Il vignaiolo
Il mestiere
del vignaiolo è il più affascinante del mondo. Intanto perché tiene occupati
mente e braccia ininterrottamente tutto l’anno e, non ultimo, perché non si
finisce ma i di “raccogliere” il frutto del proprio lavoro, che non termina con
la vendemmia, ma prosegue con il rito della pigiatura, della spremitura, con
“la conta” dell’imbottare che non è affidata alla monotona noiosità dei numeri,
ma all’ arte della cabala, l’interpretazione simbolica dei numeri, miscuglio di
religione e superstizione, infine con l’assaggio e la vendita del prodotto che
rappresenta l’apoteosi finale. Per poi ricominciare in un ciclo senza fine come
è il trascorrere della vita, o della vite. Capire se il lavoro del vignaiolo
finisce con la vinificazione o inizia con la potatura è una domanda senza
risposta, perché la vita della vigna, anche quando apparentemente riposa, non è
che l’inizio di un nuovo ciclo. Un tempo, ricordo, il contadino, dopo la
vendemmia, tranciava i tralci delle viti per sotterrarli ai suoi piedi, che, se
fornivano alimento alla pianta, simboleggiavano il rito della reincarnazione,
perché il tralcio tranciato e interrato diventava vite esso stesso. Poi si
proseguiva nei lavori della terra, non prima però che il vigneto desse spettacolo
di sé nel periodo autunnale, quando le foglie delle viti sono ricami che i
raggi del sole esaltano in un tripudio di colori, dal giallo al rosso, che
simboleggiano la luce del sole, l’energia, la vita. Un passaggio, quello
autunnale della vite, che può paragonarsi alla vita della donna, che dopo il
parto s’illumina di nuovo rinnovato splendore. Dopo la potatura e prima della
gemmazione inizia la quaresima della vite col suo ‘pianto” che sa di umano
dolore, poi l’inizio di una lunga gestazione, dalla fioritura
all’impollinazione, dalla fecondazione all’allegagione. Infine il prodigio: il
parto, l’uva, che simboleggia “il natale”. Non c’è stagione della vite che non
sia ricca dì fascino. La religiosa geometria che esprime un vigneto, non ha
eguali in natura, scrivevo un tempo, ammirando i verdeggianti filari delle
viti. Un’uguaglianza arborea, che è armonia, fratellanza, quando un tralcio si
allunga per porgere idealmente la mano ad altro tralcio che si diparte da altra
vite che sorge a fianco. Oggi della vendemmia d’un tempo poco è rimasto. Non è
più visibile quel millepiedi umano fatto di uomini e donne con le ceste in
spalla o in testa a trasportare l’uva. Una nota di poesia si può ritrovare
quando la vendemmia si svolge di notte, mescolando lavoro e rappresentazione,
specie se accompagnata dalla colonna sonora di un’opera lirica, perché canto,
poesia è la vendemmia. La vite per fortuna non è più intesa come proficua
fattrice di grappoli, ma come dispensatrice di qualità e nel vino non si
ricerca solo zucchero, grado alcoolico e acidità, ma colore, limpidezza e
bouquet. Non per niente alla vite s’accosta la rosa, per spiarne la sua salute.
Il vino finalmente ha indossato la sua veste naturale, la bottiglia e l’etichetta
è essa stessa arte. Perché arte è il più straordinario spettacolo della natura:
il grappolo d’uva, non un frutto, ma un tripudio di frutti, i suoi chicchi, la
cui linfa frutto di fatica e piacere,di lacrime
e sorrisi, fu scelta come nettare degli dei. FB 11.04.2015
Saro Pafumi.
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