarezza si coglieva a piene mani sul suo viso. Rincuorare un amico e chi come lui che il pessimismo attingono dalle notizie di stampa non è cosa facile. Proviamo a spiegare che la situazione reale è totalmente diversa, non ostante chi scrive sui giornali ( questa rubrica non fa eccezione) lo fa, nella maggioranza dei casi, per denunziare storture, violenze, manchevolezze, responsabilità. Né può essere diversamente, non perché le notizie cattive abbondano e quelle buone mancano, più semplicemente perché le prime sono un’eccezione, le seconde la norma. Oggi, se non erro, abbiamo raggiunto il traguardo di quasi sette miliari d’abitanti sul globo terrestre. Le tre o quattro pagine di cronaca negativa che i giornali quotidianamente denunziano sono una parte infinitesimale di quanto accade ogni giorno in questo nostro mondo. Se abbiamo il buon senso di isolare le notizie cattive da quelle buone, che non sono diffuse, ci accorgiamo che la bilancia batte da parte della positività.
Se, infatti, i giornali dovessero riportare gli accadimenti positivi, non basterebbe un’intera enciclopedia. Perchè allora si riportano le notizie cattive o le meno buone? Essenzialmente, per due motivi: le notizie positive non fanno cronaca, primo, perchè rientrano nell’ovvietà, cioè nei civili comportamenti d’ogni essere umano; secondo, perché è del “male” che occorre parlare e scrivere per prevenirlo e combatterlo.
Il giornale è un contenitore attraverso il quale chi scrive trasmette a chi legge assieme a tante altre notizie, quanto di “spiacevole e non solo” accade tutti i giorni, per indurre a riflettere, correggere, assolvere o condannare. Proviamo per un attimo ad immaginarci genuflessi dinanzi ad un confessionale, là dove ogni penitente scarica il peso dei suoi peccati: elenchiamo i nostri doveri assolti, le nostre buone azioni o piuttosto non cerchiamo nel perdono e nella confessione di purificare i nostri peccati? E’ ciò che avviene quotidianamente sui giornali, allorché sono riportare notizie sconfortanti. Del “male” occorre parlare e scrivere per conoscerlo, prevenirlo, condannarlo e combatterlo. Il bene, se e quando c’è nell’animo, è un patrimonio già acquisito di cui nessuno si priva, per la semplice ragione che è il proprio modo d’essere. Il giorno in cui sui giornali dovessero mancare le notizie cattive o c’è reticenza o il male è così diffuso da rientrare nella normalità. Le cattive notizie sono come le malattie, bisogna conoscerle per prevenirle o curarle.

Pubblicato su La Sicilia il 30.05.2010 Saro Pafumi

giovedì 27 maggio 2010

Santoro e la riservatezza



Su la Sicilia del 26/05, pag, 10, leggo la stupefacente dichiarazione di Santoro (qualcuno il cognome lo indica con l’apostrofo) stupefatto della stupefacente leggerezza con la quale è stata violata la riservatezza delle trattative con la Rai per trasformare la sua condizione di dipendente in quella di collaboratore esterno. C’è da rimanere stupefatti di tale stupefacente sfrontatezza , come se la riservatezza da lui invoca sia stata per qualche verso e nelle diverse occasioni da lui stesso o da altri rispettata nei confronti di chicchessia. D’alcuni uomini politici è stata mostrata la foto del didietro nudo o di altri sono state pubblicate foto in costume adamitico rubate col teleobiettivo in abitazioni private, di altri sono state registrate e distribuite in pasto all’opinione pubblica conversazioni private di tutti i generi, senza che nessuno manifestasse riprovazione alcuna. E di reale privacy violata si trattava in quelle occasioni.
Ci sarebbe da dire: “ min,………. sig, tenente, da che pulpito vien la predica!” E poi, quale riservatezza si sarebbe dovuto rispettare nella trattativa di una risoluzione contrattuale che prevedeva da parte di un’azienda pubblica (!) una liquidazione milionaria? Altro che riservatezza! Piuttosto sarebbe stato bello e coerente un incontro tra le parti in una puntata d’Annozero predisposta sotto i riflettori e per pubblico l’Italia e i soliti invitati.
Tutto ciò se la coerenza avesse un senso, ma poiché Santoro è un Hood Robin ( un Robin Hood alla rovescia) la coerenza è richiesta “stupefacentemente” agli altri.

Pubblicato su La Sicilia il 27/05/2010
Saro Pafumi

martedì 25 maggio 2010

QUALI LE RAGIONI DEL POLITICO

Ho coltivato da sempre una curiosità: conoscere la motivazione che spinge una persona ad interessarsi di politica attiva o per essere più espliciti ad esercitare a tempo pieno il mestiere di politico. Scartata “la passione” la risposta più ovvia, ma anche la meno sincera e convincente, resta un ampio scenario di motivazioni che sarebbe interessante conoscere. La voglia di sapere non è una semplice curiosità, quale a prima vista può apparire, ma nasce da una profonda esigenza: votare, se possibile, il candidato più “convincente”
Personalmente sottoporrei ogni candidato a seduta psicoanalitica, per analizzare le motivazioni che spingono il soggetto a scendere nell’agone politico.
A molti amici politici ho fatto su facebook alcune domande.
Non ho la pretesa di avere una risposta, ma come elettore immagino che la mia curiosità di sapere è comune a molti altri.
La curiosità di questo tipo non è una richiesta peregrina, perché dalla scelta che noi operiamo in campo politico dipende, se non altro, la nostra stessa condizione.
A volte un politico nasconde una personalità mascherata: l’esigenza di trovare un’occupazione lavorativa, il riscatto da una condizione sociale, l’insoddisfazione del proprio status, la vanità, la sete di potere, o mille altre misere considerazioni che spingono una persona ad interessarsi della cosa pubblica per raggiungere un fine privato.
Se una sola di queste motivazioni emergesse nessuno voterebbe un simile candidato. Eppure. è ciò che avviene nella maggioranza dei casi. E nella maggioranza dei casi nessun elettore si preoccupa di scoprire cosa c’è dietro la maschera dell’aspirante candidato.
Si usa il voto purtroppo, non come scelta consapevole, ma il più delle volte, come espressione di democrazia, ma svuotandola del suo contenuto essenziale: la sostanza.
Se, infatti, ci guardiamo attorno e analizziamo i comportamenti dei singoli politici che ci rappresentano, i risultati sono il frutto di questa nostra sciagurata improvvisazione.
Essi sono lo specchio di noi stessi.
PUBBLICATO SU La Sicilia il 25.05.2010
Saro Pafumi.

lunedì 24 maggio 2010

Omertà e delazione




Noi siciliani, come Giano, siamo bifronti Con la prima faccia, quella dell’omertoso, facciamo finta di non vedere, né sentire; con l’altra, riferiamo fatti di cui siamo a conoscenza, informando sopratutto le Auitorità alle quali la notizia può interessare. Queste caratteristiche del nostro carattere hanno nomi precisi: omertà e delazione. C‘è chi dell’omertà fa una regola di vita ( il mafioso), chi semplicemente una scelta ( decide di farsi i fatti propri). Il delatore
dal latino “deferre” che significa riferire) è, invece, in genere, una persona malvagia che per motivi diversi ( invidia, cattiveria, gelosia, ecce.) dismette i panni propri con l’intento di vestire quelli degli altri e in tale veste “autodenunziarsi” alle Autorità. Non c’è dubbio che queste deleterie e spregevoli qualità subumane sono più diffuse di quanto si possa immaginare.
Ne sanno qualcosa, con particolare riguardo alla delazione, tutte quelle Autorità che giornalmente sono invase da messaggi di questo tipo.
La legge nei riguardi dei due fenomeni descritti ha un diverso atteggiamento: di condanna verso l’omertà, di benevolo accoglimento nei riguardi della delazione.
Un’ambiguità di comodo che non fa onore alla morale, perché mentre nel caso dell’omertà, qualcuno spontaneamente o perché indotto confessa la conoscenza di un fatto, nel caso della delazione chi se ne serve è come se commettesse il reato di ricettazione, avvalendosi per “interesse” di una notizia carpita con frode.
Poiché, però, la morale più che un precetto è una definizione, lo Stato, o chi per esso, la colora a piacimento, giustificando un atto di per sé spregevole.
Il rischio è quello di trasformare un popolo in spie e delatori, persino in nemici, considerando tali anche coloro che ci stanno a fianco. In un clima siffatto, ciascuno, nel tentativo di adeguarsi alla realtà, ne rimane contagiato, un “modus vivendi” che è l’anticamera di una società in cui l’odio, l’inimicizia, il sospetto è ragione di vita.
Non è certamente piacevole vivere in una società in cui si deve pensare: “ Dai nemici mi guardi Dio, dagli amici mi guardo io”, perchè rappresenta la fine della solidarietà, della convivenza: un vero “suicidio” collettivo. Questa la strada che si sta percorrendo in una Nazione che della delazione fa il suo stile, coadiuvato da uno Stato che per pigrizia o per comodità si affida a questo spregevole sistema.
Pubblicato su La Sicilia il 24/05/2010
Saro pafumi

venerdì 21 maggio 2010

Chiamala comu voi, sempri cucuzza è


Se c’è una dote che caratterizza noi italiani è la spiccata sensibilità verso gli altri, Siamo sempre alla ricerca di nuove definizioni per indicare uno stato, una condizione, un limite, una professione, un mestiere, una malattia.
Su certe carte d’identità una volta per definire lo stato “illegittimo” si usava indicare la paternità con la sigla N.N. Poi qualcuno pensò bene che quella sigla rappresentava qualcosa d’offensivo o la confessione di uno stato civile imbarazzante e l’indicazione dei genitori fu soppressa, con la conseguenza che, giocando al ribasso, oggi siamo tutti figli di N.N.
Poi venne qualcuno che pensò bene di chiamare il sordo, non udente e il cieco, non vedente, come se sostituendo un aggettivo o sostantivo con un participio la sostanza cambiasse. E così lo spazzino divenne operatore ecologico, la serva o cameriera, colf o badante. Un salto in avanti con espressioni fresche di conio. In un solo caso il progresso ha fatto un passo indietro nel coniare un diverso termine per chiamare il becchino. Così definito per l’usanza di beccare, pungere, pizzicare i morti per stabilirne l’effettiva dipartita. Oggi si usa chiamarli, elegantemente, necrofori, dall’antico greco.
Con queste metamorfosi linguistiche la nostra coscienza è a posto Peccato, però, che alle intenzioni non seguono i fatti, perché il sordo, il cieco, la cameriera, lo spazzino, il becchino, ogni disabile in generale tali erano e tali sono rimasti, non solo nel modo di pensare collettivo, ma persino nel modo di accoglierli in società, dove il loro disagio non è stato annullato.
Oggi sulla carta d’identità è stata aggiunta un'altra chicca linguistica. Al rigo che chiede la professione, l’ufficiale dell’anagrafe registra: “in attesa d’occupazione”, invece dell’odiosissimo “disoccupato”. La differenza sembra solo apparente, ma ad analizzarla freddamente nasconde una grande illusione. “Disoccupato” sembra essere una certezza, “in attesa d’occupazione”, una speranza. Che è come vedere il bicchiere mezzo pieno.
La sostanza in tutti questi casi non cambia. L’essenziale è mettersi a posto con le definizioni. Se poi persistono le barriere architettoniche, i pregiudizi, le limitazioni chi se ne importa. Non si dice del resto: “ chiamala comu voi, sempri cocuzza è”? Nonostante ogni nobile proposito.
Pubblicato su La Sicilia il 22/05/2010
. Saro Pafumi

mercoledì 19 maggio 2010

Certi stranieri, noi e la maleducazione


Tutte le volte che ci capita d’osservare il comportamento d’alcuni stranieri in visita nel nostro paese, non si possono non cogliere le differenze che ci contraddistinguono. Vederli in fila ordinati e rispettosi del proprio turno, allorché stanno in coda, è lo spettacolo più consueto che ci capita di vedere; al momento di pagare il conto pagano fino all’ultimo centesimo, essendo abituati a munirsi di spiccioli per il loro fabbisogno; pretendono lo scontrino e non si muovono fin tanto che non l’hanno in mano, spesso controllando se l’importo battuto corrisponde a quanto pagato: non alzano mai la voce,anche se fanno parte di comitive numerose; davanti alla toilette rimangono ordinatamente in fila, anche se qualcuno soffre d’incontinenza, perchè non gli sfiora minimamente l’idea di “sorpassare” chi sta prima; quasi mai abbandonano il proprio idioma ( almeno che non si conosca il nostro), quando chiedono informazioni e, ciliegina sulla torta, si sprofondano in ringraziamenti, quando ottengono quello che desiderano, anche se in certi casi è un loro diritto.
Tralasciando per brevità di confrontare uno ad uno le differenze dei nostri comportamenti, è il caso di riportare alcune nostre abitudini che stanno tra il ridicolo e la provocazione, Come di chi si presenta alle sette del mattino con un bigliettone di cento euro per acquistare un caffé o più semplicemente il quotidiano. Non solo si pretende che il gestore dell’esercizio si prodighi in tutti i modi per risolvere il problema che, in definitiva, non lo riguarda nemmeno, ma se per caso accenna una reazione, lo sbigottimento del cliente si trasforma in insolenza.
L’apoteosi si raggiunge dal benzinaio, dal quale facendo “un pieno” di cinque euro, si pretende dall’addetto la pulizia del vetro anteriore, di quello posteriore, dei vetri laterali e chissà cos’altro. Che, facendo i debiti paragoni, è come se acquistando un paio di scarpe da 200 euro si pretendesse dal negoziante una leggera “spolveratina” delle scarpe ai piedi. Da che cosa nasce questo differente comportamento è un mistero. Dall’educazione ricevuta in famiglia, dalle abitudini collettive, dall’essere inclini alla pazienza, dai limiti che ciascuno s’impone, dal rispetto verso gli altri? Certo è che in un’eventuale graduatoria siamo agli ultimi posti tra le nazioni più progredite. Né ci sforziamo di migliorare. Se mai dovesse cogliersi una certa affinità con gli stranieri, forse è nel comportamento dei nostri connazionali vissuti per molto tempo all’estero, che hanno assimilato usi e costumi del luogo.
Ciò significa che è “l’ambiente” che forma il carattere e noi non abbiamo né l’uno né l’altro idonei a migliorare. Qualcuno sostiene che noi abbiamo altre virtù. Forse è anche vero: Ma non possiamo aggiungervi quelle che ci mancano?
Pubblicato su La Sicilia il 20.05.2010 Saro Pafumi

Commento della Redazione:

Quasi tutto condivisibile il contenuto di questa lettera. Ma si impone qualche riga di commento della redazione per sottolineare che “alcuni” (come scrive il lettore) stranieri sono da imitare, ma i comportamenti di altri non lo sono affatto. Così come “noi” italiani, non siamo tutti maleducati. ***

venerdì 14 maggio 2010

La poetica visione di don Sarvaturi Sciarmenta


Don Sarvaturi “Sciarmenta”, contadino doc, sposato da 68 anni, i proverbi li mastica come gli americani i cewingums, usa metafore più che parole, ma soprattutto, dall’alto dei suoi 89 anni ben portati, è un convinto sostenitore della famiglia patriarcale, “chidda di ‘na vota”. tiene a precisare.
Quando parla con qualcuno, la famiglia, i figli sono il suo chiodo fisso. Dice, per esempio, che quando si rivolge alla moglie, lui che calabrese lo è fino al midollo, le dà il Voi, per rispetto, ci tiene a sottolineare. Orfano di madre, morì partorendolo, si è sposato a 21 non per mancanza di “parrini”, che alla sua epoca si potevano trovare “ a munzedda”, dice sorridendo, ma perché, strofinando l’indice e il pollice, “scarsu di sordi” Se avesse potuto, soggiunge, si sarebbe sposato prima, perché non ha ancora capito se allora, nato orfano, cercava una madre-moglie o una moglie-madre. Confessa, anzi, che nei primi anni di matrimonio questo pensiero lo tormentava, al punto che dovette rivolgersi al parroco che, assolvendolo dal “compresso d’indippu” come chiama lui il “complesso d’Edipo”, gli aprì la strada al libero ardore, consentendogli di mettere al mondo, uno dopo l’altro, ben 7 figli che chiama, affettuosamente “ i chiovi da Cruci”.
Il perché di questa definizione lo spiega in due parole. “I chiovi da cruci”, dice, sono per Cristo i segni della sua sofferenza, ma anche il sostegno sulla croce che, fuori di metafora, significa: gioia e dolori. Se provi a chiedergli cosa ha avuto dalla vita, ti risponde: “tutto e niente!” Dal tono convinto con cui lo afferma, si comprende che quel “tutto” equivale alla famiglia, moglie, figli, affetti, mentre il “niente” è quello che rimane togliendo questi valori. Per uno che ha avuto poco e quel poco, sudato a colpi di “marrabbeddu” che lui chiama la mia “penna stilografica”, quel “tutto” è la sua ragione di vita Quando, prima di salutarmi, deliziandomi con i suoi discorsi, sulla famiglia, gli domando, per provocarlo: “ don Sarvaturi, ma quanti (mila)anni aviti?”, mi risponde, evitando, per scaramanzia. d’indicare una cifra, con l’ennesimo proverbio. “ Essiri non si po’ chiù di ‘na vota!”. Quindi, quasi a rafforzare il suo credo sulla famiglia, estrae dal portafogli le foto dei figli che tiene come immaginette di Santi e ne indica uno ad uno i nomi. Provo tanta ammirazione per la sua visione della famiglia e dei figli, una certezza granitica che la sua saggezza ha dissotterrato e coltivato giorno dopo giorno, a colpi di “marrabbeddu”, la sua “penna stilografica”, ma mi chiedo, allargando le braccia: cos’è rimasto, oggi, di questa“poetica” visione familiare di don Sarvaturi Sciarmenta?
Pubblicato su La Sicilia il 15/05/2010
saro pafumi

domenica 9 maggio 2010

La liberatoria bancaria


E’ importante leggere quanto da molti segnalato su questa rubrica, perché in tanti casi essa rappresenta una scuola di vita, tante le esperienze vissute che, prive di retorica, forniscono un quadro esatto della nostra quotidianità. E’ in quest’ottica che è interessante riferire quanto accaduto ad un tizio che, come tanti, intrattiene rapporti bancari per motivi di lavoro.
Capita, per disattenzione o disguidi, che un assegno bancario o postale non è onorato nei tempi e nei modi di legge. La prassi bancaria richiede che il cliente dimostri, con la così detta “liberatoria”, l’avvenuta regolarizzazione dell’obbligazione contratta. Una prova che qualunque utente fornito di buon senso si assicura per non incorrere nei rigori delle banche. La prudenza suggerisce altresì che la “liberatoria” presentata alla propria banca, sia archiviata tra i documenti contabili, pronta ad essere esibita in caso di richiesta.
Dubito che sono molti quelli che si prendono la briga di osservare a lungo questa precauzione, perché in genere la liberatoria è richiesta entro un termine, osservato e trascorso il quale l’utente si ritiene esonerato. Capita, però, che in questo nostro strano paese a distanza d’anni da un’altra banca, alla quale ci si è rivolti per una data pratica, si richieda l’esibizione della liberatoria a suo tempo presentata, perché nella logica del circuito bancario in cui l’utente è incappato ( chiamato in gergo tecnico CAI, ossia Centrale allarme interbancario) la liberatoria presentata ad altra banca non è stata debitamente segnalata, con la conseguenza che quel dato utente è perennemente e ufficialmente insolvente, nonostante la libertaria esibita comprovi il contrario.
Il consiglio che si ricava dall’esperienza vissuta è: conservare la liberatoria “sine die”, o, come suggerisce chi quest’esperienza l’ha vissuta, collocandola a posto del quadro raffigurante il Sacro Cuore di Gesù che si ha l’abitudine di sistemare come capezzale sul talamo coniugale, per averla sempre a portata di mano.
“Ccu si vardau, si sarvau! pubblicato su La Sicilia il 09/05/2010 saro pafumi

venerdì 7 maggio 2010

La vecchiaia tra acciacchi e delizie visive


In “De Senectute” Cicerone immagina Catone che parlando con Scipione e Lelio della vecchiaia dice:”Tutti desiderano raggiungerla, ma una volta raggiunta, la investono d’accuse: tant’è l’incoerenza e l’assurdità della stoltezza”.
Un invito, quello di Catone, ad accettare la vecchia in serenità di spirito. per renderla meno gravosa.
Queste, le parole di Catone che rimuginavo nella mia mente, mentre osservavo un arzillo vecchietto assiso su una panchina della villa comunale, in dolce compagnia di un’avvenente
pulzella.
I tempi cambiano, ma identica è la sopportazione della vecchiaia da parte di chi riesce a renderla piacevole: con la gioia della saggezza e della sapienza, come suggeriva Catone o con le “gaiezze visive” come fanno i nostri vecchietti d’oggi che, alla solitudine in cui sono abbandonati da figli e nipoti, sopperiscono con la mercenaria compagnia di procaci badanti straniere.
“Occhi chini e mani vacanti” per la maggior parte di loro, anche se taluni pur di assicurarsi un furtivo briciolo di piacere ( un bacio, una carezza, un sorriso) non disdegnano di alleggerire il portafogli, già magro di misera pensione. Ma tant’è!
Arzilli vecchietti che sono l’invidia di tanti giovani ai quali si sente dire: “ U Signori, u biscottu ci u manna a ccu non su po’ rummicari”.
A volte nel mutamento dei tempi si può cogliere qualche aspetto positivo, come la condizione di questi fortunati vecchietti, i quali rivivono l’illusione di una seconda giovinezza fiutando con una certa fantasia quella che gli fiorisce accanto.
In quest’illusorio elisir di lunga vita si gode la gioiosa mitezza della vecchiaia, non importa se conseguita a pagamento.
La pensione per chi ha i mezzi e la fortuna di godersela serve proprio a questo:
A trasformare in primavera gli anni roventi della giovinezza o quelli rigidi del duro lavoro, o a trasformare gli acciacchi in brividi di passione. E chi meglio di un’avvenente florida, giovincella può assicurali meglio?
“Godi “fanciullo” mio stato soave; stagion lieta è cotesta”. Un augurio in versi di Leopardi che vorrei adattare ed estendere a tutti i vecchi del mondo.

Pubblicato su La Sicilia il 08/05/2010 saro pafumi

sabato 1 maggio 2010

Orario dei negozi e libertà d'impresa

In un’epoca in cui l’economia è stagnante e la crisi in tutti i settori lavorativi è pressoché evidente, l’orario d’apertura e chiusura dei negozi commerciali segue regole arcaiche
Non capisco la logica in base alla quale un commerciante, così come qualsiasi altro lavoratore autonomo, debba sottostare al vincolo d’apertura e chiusura regolato dalla legge.
A prescindere dal fatto che chi lavora di più, in teoria dovrebbe guadagnare di più e conseguentemente pagare più tasse, è il diritto alla libertà d’impresa che non è garantito.
Il riposo settimanale è certamente un dovere, oltreché un diritto, ma tre giorni sono certamente troppi. E’ quanto avviene in alcune stazioni di servizio di carburanti costrette a chiudere, in certe settimane, il martedì, il giovedì e la domenica.
“Ricordati di santificare le feste”, se non erro, è il terzo comandamento, con chiaro riferimento alla domenica e alle altre feste comandate, ma nessuna Divinità eccetto lo Stato era arrivato finora a “santificarne” tre ( martedì, giovedì e domenica) come per l’appunto nel settore commerciale richiamato.
Osservato l’obbligo di andare a messa la domenica e di riposarsi, mi chiedo cosa debba fare un lavoratore autonomo negli altri due giorni liberi.
Certo, la possibilità di tenersi occupato nei giorni “forzatamente” liberi ciascun a modo suo la trova pure: disbrigo di pratiche burocratiche, volontariato, famiglia, ma è il principio che contrasta col diritto alla libertà d’impresa.
Finora si sapeva di Stati che si arrogavano il diritto di condannare i propri cittadini ai lavori forzati, ma non di Stati disposti a condannare al “riposo forzato”.
Pubblicata su La Sicilia il 01/05/2010
Saro Pafumi.