Come cambia un paese.
Se vogliamo
vedere come é cambia la nostra cittadina, Linguaglossa, forse dobbiamo
spostarci ai quattro canti, crocevia pulsante del paese, luogo ricercato
d’incontri, termometro economico dello sviluppo cittadino.
Un tempo non molto
lontano quando le auto erano rare, appannaggio dei più abbienti, la sosta dei
cittadini, nelle giornate festive, avveniva al centro della strada. Al
passaggio delle poche auto la gente si scostava più per cortesia, che per
obbligo, non risparmiando sguardi di sdegno al “disturbatore” di turno.
Era l’epoca in
cui in quegli assembramenti si discuteva di lavoro e seconda della stagione si
parlava ‘du mali a gialla o da niura’, di cuffari, conzu, ritagghiu, acquatina,
putatura, scatinu, spiddira, rifunniri e zappuneddu, scausa e passari ‘i cetta.
Vocaboli che il
contadino siciliano masticava giorno e notte, sognando pani niuru di “irmana”.
La crisi vinicola era alle porte, e con essa il desiderio di cercare lavoro
altrove: Svizzera, Germania, Argentina Venezuela, Australia. Incominciava lo
spopolamento del paese.
Declino o
desiderio di riscatto? Intanto le auto aumentavano e la gente, sempre più poca,
che prima sostava al centro della strada, cercava rifugio agli angoli dei
quattro canti, arrecando compiaciuto imbarazzo alle donne che, con o senza carrozzina, dovevano districarsi tra
chi lì oziosamente indugiava.
Qualcosa però
stava mutando.
Quei nostri
padri che nei giorni di festa, ai quattro canti, indossavano l’abito della
domenica, parlando solo di lavoro e fatica, poco alla volta lasciavano il posto
ai figli, con i capelli da hippy e i pantaloni a zampa di elefante.
Era l’epoca in
cui si parlava di diritti, mai di doveri, anticamera di quello sfacelo, che
nell’arco di un decennio sarebbe avvenuto. Era anche l’epoca della sana
socializzazione, che presto si sarebbe trasformata in egoistico individualismo
e in assenza di valori e sentimenti.
Oggi ai quattro
canti oziano, con la gamba piegata, poggiata alla scolorita parete, poche
sparute anime, tristi e pensierose, eredi di un mondo scomparso, in cerca di
parole che non trovano e quando le trovano sono lamenti dolorosi, tristi
litanie di disperazione, come disperato è chi cerca lavoro e non lo trova.
La decadenza è
palpabile oltre che negli animi, anche nelle cose. Non sono più visibili uomini
in sosta e persino le botteghe, stanche di aspettare hanno chiuso i battenti.
Una stretta al
cuore quei palazzi, che sembrano fortezze dopo il massacro di Fort apache,
abbandonati a causa di un’economa in coma. Il paese rimpiange quei calorosi
assembramenti e la forza di quegli uomini che, dopo una giornata di fatica.
facevano ritorno alla propria dimora, fischiettando canzoni d’amore, mentre a
casa il fuoco dei fornelli avvampava e sopra un’annerita pentola piena di
speranza.
Oggi non canta
più nessun per le strade, come se l’uomo abbia perduto le corde vocali e la
tristezza gli abbia soffocato l’anima.
Oggi siamo
divorati dall’attesa. Ritorna ad aleggiare nelle nostre menti l’atavica
pazienza dei contadini, quel desidero o anelito a che le cose cambino, per
rimanere sempre le stesse o talvolta mutarsi in peggio, com’è questa realtà che
ci ha privato della spensieratezza, sia pure sofferta, ma felice di una volta.
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