martedì 28 novembre 2023

Spesso le cose migliori si trovano sotto casa

 

Spesso le cose migliori si trovano sotto casa.

I supermercati sono diventati la fonte principale dei nostri approvvigionamenti, per la comodità che offrono con la loro articolata e variegata offerta di prodotti,’a portata di mano’, che ha rivoluzionato il modo di fare acquisti, e con la convinzione di realizzare un notevole risparmio sulla spesa. La comodità d’acquisto concessa al consumatore, associata alla sua presunta economicità è stata la chiave di successo di questo nuovo sistema di vendita. Un fenomeno ben visibile, tutte le volte che vediamo i carrelli, ricolmi di spesa, trascinare le massaie, anziché essere da loro trascinati, spesso pieni di cose inutili o comunque non essenziali o pieni d’offerte, che, spesso, sono frutto di trucchi, che vanificano il concetto di risparmio. Un nuovo modo di fare acquisti, che, spesso, esula dalla qualità, che, invece, troviamo nel negozio sotto casa, quando il negoziante illuminato ha compreso che questo è il modo per aumentare le vendite, apprezzate da chi è alla ricerca di prodotti definiti di nicchia, che soddisfano i palati più esigenti. Questo criterio di proposta va incrementato, anche per dare ossigeno ai piccoli imprenditori, che accompagnano la simpatia alla qualità. Spesso le cose migliori si trovano sotto casa, anche in altri campi. Penso alla compagna della vita, che ci ostiniamo a cercare altrove, che, spesso, é sotto i nostri occhi, magari vicina di casa, ma che non vediamo, come quando cerchiamo una cosa che ci sfugge, per la costante abitudine di vederla. Eppure essa, per carattere, qualità, modo di vivere e di pensare è la persona ideale con cui condividere un progetto di vita, come le piante che attecchiscono meglio nell’ambiente originario in cui si sono formate (‘moglie buoi dei paesi tuoi’). Purtroppo siamo attratti dal fascino del mistero, cercando fuori dall’ordinario, ciò che ci sembra stupidamente scontato, nell’illusione di migliorare la vita, che invece è a portata di mano, sol che ci abituassimo a osservare, piuttosto che a guardare. Pubblicata oggi 28.11.2023 su La Sicilia

domenica 26 novembre 2023

Linguaglossa ieri,oggi,domani

 

Linguaglossa, ieri, oggi, domani.

È da quando sono nato che sento ripetere: Linguaglossa è adagiata in una valle, circondata da colline.

Si dimentica, però che se lo sguardo volge là ove sorge il sole, esso ci appalesa l’infinito azzurro del mare. A ben vedere più che assediata da colline, sembra accarezzata dall’abbraccio premuroso di una madre. Una verde posizione,che tra tornati e discese degrada lievemente verso il mare, dove, felice, riversa i suoi profumi e i suoi colori. A ovest lo sguardo arcigno dell’Etna ci ricorda che sta lì da sempre, camaleontico, nero, bianco, o di fuoco, che, emerso dagli abissi, sembra disegnato dalle magiche pennellate di un pittore, dove cielo, fuoco, neve e mare si fondano senza confini.

In questa minuscola conchiglia qualcuno a suo tempo pensò di fondare Linguagrossa e Madre Natura la vestì di pini, regalandole il verde della speranza, profumato di resina che ricorda il sacro incenso. L’acre odore del tempo l’ha resa più bella, quale oggi è: una piacevole sorpresa per chi tardivamente la scopre. 

Linguaglossa non è nata dalla bizzarria di un occasionale tocco magico, essa è stata generata dal lavoro di mille braccia, dal sudore della fronte di arsi uomini, che, sole o pioggia, vento o neve hanno costruito chiese, case, incantevoli verdi pubblici, alzato muri, dissotterrato pietre, sradicato e piantato alberi, raccolto o perduto frutti in una perenne altalena di gioie e dolori.

Basta guardare le colline che la circondano, dove i terrazzamenti, per trattenere lembi di terra strappate ad alture scoscese, sembrano giochi di bambini che la fatica ha reso adulti. Da qui si sente, talvolta, il feroce ruggito di altre comunità vicine che non le somigliano nel corpo, né nel carattere Un luogo da cui, nelle notti insonni, poter contare le stelle, una a una, che non sono lontani punti luminosi, ma compagne di vita, ciascuna col suo nome.

Qui la luna con la sua gobba ora a levante, ora a ponente si mostra in cielo dall’alba al tramonto, anche quando la luce del giorno le dona la trasparente spiritualità di un’ostia incollata in cielo Qui le campane delle chiese hanno il suono della voce amica, perenne, immutabile, inconfondibile.  Qui le strade non sono vie di comunicazione, ma appendici delle nostre dimore, dove ogni zolla di terra ha l’impronta dei nostri passi, lenti o spediti, talvolta perduti. Qui dove il profumo della terra non cambia mai. Qui dove la nebbia nasconde le cose lontane, ma esalta la luce del lampione che opaca mi giunge a rischiarare il melo cotogno che in quest’autunno lambisce la mia finestra con i suoi frutti d’oro.

Linguaglossa si può amare o odiare, mai dimenticare. Perché scorre nelle nostre vene. Qualcuno dice che in terra un luogo ideale non esiste. Peccato che i suoi passi non abbiano lasciato impronta su questa terra.

 

 

 

 

 

 

 

Sulla solitudine

 

Sulla solitudine

 

Quando la solitudine ti attanaglia, ti pervade, ti rode, investe la tua anima, occupa da sola i tuoi pensieri quotidiani, quando ti senti solo anche in mezzo ad una sterminata folla di persone che ti circondano, quando in una parola indossi la maglia della solitudine, che vuoi strapparti di dosso, ma non ci riesci e, così ridotto, non intravedi nemmeno l’ombra di te stesso che ti fa compagnia, sei vicino al punto di non ritorno: la depressione.

In questa sterminata pianura dell’anima senza dune, orizzonti o punti di riferimento,il pensiero rotola su se stesso, aggrovigliandosi; non distingue né forme, né colori; sbrodola verso l’esterno, come da un invisibile orifizio, senza che un ricambio visivo, sensitivo, olfattivo ricambi dall’interno questa inarrestabile emorragia interiore.

Eppure, se hai la forza di fermarti un attimo in questa caduta verticale incontro all’abisso, non volgere lo sguardo verso il basso che ti attrae; volgi il tuo sguardo altrove.

Cerca un appiglio, un interesse che possa tramutare il precipizio in risalita.

Aggrappati pure alla testa di un  serpente,purché non precipiti, e raccogli le tue forze.

Alimentale con la forza dell’amore che puoi dedicare agli altri nei mille modi che la vita ti offre.

Quel poco che ti è rimasto si rigenererà   al suo interno, per ingigantirsi, tracimando la tua stessa anima.

Scoprirai nella forza dell’amore per gli altri la ragione della tua stessa vita.

O sappi che questo buco nero dell’anima, la depressione, può essere riempito con una sapiente, continua lettura o, se ne hai la vena, con lo scrivere di tutto.

Nella lettura ti mescoli ai personaggi che incontri, rendendoli reali, col privilegio che non possono recarti danno; con lo scrivere doni ad altri un mondo immaginario, che non puoi o vuoi conoscere, il contenuto della tua anima che, se repressa, esplode nel delirio dell’assenza.

Un esperienza di vita e un augurio per chi è inconsapevole funambolo sulla sottile fune dell’esistenza.

Scrivere o leggere serve anche a questo.

venerdì 24 novembre 2023

Linguaglossa. Felice conclusione del centenario del'eruzione del 1923

 Linguaglossa. Felice conclusione del centenario dell’eruzione del 1923

Si sono conclusi a Linguaglossa i solenni festeggiamenti del centenario dell’eruzione del 1923. Un avvenimento attesissimo, che ha colorato la storia del paese, grazie all’intercessione miracolistica (si dice) del Patrono Sant’Egidio, che ha risparmiato il paese dalla catastrofe. Oltre alla dotta regia religiosa, posta in atto dal can. don O.Barbarino, oggi approdato a più autorevoli lidi, che per oltre un decennio, ha fatto vivere a Linguaglossa un rinnovato rito di fede, tutta la società civile si è stretta attorno a quest’avvenimento, capitanato dall’infaticabile Prof. S. Castorina, governatore della locale Confraternita giandana, concluso con l’illuminazione della croce su Monte Santo, che ha dato vita a un vecchio sogno di Padre Di Mauro, ideatore dell progetto. Oggi grazie al Governatore Castorìna e alla sua innata generosità, Linguaglossa rivive una sua ritrovata giovinezza, tante le iniziative portate a termine. Cosa insolita in un paese abituato alla sonnolenza: la rinascita del Collegio dei PP. Domenicani (Casa San Tommaso), destinato a infrangersi contro il muro dell’indolenza e le numerose iniziative portate avanti dalla Confraternita, in un rinnovato, corale spirito di collaborazione sociale, estraneo fino a poco tempo fa al paese. Segno che quando si affaccia alla società civile un uomo ricco di carisma, che prima di tutto scommette su se stesso e sul suo spirito filantropico, il successo è scontato. Speriamo che questa ventata di ritrovata vitalità abbia un seguito, perché una società si dimostra matura quando sa amalgamarsi e camminare sulle proprie gambe, senza aspettare l’arrivo dell’uomo della Provvidenza. 

mercoledì 22 novembre 2023

I figli perduti

 

I figli perduti.

Quando su FB vedo la foto di un giovane siciliano con la corona d’alloro in testa, felice d’avere conseguito la sudatissima laurea, con l’immancabile, meritatissimo trenta e lode, dico a me stresso: “Chiustu u pessimu !”. Che futuro può avere un giovane laureato nei nostri piccoli, arretrarti paesini etnei, se non si trova un lavoro decente, dove mettere a frutto la laurea, che, oggi, con l’inflazione culturale in atto, assomiglia, più o meno al vituperato diploma di terza media? Perciò i master si sciupano, nell’illusione di ampliare il corso degli studi, che paradossalmente restringe la ricerca del lavoro e allontana di più dalla terra natia. Purtroppo bisogna farsene una ragione e i genitori dovrebbero rassegnarsi a “perdere” questi figli, il cui destino hanno contribuito a formare. Inutile criticare questo esodo forzato e, per certi versi, voluto. E’ il prezzo che il Meridione paga alla sua arretratezza atavica, ora che l’agricoltura e l’artigianato hanno creato un maggior vuoto nell’occupazione lavorativa. Una scelta di vita, che determina lo spopolamento di certe aeree cittadine, che andrebbe affrontata, colmando il vuoto creatosi, magari agevolando, ora che il mercato immobiliare offre vantaggiose occasioni, l’insediamento di nuovi residenti, anche stagionali, verso i quali le amministrazioni locali dovrebbero offrire agevolazioni fiscali, nella speranza di colmare il vuoto lasciato dai giovani.  

martedì 21 novembre 2023

Come cambia un paese

 

Come cambia un paese.

Se vogliamo vedere come é cambia la nostra cittadina, Linguaglossa, forse dobbiamo spostarci ai quattro canti, crocevia pulsante del paese, luogo ricercato d’incontri, termometro economico dello sviluppo cittadino.

Un tempo non molto lontano quando le auto erano rare, appannaggio dei più abbienti, la sosta dei cittadini, nelle giornate festive, avveniva al centro della strada. Al passaggio delle poche auto la gente si scostava più per cortesia, che per obbligo, non risparmiando sguardi di sdegno al “disturbatore” di turno.

Era l’epoca in cui in quegli assembramenti si discuteva di lavoro e seconda della stagione si parlava ‘du mali a gialla o da niura’, di cuffari, conzu, ritagghiu, acquatina, putatura, scatinu, spiddira, rifunniri e zappuneddu, scausa e passari ‘i cetta.

Vocaboli che il contadino siciliano masticava giorno e notte, sognando pani niuru di “irmana”. La crisi vinicola era alle porte, e con essa il desiderio di cercare lavoro altrove: Svizzera, Germania, Argentina Venezuela, Australia. Incominciava lo spopolamento del paese.

Declino o desiderio di riscatto? Intanto le auto aumentavano e la gente, sempre più poca, che prima sostava al centro della strada, cercava rifugio agli angoli dei quattro canti, arrecando compiaciuto imbarazzo alle donne che, con  o senza carrozzina, dovevano districarsi tra chi lì oziosamente indugiava.

Qualcosa però stava mutando.

Quei nostri padri che nei giorni di festa, ai quattro canti, indossavano l’abito della domenica, parlando solo di lavoro e fatica, poco alla volta lasciavano il posto ai figli, con i capelli da hippy e i pantaloni a zampa di elefante.

Era l’epoca in cui si parlava di diritti, mai di doveri, anticamera di quello sfacelo, che nell’arco di un decennio sarebbe avvenuto. Era anche l’epoca della sana socializzazione, che presto si sarebbe trasformata in egoistico individualismo e in assenza di valori e sentimenti.

Oggi ai quattro canti oziano, con la gamba piegata, poggiata alla scolorita parete, poche sparute anime, tristi e pensierose, eredi di un mondo scomparso, in cerca di parole che non trovano e quando le trovano sono lamenti dolorosi, tristi litanie di disperazione, come disperato è chi cerca lavoro e non lo trova.

La decadenza è palpabile oltre che negli animi, anche nelle cose. Non sono più visibili uomini in sosta e persino le botteghe, stanche di aspettare hanno chiuso i battenti.

Una stretta al cuore quei palazzi, che sembrano fortezze dopo il massacro di Fort apache, abbandonati a causa di un’economa in coma. Il paese rimpiange quei calorosi assembramenti e la forza di quegli uomini che, dopo una giornata di fatica. facevano ritorno alla propria dimora, fischiettando canzoni d’amore, mentre a casa il fuoco dei fornelli avvampava e sopra un’annerita pentola piena di speranza.

Oggi non canta più nessun per le strade, come se l’uomo abbia perduto le corde vocali e la tristezza gli abbia soffocato l’anima.

Oggi siamo divorati dall’attesa. Ritorna ad aleggiare nelle nostre menti l’atavica pazienza dei contadini, quel desidero o anelito a che le cose cambino, per rimanere sempre le stesse o talvolta mutarsi in peggio, com’è questa realtà che ci ha privato della spensieratezza, sia pure sofferta, ma felice di una volta.

lunedì 20 novembre 2023

Linguaglossa il paese più ospitale del mondo.

 Linguaglossa, il paese più ospitale del mondo

Se cercate un paese dove trasferirvi, non lambiccatevi il cervello, Linguaglossa vi aspetta. E’ il paese più ospitale del mondo, dove la cortesia e l’affabilità sono di casa. Una condizione ideale riservata a chi proviene da altri lidi, perché per l’autoctono, nato e cresciuto in questa valle, è riservato ben altro trattamento. Il dono dell’ospitalità è sempre stato una caratteristica del linguaglossese, forse per compensare il rovescio della medaglia: l’avversione per il paesano, nei riguardi del quale abbondano pregiudizi, gelosie e invidie. La storia locale è disseminata di esempi, basta conoscerla. Qui si fa a gara per abbracciare il forestiero e mostrarlo come un trofeo, per significare di essere stato il prescelto di questo nuovo arrivato, che vediamo come un “messia”, abituati, come siamo, per istinto atavico, ad aprire le porte a qualsiasi sconosciuto dal quale siamo colonizzati. E a ben ragione, perché qui l’autoctono non sa sfruttare le proprie risorse, mentre sa dare il meglio di se all’estero. Ne sono esempi le numerose terre abbandonate, che sono tornate a rifiorire in mano a forestieri, poco importa se di questo nuovo progresso a noi resteranno solo briciole. Ci appaga l’ospitalità che dispensiamo a piene mani. L’autoctono è e resta una semplice coreografia che fa parte del paesaggio, una fottutissima comparsa. Scarsa autostima e insicurezza sono le nostre caratteristiche e da qui sottomissione e accondiscendenza. Siamo romasti bambini con la voglia di crescere sopita. 

sabato 18 novembre 2023

Quelle sere d'inverno attorno al braciere.

 

Quelle sere d’inverno,

attorno al braciere

 

Non era il braciere attorno al quale, finita la fatica, si raccoglievano che li riscaldava, ma la loro condizione di sofferta fratellanza.

Riposarsi, con la schiena rotta dopo una giornata di lavoro e dopo avere consumato l’ultimo boccone di pane, tagliato col coltello a roncola, che chissà quante cipolle aveva affettato, era come trovarsi in paradiso.

La stanchezza non si leggeva sui loro volti o, se c’era, era smorzata dal buio della stanza illuminata da un piccolo lume a petrolio e annebbiata dal fumo dei sigari che quei contadini accendevano uno dopo l’altro.

Ciascuno aveva la sua storia da raccontare ,triste, come la vita che il destino gli aveva cucito addosso.

Ragazzino, in mezzo ai contadini, che dissodavano le terre dei miei genitori, la sera, attorno a quel braciere, vivevo le loro storie con il fiato sospeso, come se il mio respiro dipendesse da quei racconti.

Se qualcuno, raccontata la sua prima storia, si fermava per scavare nella memoria, si sentiva solo il guaiolare di qualche volpe di passaggio e l’abbaiare dei cani che, invano, l’inseguivano.

“Poi ?” Chiedevo, come un assetato che beve alla fonte del sapere.

Quel “poi” infrangeva d’incanto quel silenzio tormentato e giù altre storie da raccontare, perché il contadino questo ha di bello: non scrive, non legge, ma racconta cose vissute, con la stessa forza e passione del migliore romanziere.

Don Turi, il più vecchio, con la sua giacca mezza scucita, posata sulle spalle, era il più triste. La morte della moglie se l’era cucita addosso, come un abito da indossare, e con quell’abito menava la vita tutti i giorni, dall’alba al tramonto, curvo sul piccone, per dissodare non la terra, ma i ricordi più belli vissuti con la moglie. Nei suoi racconti il nome di Maria, la moglie, aveva il sapore dolce dell’amore. Poi, per non rinverdire con quel nome lo strazio che aveva nel cuore, usava dire “Lei” sollevando l’indice, come per chiamare testimone quella creatura ch’era volata anzitempo in cielo.

 Donn’Affiu, un omone dall’età indefinibile, parlava invece della sua infanzia. Disgrazie ne aveva da raccontare. Aveva perso il fratello di vent’anni , ch’era saltato in aria mentre sistemava l’innesto per fare esplodere una mina nella galleria dove lavorava. Il padre non voleva sentirne di aiutare la nuora, vedova con due figli da sfamare, perché non aveva condiviso la fuitina del figlio che quelle braccia, a sentir lui, doveva ancora impiegare per mandare avanti la famiglia che l’aveva messo al mondo.

Così donn’Affiu s’era visto costretto a “rubare” in famiglia per mandare avanti quelle tre sfortunate creature. Era lui ,la mattina, che strigliava e “governava” l’asino e lo stallatico doveva rimuovere per farne un cumulo, che nella vigna al momento giusto bisognava sotterrare. D’accordo con la madre, che negli occhi innocenti di quei suoi piccoli nipoti vedeva il volto straziato del figlio strappato al suo cuore, donn’Affiu nascondeva un pane, avvolto nella carta, tra il letame, che, non visto dal padre, finiva in bocca a quei tre disgraziati. Poi, era un chilogrammo di fave o di ceci a fare la stessa sorte. Quando un giorno il padre tirò le cuoia, il destino di quelle creature mutò.

C’era quella famiglia infranta da salvare e donn’Affiu pensò bene di sposare la cognata. Giurò sull’altare di non volere altri figli, per non confondere col suo sangue l’affetto viscerale che nutriva per quelli del fratello. Un sacrificio che il Buon  Dio ricambiò regalando a donn’Affiu un corpo grosso, ma un cuore più grande ,una salute di ferro e una famiglia in prestito alla quale non mancava mai pane e amore.

Don Vicenzu, il massaro, che ci ospitava, aveva, intanto, già fatto tre giri di vino, riempiendo i bicchieri fino all’orlo, perché, si sa, l’offerta del vino è segno di ospitalità, ma serve anche per sciogliere la lingua e addolcire i pensieri. L’abitudine di riempire i bicchieri fino all’orlo era, allora, caratteristica dei contadini, che con quel gesto, a onta delle regole di buona creanza, indicava segno di generosità. Quelle storie don Vincenzo le conosceva a memoria, perché non era solo il lavoro che divideva con i compagni, ma anche le pene, che in silenzio ascoltava.

La moglie del massaro, donna Lia, se ne stava in disparte, a rammendare. Come facesse a cucire con quel buio pesto nella stanza, annerita dal fumo, era un mistero tutto femminile. Ascoltava in silenzio, anche se talvolta un incomprensibile brontolio tradiva la voglia di dire la sua, che a malapena tratteneva. “Quei racconti erano cose da uomini, sì, per Dio”, pensava, “ma perché alla donna era consentito di parlare solo sotto le lenzuola?”

Itanu, il più giovane, per timidezza o per rabbia si mangiava le unghie e con esse la terra che quelle unghie avevano catturato, strappando ciuffi d’erba dai muri infestati di parietaria. Era dovuto tornare in fretta dall’Australia, perché il padre era morto, lasciando la moglie incinta e tre figli piccoli ai quali bisognava dare da mangiare. Quando partì, qualche anno prima, aveva appena compiuto diciotto anni e il costo del biglietto aveva dovuto rimediarlo dalla generosità dei parenti. Sulla nave nemmeno un soldo in tasca e viverci un mese, quando durava la traversata, era come attraversare, senz’acqua, il deserto su un cammello.

Solo acqua e pane che qualche cameriere di bordo, per pietà, gli rimediava. Quando arrivò al Porto di Brisbane, senza i cinque chili che aveva lasciato per digiuno sulla nave, la felicità gli aveva tolto persino il morso della fame. Aveva così tanto metabolizzato l’acqua salata del mare che gli venne solo una gran voglia di bere. Qualcuno sulla nave gli aveva insegnato qualche parola d’inglese: Working, bread, soda Water. Solo quest’ultima ricordava, ma pronunziandola “situata” non trovava nessuno che lo aiutasse a dissetarsi. Quando, morto di sete, senti alle spalle che qualcuno parlava la sua lingua, gli parve di non essere mai partito dal paese. All’estero, a quei tempi, la fratellanza era un obbligo e così Itanu, grazie a quei paesani trovati lì, per caso, trovò pure il lavoro. Scaricava cassette di frutta che non aveva mai visto, né sapeva come si chiamasse. Quando il sabato il padrone della “farm” lo pagava, egli metteva in tasca quel denaro incomprensibile, senza contarlo. Lo guardava come se non gli appartenesse, perché dall’altra parte del mondo c’era qualcuno che lo aspettava. Poi l’incanto si spense, i sogni svanirono, il ritorno al paese si fece pressante. Adesso era li, attorno a quel braciere, in mezzo ai suoi compagni a raccontare il suo breve sogno australiano. Costretto, suo malgrado, a legarsi la zappa alle mani, quella zappa dalla quale, forse, non s’era staccato mai.

 Donna Lia, intanto, finito di rammendare, aveva accorciato lo stoppino del lume a petrolio, non si sa per risparmiare o per dare il segno che bisognava andare a dormire. Il pagliericcio, accanto alla stalla, era lì che attendeva le membra stanche di quei disgraziati. Un altro giorno di fatica li attendeva, io altre storie d’ascoltare.

A Linguaglossa i problemi li risolve la generosità dei privati

 

A Linguaglossa i problemi li risolve la generosità dei privati.

Ci sono voluti oltre dieci anni, perché il sogno di Padre Di Mauro, già arciprete di Linguaglossa, si avverasse. Aveva collocato, a suo tempo, su Monte Santo una croce, perché ricordasse l’evento eruttivo del 1923, ritenuto da alcuni miracoloso, per avere risparmiato il paese, fermandosi la lava ai piedi del monte. Il progetto prevedeva l‘illuminazione della croce, ma né la Chiesa locale, né il Comune, né la società civile avevano portato a termine questo progetto/sogno. E’ intervenuto, come sempre, il prof, S. Castorina, che in altre occasioni aveva dimostrato il suo mecenatismo verso il suo paese di nascita, a rendere possibile la realizzazione del progetto incompiuto. L’iniziativa ha avuto il plauso della cittadinanza ed è inutile aggiungere che la croce, così illuminata, ha il suo fascino, specie, paradossalmente, quando, avvolta da un velo di nebbia, sembra una visione mistica. Da questa vicenda, conclusa felicemente, resta la solita, amara morale. Nessuno della società civile, quand’è chiamato a risolvere un problema, che riguarda la collettività, si dimostra disponibile a mettere le mani in tasca e il Comune, come suo costume, si limita a guardare. In compenso ci spelliamo, le mani per applaudire, cogliendo i frutti di altrui generosità, ignorando che il mecenatismo è una condizione di vita in estinzione, in una società sempre più caratterizzata da bieco egoismo.

mercoledì 15 novembre 2023

Il vento.

 Il vento

Dopo una giornata ventosa.

Ora che il vento tace gli alberi si raccolgono in preghiera per piangere e ricordare le foglie cadute in guerra.

Disarmate dalla morte e sepolte  senza croce sotto un cumulo di terra, non più grande di un pugno chiuso, nasceranno a nuova vita.

La natura come l’uomo, ha il sangue nelle vene, la croce tra le braccia, la faccia di dolore o di gioia,  a seconda  delle intemperie o di un raggio di sole.

Dopo la tempesta vien la quiete.

 Ora che il vento tace.                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                      

I morti non si contano, i rami spezzati non hanno ospedali per le cure, ma sangue sulla faccia e desiderio di morte, che l’uomo pietoso raccoglierà per farne brace.

Ora il vento tace.

Gli alberi hanno finito di tremare e le  foglie di temere.

Ora che la natura ha placato la sua rabbia e il vento di fischiare , il silenzio si spande tra le cime dei monti, tra le nuvole passeggere, tra gli anfratti delle ombre.

S’ode appena un flebile fiato, un desiderio di quiete,annunciato dagli uccelli che ritornano a volare, dai fiori che tornano a profumare, dal sorriso della pudica mimosa sensitiva, che si chiude a ogni gesto,che non s’addica, come il vento che l’offende.

La natura è come l’uomo che geme  o gioisce al variare degli eventi,che scrive pagine di poesia come un artista di teatro.

Anche un filo d’erba o una pietra hanno  una storia da raccontare dopo che il vento li accarezzi o le faccia rovesciare.  La natura non è mai muta, è uno scrigno aperto da cui imparare ciò che l’uomo non conosce.  La si trova nel frangersi delle onde, nel frastuono di un  tuono,nello scorrere di un torrente, nell’ombra amica d’un ricurvo salice piangente, nel fruscìo d’una foglia, nello scroscio della pioggia al mattino, nella cavità d’una conchiglia,tra le nuvole, o tra i fili stesi ch portano la luce o la voce: L’’abbiamo dentro l’anima a spazzare pensieri cattivi o a issare bandiere d’amore,a ricordarci che il tempo è passato o a spingerci verso un futuro che ci appartiene. Perché come dice San Bernardo “ciò che ti dice un bosco non lo trovi in un libro”..

Il vento.

Un ricurvo salice

l’ascolta gemendo

tra i rami contorti

per il lungo dolore.

 

Gli fanno eco, cantando, altri alberi

che con la mano sul fianco

sembrano intrecciare

mute danze che sanno di pianto.

 

Cadute foglie ingiallite

volano nell’aria,

sembrano dolci speranze

                                                                         del vento rapite

martedì 14 novembre 2023

C'era una volta l'arte della vendemmia

 

C’era una volta l’arte della vendemmia.

Leggo con attenzione quanto sta succedendo nel mondo della viticoltura siciliana e in particolare nella zona etnea, dove sono nato e cresciuto. Ho avuto la fortuna di nascere in una famiglia che la coltivazione della vite era fonte di sostentamento familiare e come tutti i ragazzi d’allora seguivo le vendemmie con lo spirito di chi giovane s’innamora delle tradizioni locali e ne ricorda con amore lo svolgersi. Nasce spontanea pertanto la differenza con cui una volta si svolgevano le vendemmie e quelle di oggi. Allora chi vinificava non conosceva la figura dell’enologo e l’unico strumento a disposizione del viticultore era il mostimetro col quale si rilevava il grado zuccherino del mosto, indice di quello alcolico che ne sarebbe derivato. Non esisteva l’imbottigliamento e il mosto era conservato nelle botti, per poi, diventato vino, venduto all’ingrosso. Oggi La vinificazione è diventata un’industria, la coltivazione della terra affidata a mezzi meccanici e della vendemmia di una volta sono rimasti scoloriti ricordi. .Abbiamo sostituito la ragione alla poesia,la scienza al sentimento, l’amore per la terra al suo massimo sfruttamento. Confesso che mi manca quel mondo, l’odore del mosto per le strade, il trasporto degli otri con i muli, il formicolio dei vendemmiatori per le strade di campagna , i canti e le ballate dei raccoglitori a sera, dopo un giorno di fatica, la gioia di vedere defluire il mosto dalle ‘tine’ alle botti o negli otri. La vendemmia è diventata un’attività industriale, anziché una solennità corale e il vino,tranciato il suo cordone ombelicale alla madre vite che l’aveva prodotto,’studiato’,raffinato, ingentilito, reso meno ‘villano’è diventato un’etichetta da esportare,un bene di consumo per palati più esigenti. Forse un ‘mezzosangue’ una ‘canaglia’per far soldi. Dentro quella bottiglia dall’etichetta suadente non c’è più il romanticismo di una volta, ma il realismo esasperato di oggi. Dentro quella bottiglia non c’è più don Sarbaturi e tanti come lui che pigiavano con i piedi, la testa e il cuore, ma le macchine,le astratte formule e composti matematici. Anche gli attributi per definire un vino sono cambiati. Una volta era ricorrente sentire dire: ‘Questo vino è ‘spunto’Oggi questo termine è desueto. Questa è la vita, col suo progresso e le sue infinite, ineludibili distorsioni. Guai a restare confinati nel passato. si gusterebbe il sapore ‘amarognolo’ dell’oggi. Pubblicata oggi 14.11.2023 su La Sicilia

lunedì 13 novembre 2023

Villaggio, politica e riserva mentale.

 “Villaggio, politica e riserva mentale

La riserva mentale è una restrizione formulata nella mente di chi pensa su quanto si dice o si promette. Una categoria mentale di cui fa largo uso il politico in generale, perché quasi sempre quello che dice o promette in pubblico assai di rado coincide con il significato delle parole che esprime. Se le riserve mentali fossero infiorescenze, le teste dei nostri amministratori avrebbero le sembianze delle figure tanto care a Botticelli. Perché questa premessa? Semplice. Perché Linguaglossa è stanca di promesse, di parole, di progetti iniziati e non compiuti intorno al Villaggio Mareneve.  Una struttura che può assurgere a simbolo delle opere incompiute. La ‘strada Costa’, altro esempio di scempio incompiuto,nonostante il triste,immorale primato dell’opera più costosa d’Europa .

Con quale responsabilità amministrativa la Provincia ha stanziato somme di denaro per il recupero del villaggio, se oggi tutto langue come e più di prima, in spregio al denaro speso?

Una struttura, che sorge su demanio concesso dal Comune per un fine ben definito, che agonizzante com’è, suona offesa alla cittadina di Linguaglossa: un centro etneo che ha bisogno di ritrovare la sua naturale vocazione turistica e di coltivare quelle poche ricchezze che la natura le ha profuso nonostante chi rema contro.

Che fine hanno fatto le tante strombazzate iniziative messe in atto da questo o quel comitato cittadino e dalla stessa amministrazione comunale che ha minacciato la revoca della concessione nel perdurare dell’inerzia,per non parlare della colposa ignavia di noi cittadini,abituati,come siamo, a coltivare solo il nostro orticello?

Parole, parole, parole, parole soltanto parole tra noi…, canta la dolce Mina

domenica 12 novembre 2023

Perché scrivo.

 

Perché scrivo.

 

La parola è il clacson del cervello, il mezzo con cui l’uomo trasforma il silenzio del pensiero in voce, ma anche l’esigenza dell’anima che esploderebbe in delirio senza il veicolo della comunicazione orale.

Le poche o molte lettere che in due anni ho elaborato sono semi che il mio pensiero ha sparso nel suo vivere quotidiano. Voci, appunto.

Lettere nella forma, ma pur sempre pensieri, parole a cui, in parte, ho incollato le ali della pubblicazione giornalistica, altre invece che ho appeso al chiodo di una virtuale parete domestica, per restare macchie d’inchiostro, schizzi dell’anima, che oggi schiodo per farne, immodestamente, partecipe il lettore.

“Dal mio punto di vista” vuole essere un insieme di messaggi su argomenti quotidiani affidati al becco di un ipotetico uccello che, svolazzando fuggente, lascia cadere tra la folla dei lettori, pur nell’amara consapevolezza che tutti o quasi si depositeranno sul terreno arido dell’insipienza umana o nello sterile humus dell’indifferenza.

Talvolta però le parole inascoltate, disattese, non capite o sotterrate nell’oblio, se sgusciate dall’involucro che le avvolge, contengono semi di verità, che col tempo potranno divenire “jabbâra” (germogli), perché anche le parole hanno un’anima.

Questo è almeno l’augurio che si fa chi parla o scrive per gli altri.

Non è forse il caso di questo mio scritto relegato ad essere coltivato in un immaginario orticello personale, ad uso e consumo di chi lo accudisce, ma aperto a chi vuole accedervi, a condizione che impari a rispettare le opinioni altrui, anche quando non collimano con le proprie.

Spesso però l’esperienza ci dice che le parole vanno scritte sulle pietre, perché quando diventano petizioni inascoltate, grida di dolore, esse più che pronunziate, vanno scagliate contro quanti sono o vogliono essere sordi.

 

 

 

L'ultima foglia

 

L’ultima foglia.

 

Stamani è volata via l’ultima foglia del mio melograno. Tutte le mattine, aprendo l’imposta della mia camera, speravo di trovarla.

Contavo i giorni di permanenza attaccata al suo ramo e dicevo tra di me: “Come vorrei essere quella foglia!

Solo l’amore la tiene legata”.

Poi, un triste giorno una folata.. .una folata malvagia... l’ha trascinata via.

Quella foglia mattutina era per me una speranza, anzi... una preghiera.

Ci sono tanti modi di pregare Dio. Io ne avevo scelto uno a modo mio.

“Com’è possibile cercare Dio attraverso una foglia?”, m’interrogavo.

Guardandola attaccata al suo ramo, ci vedevo Dio.

Forse quella foglia ero io?

Cercavo di scacciare questo pensiero sacrilego, ma poi pensavo; “Cos’ha una foglia di diverso dal mio io?

Nasce da un albero, vive assieme a lui un’intera vita, per poi morire.

E’ il ciclo della vita.

 

Forse non ha un’anima?

Che certezza ho di quest’assioma? Forse che della mia si conosca l’esistenza?” Guardavo quella foglia ogni mattina.

Ci vedevo una speranza, anzi....era una preghiera.

Poi un triste giorno una folata... .una malvagia folata l’ha trascinata via.

Verrà un giorno che anch’io, come la foglia di quel melograno, sarò spazzato via.

Una folata, una malvagia folata mi porterà via.

Per condurmi dove?

Lo vorrei chiedere alla foglia di quel melograno, ma lei non può rispondermi, è volata via.