mercoledì 30 novembre 2011

San Giorgio e la crisi


In questi giorni è stato dato risalto al biglietto indirizzato da Enrico Letta a Monti in cui si parla di “miracolo”, ossia del prodigio di mettere insieme maggioranza e opposizione nel sostegno al governo Monti. Fuori da ogni metafora e ipocrisia le ragioni del “miracolo” sono facilmente comprensibili: la maggioranza, trovandosi col fiato corto, non poteva passare alla storia come il governo che aveva portato l’Italia al default; l’opposizione, perché, pur sapendo di vincere le elezioni, non voleva essere il partito di lacrime e sangue. Questa combinazione di ragioni convergenti, sia pure opposte, ha realizzato “il miracolo italico” di dar vita a un governo tecnico, secondo la nota teoria delle convergenze parallele inventata da Moro. Il Santo che ha operato “il miracolo” non poteva che essere “San Giorgio”, protettore dei cavalieri (leggi: banchieri) che, racconta la leggenda, affrontò il drago (la crisi) e, incarcerato dall’imperatore Diocleziano, predisse sette anni di tormenti (leggi: per il popolo italiano). Condannato a morte risuscitò, operando il miracolo di risuscitare due persone (maggioranza e opposizione) per poi farle sparire, facendo posto al terzo polo tanto caro alla Chiesa. La leggenda si ferma qui, ma pare che San Giorgio sia risuscitato un’altra volta, Qualcuno giura di averlo visto al Quirinale. Pubblicata su La Sicilia il 30.11.2011 Saro

lunedì 28 novembre 2011

Quando ti riducono la pensione da 420 a 400 euro al mese...

Mi chiedeva, tra l’ironico e il sarcastico, un pensionato con 400 euro al mese, di spiegargli come sia possibile che la società, cosi detta civile, s’indigni per i tagli alla scuola, all’università, alla cultura, alla ricerca, ma non spenda una parola in favore di famiglie o individui costretti a cercare il cibo, come gli animali, per sopravvivere; come sia possibile che la società civile, provi pena per un cane randagio, ma non scorga le migliaia di clochard costretti a dormire coperti di cartoni sotto i ponti; come sia possibile che la società civile, si lamenti del caro vita, mentre le strade sono stracolme di spazzatura, segno evidente di un consumismo smodato e irrefrenabile; come sia possibile che la società civile provi fastidio nel vedere un accattone chiedere l’elemosina, ma non si accorga delle migliaia frugare furtivamente tra i rifiuti in cerca di qualcosa da mangiare; come sia possibile che la società civile protesti se la propria pensione aumenti solo del coefficiente ISTAT mentre al mio interlocutore gli era stata ridotta da 420 a 400 al mese.
Mentre i suoi occhi sollecitavano una risposta, la carità m’impediva di comunicargli il mio pensiero. “Prova a immaginare, gli risposi infine, “per consolarlo”, come possa vivere un burocrate con millequattrocento euro al giorno; un amministratore delegato di banca con tre milioni di euro l’anno; prova a immaginare quale fatica debba impiegare un personaggio televisivo che guadagna duecentocinquantamila euro a puntata o un parlamentare che deve tenersi occupato cinque anni per avere la pensione; prova a immaginare di non pensare soprattutto questo se vuoi continuare a vivere”. Pubblicata su La Sicilia il 28.11.2011Saro Pafumi.

venerdì 25 novembre 2011

Consigli da seguire per il disbrigo di una pratica

Primo: Fai uso di camomilla per affrontare con calma e serenità il travaglio che ti attende. Secondo: usa la gentilezza nel rivolgerti all’impiegato: “ Scusi se la disturbo e la distolgo dai suoi onerosi impegni, ma ho una domanda da rivolgerle (segue quesito). Terzo: essere brevi e concisi perché solo per il pubblico impiegato il tempo è denaro. Quarto: abbassare ripetutamente il capo , in silenzio, per ogni documento richiesto. Quinto: non chiedere mai se l’elenco sia completo, perché lo saprai, dopo le tante volte che ti sei recato presso lo stesso impiegato, aggiungendo o intercalando nuovi documenti. Sesto: confidare nella fortuna, perché se l’impiegato con cui hai trattato la pratica è assente, sostituito o trasferito, devi, come nel gioco dell’oca, iniziare tutto d’accapo. Settimo: non chiedere mai il tempo che ci vorrà per l’espletamento della pratica. L’impiegato, in questo caso allargherà le braccia che, bada, non è segno di sconforto, ma un indicatore senza tempo. Ottavo: annota i giorni e le ore di ricevimento, perché ogni ufficio ha la sua tabella di marcia, salvo s’intende riunioni sindacali, blocchi telematici, ponti, assenze per malattia (starnuti, naso che cola, mal di schiena, raucedine, stress post-festivo ….). Nono: evitare i mesi di luglio e agosto che nei calendari del pubblico impiego sono soppressi e non recarsi negli uffici pubblici prima o dopo il periodo feriale e nei giorni che precedono o seguono le festività natalizie e pasquali, perché nel pubblico impiego, in tali periodi si discutono i bilanci preventivi o consuntivi delle ferie appena trascorse o da trascorrere. Decimo: non gongolare in caso di esito positivo della pratica. Hai appena attraversato la soglia dell’inferno. Saro Pafumi

giovedì 24 novembre 2011

Il terzo polo, una iattura

La peggiore iattura che è potuta capitare all’Italia è stata la nascita del terzo polo, ossia la rinascita della “democrazia cristiana” che s’inserisce come cuneo tra i due poli. Per dirla in termini “boccacceschi” si è formato il classico “triangolo” con il terzo polo che veste i panni “ dell’amante” alla ricerca del maggior “piacere” (interesse) che può ricavare dall’incontro con l’uno o con l’altro polo, pronto a tradire a seconda della propria convenienza. Questo fenomeno non è nuovo, perché faceva parte, come sistema, della prima repubblica, con partitini del due percento che segnavano la sorte dei vari governi. Questo sistema tipicamente italiano ha debuttato con la fuoruscita dell’area finiana dal PDL contribuendo a determinare la proliferazione di gruppi e gruppuscoli, figli degeneri di questo sistema. Un po’ come avviene nelle convivenze civili, assistiamo, pertanto, alle “famiglie allargate” in cui la coabitazione, figlia dell’incrocio altalenante del terzo polo, determinerà, com’è prevedibile, una cronaca instabilità nella vita politica del paese. Tra figli naturali, adottivi e spuri siamo già a quota 34, messaggeri di proposte e richieste che il neo presidente del Consiglio ha dovuto sorbirsi nelle sue consultazioni. Avevamo saluto la discesa in campo di Berlusconi, perché portatrice dell’alternanza, miseramente disgregata dalle forze centrifughe messe in campo dal terzo polo. Se il buon giorno si vede dal mattino, accantonata l’esperienza Monti, se ciò dovesse avvenire, si ripiomberà, com’è logico nel vecchio modo di fare politica. A questo punto se il governo Monti dovesse centrare i suoi obiettivi, non sarebbe il caso di continuare quest’esperienza? Del resto la democrazia, fondata sul consenso popolare, in Italia è continuamente disattesa, prova ne sia che a governi in carica non corrispondono quasi mai quelli eletti (la Regione Sicilia è d’esempio) e lo stesso deputato eletto ha il diritto di cambiare casacca a suo piacimento senza nessuna conseguenza negativa sul suo comportamento. Per dirla “alla Scalfaro: “ Non ci sto” a questo vecchio modo di fare politica, né mi costa rinunziare a questo surrogato di democrazia . A volte un padre adottivo (presidente nominato) può essere più utile di un padre naturale (presidente eletto), anche se con la democrazia il primo centri come i cavoli a merenda.
Pubblicata su La Sicilia il 24.11.2011 Saro Pafumi

lunedì 21 novembre 2011

Linguaglossa, antico palazzo che andrebbe recuperato

Questa rubrica ha tante volte gentilmente ospitato miei appelli rivolti all’amministrazione comunale di Linguaglossa perché manifestasse maggiore attenzione alla tutela delle facciate del Centro storico, biglietto da visita per i numerosi turisti e visitatori di questo paese. Nulla si è fatto e temo che nulla si farà, perché con la congiuntura economica in corso “convincere” i proprietari è pura utopia. Purtroppo quando le iniziative non sono tempestive, il decorso del tempo non gioca mai a favore. Occorre però richiamare l’attenzione dell’amministrazione comunale almeno su di un particolare palazzo (ex proprietà Del Campo) che si affaccia sulla piazza principale, che merita qualche attenzione particolare, trattandosi di un edificio che fronteggia la Chiesa Madre. Convincere i proprietari a fare qualche ritocco, in particolare a eliminare il limo che copre la facciata, non sarebbe opera onerosa, considerata la sensibilità degli attuali proprietari verso il bene della cosa comune. Tentare non nuoce. Spesso le parole, quando sono accompagnate dalla grazia di che le pronunzia (Sindaco), hanno il magico dono di trasformarsi in azioni. Almeno questa è la speranza. Linguaglossa 095/647245. Saro Pafumi Pubblicata su La Sicilia il 21.11.2011

martedì 15 novembre 2011

Italiani e........basta.

Quando mi è capitato di andare nel Nord Italia, spesso la prima domanda che mi era rivolta era: “ Scusi, Lei di dov’è? “ Siclianu sugnu !” rispondevo, già prevedendo la risposta ch’era sempre la stessa: “ allura, mafiusu è !”. Come siciliano toccava sorbirmi quest’epiteto, talvolta detto con simpatia, altre volte meno. Stessa sorte, purtroppo, tocca agli italiani in genere che, all’estero, sono marchiati con qualche altro colorito epiteto: “traditori” per via di certe voltafaccia nella seconda guerra mondiale, oppure” pasticcioni”, “superficiali” “inaffidabili”, “indisciplinati” “chiassosi”, “sporcaccioni”, “tangentisti”, “opportunisti”, furbetti di quartiere” e chi ne ha più ne metta. Col nostro comportamento non facciamo altro che avallare questo tipo di pregiudizi che sappiamo reali, anche se ci offendiamo se qualcuno ce li ricorda. La politica, che è la cartina tornasole del nostro carattere italico, contribuisce non poco a rafforzare queste nostre “prerogative”. Gli ultimi avvenimenti hanno allungato la lista dei nostri difetti: voltagabbana, trasformisti, transfughi, pentiti. L’arte del pentimento ci riguarda tutti, perché generale e generalizzato. Non c’è aspetto del vivere civile che non sia affetto dalla comoda moda del pentimento: dal pentito di mafia al pentito politico, dal pentito omicida al pentito evasore, volgarmente chiamato “ ravvedimento operoso”. Il pentimento affonda le radici nel cattolicesimo e la sua più alta espressione è l’atto di dolore. accompagnato da tre lievi colpetti della mano sul petto, quasi a sugello del proposito fatto, salvo a vanificarlo una volta fuori dal sagrato. Mi chiedo: Quand’è che noi Italiani ci riprendiamo la nostra dignità, felici di essere chiamati Italiani e….. basta?
Pubblicata su La Sicilia il 15.11.2011 Saro Pafumi

sabato 5 novembre 2011

Liberalizzare cosa e quando.

I partiti si sgolano annunciando, in caso di vittoria, le più ampie liberalizzazioni nel campo delle iniziative economiche. Per comprendere il significato del termine “liberalizzazione” bisognerebbe entrare nella testa dei politici, perché non ostante i tanti proclami, le cose rimangono invariate e la confusione su questo tema è troppa. Le resistenze delle varie corporazioni, com’è ovvio, sono diverse, cosicché nessuno passa dalle parole ai fatti. Lo slogan più gettonato? Tutto ciò che non è vietato dalla legge è permesso. Il che è come dire: non fare nulla, perché nel Bel Paese anche se vuoi mettere una sedia davanti al tuo negozio devi essere munito di licenza. In questo nostro Pese è vietato persino lavorare. Esempio: i benzinai. Questa categoria è costretta, in taluni casi, a mantenere chiuso il proprio punto vendita addirittura tre giorni in una settimana. D’accordo che per un cristiano “ ricordati di santificare le feste” è un comandamento, ma tre giorni di riposo non li prescrive, a un paziente che sta in salute, nemmeno il medico. E poi si sa: il riposo genera spese, perché paradossalmente il tempo libero, che presso gli antichi romani era dedicato alle cure della casa, dell’orticello, oppure allo studio. oggi è impiegato per vagare in auto in cerca di una meta, qualunque essa sia, pur di evadere, ma in molti casi “ a rompere le palle” agli altri: fare incetta di castagne o di olive nei fondi altrui, sbirciare nelle case di campagna abbandonate alla ricerca dell’ultimo chiodo conficcato nel muro. Le uniche attività libere in questo nostro Paese sono quelle in nero o quelle dei cinesi che non osservano orari e giornate di chiusura. Personalmente una richiesta da fare l’avrei: liberalizzate almeno il lavoro, perché in primis questa “fatica” è medicina e poi si sa chi produce paga più tasse o si vuole vietare di osservare anche quest’obbligo? Possibile che occorre invidiare i cinesi che in questo nostro Paese sono liberi di fare ciò che vogliono nei loro esercizi? Per favore, rendeteci, almeno gli occhi a mandorla!
Pubblicata su La Sicilia il 05.11.2011. Saro Pafumi

venerdì 4 novembre 2011

"Alla sbarra" un termine giornalistico medievale

Comprendo l’esigenza del giornalismo di usare titoli quanto più sintetici ed espressivi, ma mi si consenta l’osservazione, trovo di cattivo gusto l’espressione sovente usata: “ alla sbarra” per indicare un imputato anche solo iscritto nel registro degli indagati. Per “sbarra” s’intende la divisione di ferro esistente nelle aule giudiziarie per dividere gli imputati dai giudici. Da qui l’origine del termine. Vada, pertanto, quando il termine è usato nel caso d’imputati realmente ristretti nella gabbia, come talvolta si vede nelle aule giudiziarie, ma quando esso è usato per indicare un imputato rinviato a giudizio, o semplicemente indagato il termine, mi sembra non solo poco appropriato, ma addirittura di cattivo gusto, “medievale”. L’imputato è sempre soggetto alla presunzione d’innocenza. L’espressione linguistica non è solamente forma, ma anche sostanza, stile, civiltà e ogni parola ha il suo peso. La dignità di un uomo resta tale anche quando veste i panni dell’imputato. Lasciamo perciò che il termine sia usato espressamente e limitatamente in caso di persone che “visivamente” sono ristrette entro le gabbie, che spero la civiltà un giorno non lontano, le spazzi via, sostituendole con divisioni un po’ meno mortificanti, qualunque sia il reato che si giudica.
Pubblicata su La Sicilia il 04.11.2011. Saro Pafumi.

mercoledì 2 novembre 2011

Spesso i titoli dei giornali tradiscono il contenuto

I tanti professori d’italiano che ho avuto l’immeritato piacere d’incontrare nella mia carriera scolastica mi hanno insegnato, oltre alle tante regole da rispettare nello scrivere, anche la forma. L’uso appropriato degli aggettivi era una raccomandazione frequente, perché l’aggettivo, sostenevano, serve a vestire il sostantivo della qualità che l’accompagna, come avviene con un abito che, se ben confezionato, sembra essere cucito addosso a chi lo indossa. Questa breve premessa nasce dalla constatazione che chi scrive sui giornali speso dimentica questa regola e a volte usa, per brevità, termini impropri, tali da modificare radicalmente il senso dell’argomento trattato. Quando, per esempio, ascolto o leggo che il governo ha reso i licenziamenti più “facili”, m’interrogo se quest’espressione sia aderente alla realtà. Poi magari nel leggere l’articolo si scopre che il licenziamento è limitato ai casi in cui l’azienda versa in cattive condizioni economiche, talchè il licenziamento, verificate le asserite condizioni di disagio, è reso possibile dalla legge. Non è di tutti, purtroppo, approfondire il contenuto di un argomento giornalistico, per cui quel “facile” che accompagna il titolo genera o può generare nel lettore confusione, disorientamento, apprensione. Spesso nel confezionare un articolo si dovrebbe fare come con le medicine: accompagnare l’articolo con la raccomandazione di leggere le indicazioni d’uso, ossia di usare la precauzione di leggerlo per intero, perché il titolo, a volte, può essere fuorviante.
Pubblicata su La Sicilia 02.11.2011. Saro Pafumi