lunedì 13 aprile 2015

Il vignaiolo



Il vignaiolo
Il mestiere del vignaiolo è il più affascinante del mondo. Intanto perché tiene occupati mente e braccia ininterrottamente tutto l’anno e, non ultimo, perché non si finisce ma i di “raccogliere” il frutto del proprio lavoro, che non termina con la vendemmia, ma prosegue con il rito della pigiatura, della spremitura, con “la conta” dell’imbottare che non è affidata alla monotona noiosità dei numeri, ma all’ arte della cabala, l’interpretazione simbolica dei numeri, miscuglio di religione e superstizione, infine con l’assaggio e la vendita del prodotto che rappresenta l’apoteosi finale. Per poi ricominciare in un ciclo senza fine come è il trascorrere della vita, o della vite. Capire se il lavoro del vignaiolo finisce con la vinificazione o inizia con la potatura è una domanda senza risposta, perché la vita della vigna, anche quando apparentemente riposa, non è che l’inizio di un nuovo ciclo. Un tempo, ricordo, il contadino, dopo la vendemmia, tranciava i tralci delle viti per sotterrarli ai suoi piedi, che, se fornivano alimento alla pianta, simboleggiavano il rito della reincarnazione, perché il tralcio tranciato e interrato diventava vite esso stesso. Poi si proseguiva nei lavori della terra, non prima però che il vigneto desse spettacolo di sé nel periodo autunnale, quando le foglie delle viti sono ricami che i raggi del sole esaltano in un tripudio di colori, dal giallo al rosso, che simboleggiano la luce del sole, l’energia, la vita. Un passaggio, quello autunnale della vite, che può paragonarsi alla vita della donna, che dopo il parto s’illumina di nuovo rinnovato splendore. Dopo la potatura e prima della gemmazione inizia la quaresima della vite col suo ‘pianto” che sa di umano dolore, poi l’inizio di una lunga gestazione, dalla fioritura all’impollinazione, dalla fecondazione all’allegagione. Infine il prodigio: il parto, l’uva, che simboleggia “il natale”. Non c’è stagione della vite che non sia ricca dì fascino. La religiosa geometria che esprime un vigneto, non ha eguali in natura, scrivevo un tempo, ammirando i verdeggianti filari delle viti. Un’uguaglianza arborea, che è armonia, fratellanza, quando un tralcio si allunga per porgere idealmente la mano ad altro tralcio che si diparte da altra vite che sorge a fianco. Oggi della vendemmia d’un tempo poco è rimasto. Non è più visibile quel millepiedi umano fatto di uomini e donne con le ceste in spalla o in testa a trasportare l’uva. Una nota di poesia si può ritrovare quando la vendemmia si svolge di notte, mescolando lavoro e rappresentazione, specie se accompagnata dalla colonna sonora di un’opera lirica, perché canto, poesia è la vendemmia. La vite per fortuna non è più intesa come proficua fattrice di grappoli, ma come dispensatrice di qualità e nel vino non si ricerca solo zucchero, grado alcoolico e acidità, ma colore, limpidezza e bouquet. Non per niente alla vite s’accosta la rosa, per spiarne la sua salute. Il vino finalmente ha indossato la sua veste naturale, la bottiglia e l’etichetta è essa stessa arte. Perché arte è il più straordinario spettacolo della natura: il grappolo d’uva, non un frutto, ma un tripudio di frutti, i suoi chicchi, la cui linfa frutto di fatica e piacere,di  lacrime e sorrisi, fu scelta come nettare degli dei.  FB 11.04.2015
Saro Pafumi.

mercoledì 1 aprile 2015

Gigli d'amore



Gigli d’amore
“Ti voglio mostrare qualcosa che ti farà piacere”, mi disse il mio amico Giovanni.
Salii sulla sua auto e ci avviammo verso una destinazione che non conoscevo. Durante il tragitto, Giovanni parlò d’altro, ma io non l’ascoltai, preso com’ero dalla voglia di conoscere la cosa piacevole che voleva mostrarmi.
Quando giungemmo sul posto, una grande cancellata faceva da ingresso a una splendida villa in stile liberty. Giovanni azionò il telecomando e la cancellata s’aprì. Entrammo.
All’ingresso un duplice filare di meli fioriti faceva da cornice a un lungo viale, in fondo al quale si stagliava la villa in tutta la sua architettonica eleganza. Lo percorremmo in auto, a passo d’uomo, attorniati da un festoso stuolo di pastori maremmani.
Appena scendemmo dall’auto, Giovanni, me li presentò uno a uno: Athena, Attalos, Orghè, Basil, Nestor,Creusa, Eris. Estia.
Ognuno di quei nomi, mi spiegò, aveva un significato preciso. Mancava Anat, aggiunse, la più fertile del gruppo, non per  niente chiamata come la dea della fertilità. Era essa la protagonista da mostrarmi.
In una casetta a fianco alla villa, Giovanni aveva allestito un confortevole ricovero, dove i pastori maremmani condividevano, in perfetta armonia, la loro dimora. Un residence di lusso, se paragonato a certi orribili canili che sanno di lager. Ciascuno aveva la sua scodella dove consumare il pasto, col nome scrittovi sopra. Nove ne contai, quanti i maremmani che m’aveva indicato.
Mi venne spontaneo chiedergli: “ Come fanno i tuoi maremmani a scegliere la propria scodella?”
Giovanni non si scompose. Chissà quante volte gli avevano fatto la stessa domanda, perciò prontamente mi rispose: “Vedi, in questo mondo animale, non c’è il mio o il tuo. Ognuno consuma il pasto nella scodella che vuole. Si vive in perfetta fratellanza, senza egoismi e prevaricazioni. La distinzione tra esseri della stessa specie la facciamo noi. I cani, come impropriamente li chiamiamo, si sentono tutti uguali, non pensano a darsi un nome. Questa è una nostra invenzione, come i nomi su quelle ciotole. Per me, si chiamino Orghé, Attalos, Creusa o Estia, non fa distinzione.  Li amo tutti allo stesso modo, come allo stesso modo tutti tra di loro.
Intanto fremevo dalla voglia di conoscere l’oggetto del desiderio: Anat.
Giovanni aprì la porta che dava nella stanza della puerpera, dove una splendida maremmana aveva dato alla luce sette paffutissimi cuccioli di un bianco accecante.
Accovacciati accanto ad Anat, la loro mamma,i sette nuovi venuti sembravano un tutt’uno. Una nuvola mi parse di vedere, una bianchissima nuvola come tante disegnate nell’azzurro del cielo.
Appena Anat ci vide, girò leggermente la testa verso di noi, come per dirci: “Per favore, non disturbate il sonno di questi innocenti”. Lo disse con gli occhi che ci fissavano immobili e dolci.
Quando quella bianchissima nuvola leggermente si scompose, ciascuno di quei cuccioli prese forma. Più che piccoli esseri sembravano candidi gigli, simbolo di purezza e amore.
Morivo dalla voglia di prenderli in braccio e accarezzarli, ma mi trattenni per non rompere quel cordone ombelicale di autentico amore che ancora li legava alla loro madre.
In quella stanzetta non mancava nulla: il lettino per Anat, la culla per l’intera nidiata, ciotole, un armadietto per le medicine. Una clinica, pensai. Giovanni aveva dato a suoi amici ospitalità, amore e mutua assistenza, quella che difetta a noi umani.
Quando uscimmo da quel luogo d’amore, lo stesso bianco stuolo di prima ci venne incontro festante.
“Come fai a distinguere le tue creature l’uno dall’altro” gli chiesi, “se sembrano tutte uguali? “
 “A parte il sesso”, mi rispose, “è nel carattere, la loro differenza. Vedi questo che mi sta vicino? E’ Orghè, che significa “coraggio”, il capo branco. Un ordine dato a lui si trasmette all’intera comitiva. Non sono io a imporlo. E’ la sua indiscussa autorità”.
Confesso che avrei voluto intrattenermi ancora per scoprire quel mondo a me ignoto, ma Il mio amico Giovanni doveva rientrare.
Quando il cancello si chiuse alle nostre spalle, Giovanni mi promise che mi avrebbe di nuovo accolto nella sua villa. “Quando matureranno le mele annurche”, mi disse,”ora sono in fiore”. Scoprirai la deliziosa bontà di questo frutto, la mia terza passione.
“La terza?” gli chiesi. “I maremmani, le  mele annurche e l’altra?”  “Suvvia,non fare finta di non saperlo !” e cambiò discorso, mentre allontanandoci, l’abbaiare festoso dei maremmani andava affievolendosi.