Gigli
d’amore
“Ti
voglio mostrare qualcosa che ti farà piacere”, mi disse il mio amico Giovanni.
Salii
sulla sua auto e ci avviammo verso una destinazione che non conoscevo. Durante
il tragitto, Giovanni parlò d’altro, ma io non l’ascoltai, preso com’ero dalla
voglia di conoscere la cosa piacevole che voleva mostrarmi.
Quando
giungemmo sul posto, una grande cancellata faceva da ingresso a una splendida
villa in stile liberty. Giovanni azionò il telecomando e la cancellata s’aprì.
Entrammo.
All’ingresso
un duplice filare di meli fioriti faceva da cornice a un lungo viale, in fondo
al quale si stagliava la villa in tutta la sua architettonica eleganza. Lo
percorremmo in auto, a passo d’uomo, attorniati da un festoso stuolo di pastori
maremmani.
Appena
scendemmo dall’auto, Giovanni, me li presentò uno a uno: Athena, Attalos,
Orghè, Basil, Nestor,Creusa, Eris. Estia.
Ognuno
di quei nomi, mi spiegò, aveva un significato preciso. Mancava Anat, aggiunse,
la più fertile del gruppo, non per
niente chiamata come la dea della fertilità. Era essa la protagonista da
mostrarmi.
In
una casetta a fianco alla villa, Giovanni aveva allestito un confortevole
ricovero, dove i pastori maremmani condividevano, in perfetta armonia, la loro
dimora. Un residence di lusso, se paragonato a certi orribili canili che sanno
di lager. Ciascuno aveva la sua scodella dove consumare il pasto, col nome
scrittovi sopra. Nove ne contai, quanti i maremmani che m’aveva indicato.
Mi
venne spontaneo chiedergli: “ Come fanno i tuoi maremmani a scegliere la
propria scodella?”
Giovanni
non si scompose. Chissà quante volte gli avevano fatto la stessa domanda,
perciò prontamente mi rispose: “Vedi, in questo mondo animale, non c’è il mio o
il tuo. Ognuno consuma il pasto nella scodella che vuole. Si vive in perfetta
fratellanza, senza egoismi e prevaricazioni. La distinzione tra esseri della stessa
specie la facciamo noi. I cani, come impropriamente li chiamiamo, si sentono
tutti uguali, non pensano a darsi un nome. Questa è una nostra invenzione, come
i nomi su quelle ciotole. Per me, si chiamino Orghé, Attalos, Creusa o Estia,
non fa distinzione. Li amo tutti allo
stesso modo, come allo stesso modo tutti tra di loro.
Intanto
fremevo dalla voglia di conoscere l’oggetto del desiderio: Anat.
Giovanni
aprì la porta che dava nella stanza della puerpera, dove una splendida
maremmana aveva dato alla luce sette paffutissimi cuccioli di un bianco
accecante.
Accovacciati
accanto ad Anat, la loro mamma,i sette nuovi venuti sembravano un tutt’uno. Una
nuvola mi parse di vedere, una bianchissima nuvola come tante disegnate
nell’azzurro del cielo.
Appena
Anat ci vide, girò leggermente la testa verso di noi, come per dirci: “Per
favore, non disturbate il sonno di questi innocenti”. Lo disse con gli occhi
che ci fissavano immobili e dolci.
Quando
quella bianchissima nuvola leggermente si scompose, ciascuno di quei cuccioli
prese forma. Più che piccoli esseri sembravano candidi gigli, simbolo di
purezza e amore.
Morivo
dalla voglia di prenderli in braccio e accarezzarli, ma mi trattenni per non
rompere quel cordone ombelicale di autentico amore che ancora li legava alla
loro madre.
In
quella stanzetta non mancava nulla: il lettino per Anat, la culla per l’intera
nidiata, ciotole, un armadietto per le medicine. Una clinica, pensai. Giovanni
aveva dato a suoi amici ospitalità, amore e mutua assistenza, quella che
difetta a noi umani.
Quando
uscimmo da quel luogo d’amore, lo stesso bianco stuolo di prima ci venne
incontro festante.
“Come
fai a distinguere le tue creature l’uno dall’altro” gli chiesi, “se sembrano
tutte uguali? “
“A parte il sesso”, mi rispose, “è nel
carattere, la loro differenza. Vedi questo che mi sta vicino? E’ Orghè, che
significa “coraggio”, il capo branco. Un ordine dato a lui si trasmette
all’intera comitiva. Non sono io a imporlo. E’ la sua indiscussa autorità”.
Confesso
che avrei voluto intrattenermi ancora per scoprire quel mondo a me ignoto, ma
Il mio amico Giovanni doveva rientrare.
Quando
il cancello si chiuse alle nostre spalle, Giovanni mi promise che mi avrebbe di
nuovo accolto nella sua villa. “Quando matureranno le mele annurche”, mi
disse,”ora sono in fiore”. Scoprirai la deliziosa bontà di questo frutto, la
mia terza passione.
“La
terza?” gli chiesi. “I maremmani, le
mele annurche e l’altra?”
“Suvvia,non fare finta di non saperlo !” e cambiò discorso, mentre
allontanandoci, l’abbaiare festoso dei maremmani andava affievolendosi.
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