domenica 24 aprile 2016

Cosa dire al forestiero che viene a Linguaglossa



Che cosa dire a chi…..

Se cerchi un paese dove stabilirti o una casa da acquistare per starci, forse faresti bene, prima di scegliere, a venire a Linguaglossa. Prima di scoprire le sue bellezze e i suoi abitanti, sappi che, qui, l’ospitalità non ha eguali, la respiri in ogni dove. E’ la legge del cuore. Te ne accorgi subito. Se chiedi a qualcuno dove si trova una via…… ti accompagnerà, elencandoti tutti gli abitanti del quartiere: è il sacro ‘rito della presentazione’. Le più belle sensazioni, poi, sono quelle dirette che ti giungeranno agli occhi e al cuore: le viuzze, prima ancora delle strade principali. E’ là che coglierai l’anima del paese, là ove il tempo si è fermato. Entrerai in un passato senza tempo e, per un attimo, anche il tuo si sarà fermato. Tra quelle strade, un tempo piene di gente, ti sembrerà di ascoltare ancora le loro voci e la loro gioia di vivere. Sentirai l’odore del muschio che copre i muri, il profumo del gelsomino che sbava dai muri o vedrai pelargoni rosa rovesciarsi da barbosi balconi darti il benvenuto Ascolterai il ritmico, gioioso picchiettio 'du partituri” del beccaio, curvo, come pastorello da presepe, intento a preparare la salsiccia al ceppo o sentirai l’odore del pane appena sfornato. Poi, quando, riemerso dal passato, scoprirai le strade cittadine, le ville comunali, le chiese e i palazzi non saprai dove scegliere: se cercare casa in una delle tante viuzze, dove regna il silenzio e un raggio di sole non si nega mai o in una delle tante vie principali da dove, affacciato, vedrai passare il Santo Patrono, le sfilate di carnevale, la banda musicale, giovani donzelle agghindate e gioviali. Tra le quattro mura che hai scelto, che appartengono solo a te, re ti sentirai, tra amici, perché qui da noi il forestiero è la nostra parte migliore. Anche se non arrivi in groppa al cammello e non trovi da dattero le palme, sappi che hai appena trovato un’oasi, da cui, mai ti vorrai separare.  Saro pafumi  FB 10.01.2016

Comune di Linguaglossa e Autorità garante.



Comune di Linguaglossa e Autorità Garante.
Parafrasando un noto slogan, mi viene da dire: “ Meno male che Lo dico a La Sicilia c’è”- Una rubrica che permette al lettore di lamentarsi, di gioire, di criticare, di proporre. Avventurandoci in quest’impresa non può passare inosservata
Comune di Linguaglossa e Autorità Garante.
Con determina n.82 del 18.03.2016 del Comune di Linguaglossa, con la quale si affida incarico a studio legale di predisporre una serie di atti, compresa l’assistenza all’audizione dinanzi all’Autorità Garante, per la nota vicenda riguardante il bando di gara per le escursioni estive a Piano Provenzana. Nella determina si definisce il’servizio legale’ come atto ‘precontenzioso’, facendo così intendere la possibilità di un’eventuale lite giudiziaria tra le autorità in oggetto.  La determina comporta un impegno di spesa di euro 4056.40. I fatti. L’Autorità Garante con la nota 1647 del 10.02.2016 aveva invitato il Comune a rassegnare le proprie deduzioni sui rilievi esposti nella nota citata, cosa che il Comune avrebbe potuto fare senza scomodare legali di chiara fama, affidandone la risposta al ’funzionario’ competente, che, poiché tale, ha o dovrebbe avere la ‘funzione’ di sopperire a queste esigenze. Risposta peraltro che si sarebbe potuta dare con due semplice parole: “Condividiamo, provvederemo”. Perché i rilievi dell’Autorità Garante a proposito dei bandi di gara rientravano e rientrano tra le norme di buon senso e legalità. Invece si è voluta percorrere la strada temeraria del’precontenzioso’, oberando le magre casse comunale di un impegno di spesa inutile. Ha ragione allora il comune cittadino quando strimpella ‘ai quattro canti’: “ Il Comune spende quattromila euro per consulenze inutili e poi dice che non ha i soldi per cambiare la lampada fulminata nel palo del mio quartiere’. Certamente sono tante le difficoltà che devono superare gli amministratori, ma spesso,purtroppo, ci aggiungiamo del nostro. Saro Pafumi.FB 24.03.2016

Come portare la propria croce



Anziché portarla, la croce  va brandita come un’arma.
Un tizio vedendo un uomo trascinare una croce legata a una corda, lo riprese dicendogli: “ A cussì porti a cruci”? Questi sentendosi rimproverare si mise la croce sotto le ascelle. “, A cussì porti a cruci” lo riprese di nuovo Tizio. L’uomo cercando di porre rimedio all’osservazione, questa volta si caricò la croce sulle spalle. “ A cussì porti a cruci?” lo riprese nuovamente Tizio. “Insomma, come devo portare la croce?” interloquì l’uomo che portava la croce. “Tenendola con le braccia alzate e a testa alta, perché chi tiene la croce, non deve vergognarsi di portarla, ma farsene una ragione” proseguì Tizio. Portare la propria croce, significa vivere il proprio calvario e nessuno sa meglio di noi siciliani cosa significhi portare la propria croce, fatta di mancato sviluppo, di promesse tradite, di risorse rubate, di politici corrotti o ignavi. Se fossimo orgogliosi di sentirci siciliani, la nostra croce dovremmo portarla a testa alta. Purtroppo siamo rappresentati da politici locali che ci fanno vergognare di portare la nostra croce e nessuno di noi ha imparato come portarla. Anzi per certi versi ci nascondiamo dietro la croce, dichiarandoci vittime ora di questo, ora di quel potere, che ci opprime o deprime. Forse è giunto il momento anziché di portare la croce, di brandirla come un’arma, per sconfiggere la nostra indifferenza, la nostra apatia, il nostro atavico vittimismo, in una parola di affermare il nostro diritto di esistere entro i confini di una nazione in cui la Sicilia non sia considerata un’isola, un’appendice geografica, ma parte integrante di una società e con pari dignità. La nostra atavica sonnolenza  e indolenza a costruire il nostro destino, ci fanno apparire inerti o rassegnati, ma nessuno si chiede di sapere il peso della croce che portiamo sulle spalle, che non  è lieve o irrilevante, perché c’è di mezzo la nostra dignità. Le apparenze spesso ingannano, perché come recita un vecchio adagio: “Cu ti pari ca dormi e si ripusa (non fa niente), porta a cruci chiù lausa”. L’importante, pertanto, non è abituarsi a portare la croce, come, da secoli, facciamo noi siciliani, ma imparare a farsene una ragione. Saro pafumi. Pubblicata su La Sicilia oggi 02.08.2015 FB 02.08.2015

la politica vista da un " quisque de populo"



La politica vista da un “ quisque de populo”.
Siamo talmente abituati a vedere l’Italia divisa in venti Regioni, di cui cinque a Statuto speciale, che immaginarne una diversa è quasi impossibile, principalmente perché ciascuno di noi si sente legato al suo territorio d’origine, che, per certi versi, è la sua identità e quella dei suoi avi. Vista la cosa dal punto di vista “dell’appartenenza” ogni ipotesi di cambiamento è impossibile. L’Italia politica è come un pollaio (mi scuso per il paragone irriverente), dentro il quale ci sono alcuni galli e molti pulcini, con il pigolio di quest’ultimi inascoltato, secondo l’antico detto: “ lassau dittu u puddicinu nta nassa, quannu maggiuri c’è, minuri cessa”. Del resto la storia d’Italia, dalla fondazione della Repubblica, fino ai nostri giorni, è stata un susseguirsi di messaggi inascoltati delle regioni piccole o politicamente insignificanti. “ La questione meridionale di antica memoria, tuttora irrisolta, docet! Un altro paragone, altrettanto irriguardoso, può definire l’Italia geografica, un grande condominio, nel quale chi è portatore di una manciata di millesimi conta poco o niente. La questione si potrebbe aggiustare se le venti regioni oggi esistenti si  riducessero a tre: Sud, Centro, Nord, senza privilegi o statuti speciali, ma ciascuna  identica all’altra, al nastro di partenza e non un raggruppamento di persone, che si riconoscono per la loro appartenenza territoriale, polverizzata e inconcludente. Oggi l’attuale situazione frammentata fa certamente comodo a qualcuno, ma si dimostra palesemente deleteria per altri, col paradosso che sono i pochi a imporre le scelte ai molti, col risultato che è sotto gli occhi di tutti. I Romani dicevano: “Divide et impera” Un motto sempre attuale, che la nascita della Repubblica, così com’è, ha accentuato e che i numerosi politici meridionali o meridionalisti non hanno mai saputo affrontare e risolvere. Saro pafumi. FB 11.12.2015

Come cambiano i tempi



Come cambiano i tempi
Con le bisacce ricolme su  asini dalle froge sbuffanti arrivavano, ogni giorno, di prima mattina, gli ortolani che dalla valle d’Alcantara si spingevano fino a Linguaglossa per vendere il frutto della loro quotidiana fatica. Ansiose massaie li attendevano sull’uscio di casa per risparmiare poche lire, ma anche per gustare la freschezza degli ortaggi, che, mani callose avevano strappato alla terra poche ore prima. Il segnale del loro arrivo era annunziato dal familiare strillonaggio delle loro primizie. Ogni massaia riconosceva il suo ortolano di fiducia dalla cantilena con la quale annunziava il suo arrivo. “Pipi e…..mulinciani…….. l’agghiu virdi aiu. Pigghiativilli”,  annunziava la voce squillante di don Giuvanni, attento a modulare la voce. La massaia apriva l’uscio annodandosi  “ u fantale” sui fianchi e, dandosi  una sistemata al fazzoletto che gli copriva la testa, Iniziava la contrattazione sfibrante, ripetitiva, monotona. “ A quantu mi passati i mulanciani?”. “Cincu, deci liri” . “U sapiti ca siti caraviogghiaru” era la risposta della massaia, che doveva tirare sul prezzo. “Frischi, frischi  e beddi russi sunu i pummadoru, cugghiuti  stammatina; na pennula cincu liri”, continuava don Giuvanni, in attesa che altre massaie s’affacciassero sull’uscio di casa a dargli manforte. Intanto mercanteggiando con le massaie che circondavano l’asino, era passato un buon quarto d’ora e don Giuvanni cedeva sul prezzo per avere il tempo di fare il giro del paese per finire di vendere la sua mercanzia. Più indietro  Don Sarbaturi, consapevole dei limiti della sua voce rauca, aveva scelto un altro mezzo di trasporto, il carrettino, ed era il suo asino ricco di sonagli a dare la sveglia e fare da richiamo. Egli non entrava in competizione col collega che lo precedeva. Altra era la sua mercanzia: lattughe, finocchi e smuzzaturi. Tri fasci, cincu liri.Don Sarbaturi tornando a casa non si trovava mai con i conti. Detraendo i fasci che regalava a donna Pippina, per la quale nutriva un debole, gli mancava sempre qualcosa. Lo scoprì col tempo, quando si accorse che nella ressa che circondava il carretto, donna Maria allungava le mani, nascondendo qualche fascio sotto il fantale. Ora tutto è cambiato. Gli ortolani sono scomparsi. C’è sempre qualcuno che offre per strada la sua mercanzia senza strillonaggi o sonagli: sono gli spacciatori che con l’antica arte della rappresentazione mimica negli angoli reconditi delle strade, complice un lampione spento o l’ombra della sera o più sfacciatamente alla luce del giorno dispensano la loro merce di morte. Una dose venti euro, due quindici. Non si curano della pancia come gli ortolani,  vogliono l’anima di chi è sprofondato nell’abisso del male. Cambiano le mercanzie, ma anche il linguaggio, da suadente e accattivante, a cinico e sprezzante. Di morte. Saro Pafumi FB  09.04.2015