venerdì 30 settembre 2011

Non giudicate e non sarete giudicati, perché......

Gesù disse ai suoi discepoli: “Non giudicate e non sarete giudicati….perché con il giudizio con il quale giudicate, sarete giudicati”. Vediamo di applicare questa massima di Cristo alle dichiarazioni del cardinale Bagnasco sull’etica della politica italiana. La chiesa di recente ha attraversato vere turbolenze etiche con le vicende dei preti pedofili che hanno coinvolto alti prelati delle Chiesa universale. Come ha reagito la Chiesa innanzi a questi fatti criminosi? Condannando senza appello chi si è macchiato di simili disfatti e pretendendo nel caso di alti porporati le loro dimissioni. Personalmente mi sarei aspettato un po’ di più. Avrei chiamato i personaggi coinvolti, gli avrei “strappato” di dosso i loro abiti talari, riducendoli allo stato laico, consegnandoli quindi alla giustizia laica per essere giudicati, ammantandoli poscia del perdono cristiano secondo i dettami della dottrina cattolica. Un’azione questa che sarebbe stata capita e condivisa dal mondo laico, perché errare umanum est, con le conseguenze, però, che l’errore comporta sul piano etico e penale. Nulla di tutto questo secondo la teoria del più alto rappresentante della Chiesa, secondo il quale sono altri i metodi con i quali questi casi sono giudicati dalla Chiesa. Poiché però la Chiesa è comunità di cristiani in carne ed ossa e la morale deve essere unica e universalmente applicata, personalmente non condivido questo punto di vista e sono tra coloro che dinanzi a questi fatti sono “capiti” se si allontanano dalla Chiesa, come in una recente dichiarazione ha dovuto ammettere lo stesso Papa. Nonostante siano passati oltre duemila anni dalla venuta di Cristo, trovo affascinante, realistica, giusta e attuale la massima: “ ……perché con il giudizio con il quale giudicate, sarete giudicati”. E rigorosamente mi attengo ad essa, nonostante tutti i possibili “se” e “ma” che la Chiesa vorrebbe introdurre nella sua interpretazione.Pubblicata su La Sicilia il 12.10.2011 Saro Pafumi

lunedì 26 settembre 2011

Pubblicazione elenco gay. Tanto rumore per nulla

Secondo una certa corrente di pensiero, che condivido, l’essere gay non rappresenta sul piano squisitamente umano nulla da rimproverare a chi questa condizione riveste. Semmai non sono da condividersi alcune esternazioni pubbliche della “condizione gay”, vere carnevalate in senso assoluto. Ma anche sotto certi aspetti questi eccessi folkloristici si possono comprendere perché rientrano nell’ambito di una legittima provocazione contro chi questa condizione non riconosce o detesta. Detto ciò, non si comprende la polemica sorta attorno alla pubblicazione di un elenco di presunti uomini gay che ha scatenato la reazione indignata degli interessati e di una certa opinione pubblica. S’invoca la privacy violata e il diritto alla riservatezza. Se la condizione gay è da ritenersi pefetttamment5e normale, perché nulla toglie alla condizione dell’essere “persona” in senso umano, c’è da stupirsi delle reazioni scomposte, a meno che quel che si dice e si predica in pubblico non si pensa nel privato, facendo ricorso a quell’odioso esercizio delle riserve mentali, con le quali si dice una cosa e si pensa l’esattamente l’opposto secondo quel pensamento ipocrita al quale facciamo ricorso per trarci d’imbarazzo in certe situazioni scottanti. Se così fosse non è la condizione gay di cui vergognarsi, ma di questa nostra condizione mentale ondivaga e bivalente, autentica, vera nefandezza del pensiero umano.
Pubblicato su La Sicilia il 27.09.2011. Saro Pafumi

Piano Provenzana Cinque domande che attendono risposta

Ci sono eventi naturali incontrollabili: terremoti, inondazioni, eruzioni vulcaniche come quella che nl 2002 ha distrutto Piano Provenzana. Eventi di per sé imprevedibili e ingovernabili, Ci sono poi gli eventi causati dall’egoismo o dall’incuria dell’uomo: guerre, devastazione della natura, solo per fare alcuni esempi. Ci sono però eventi umani causati da fatti o atti omissivi altrettanto calamitosi che si aggiungono ai primi contribuendo a rendere la realtà più torbida. Sono questi ultimi i più pericolosi perché ripetitivi, scientemente perpetrati e per nulla giustificabili. E’ su quest’ultimo tipo di calamità che vorrei formulare cinque domande a chi si occupa di rilancio turistico dell’Etna Nord. Chiedo ai Sindaci del comprensorio, alle autorità preposte alla tutela, vigilanza e sviluppo del territorio, agli operatori turistici:
Primo: Per quale motivo dopo nove anni dall’eruzione del 2002 che ha distrutto la quasi totalità delle strutture recettive ancor oggi non c’è la benché minima traccia di insediamenti turistici?
Secondo: Le aree edificabili sono state assegnate agli operatori interessati alla loro realizzazione?
Terzo: Il ritardo è imputabile a cause naturali o a comportamenti omissivi?
Quarto: Le autorità preposte alla vigilanza hanno messo in mora i concessionari, ricorrendo alla revoca delle concessioni, in caso di ritardi immotivati?
Quinto: Cosa s’intende attuare per uscire da questo immobilismo produttivo e labirinto burocratico?
Pubblicata su La Sicilia il 26.09.2011. Saro Pafumi

sabato 17 settembre 2011

Dottore si diventa, ma talvolta può essere una scelta sbagliata

La lettera di E.Torrisi “Sono stanca” pubblicata su questo quotidiano (14.09 pg.31) è un condensato di delusioni che non risparmia niente e nessuno. Eppure, non aggiunge nulla di nuovo alle note amarezze di chi è alla ricerca di lavoro. Amarezze con le quali i giovani condiscono giornalmente le preghiere mattutine, quasi fossero altrettante suppliche rivolte alla Divinità che li ascolta. Problemi e ansie che accompagnano da molto, troppo tempo, non solamente i giovani, ma chi è alla ricerca d’un posto di lavoro. Da più parti quando si parla di lavoro, s’invoca l’art. 1 della Costituzione. “ L’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro” sul falso presupposto che il testo consideri il lavoro un “diritto”, mentre il termine è da intendersi come “valore”. Da questa errata interpretazione, l’amarezza di chi non trovando lavoro, lo considera la negazione di un diritto. Il lavoro è come il cibo: ciascuno deve trovare il modo di procurarselo. La difficoltà nasce non dalla mancanza di offerta, ma dalla domanda che è unica e quando si è in molti a volere la stessa cosa, la ricerca diviene affannosa e/oi inutile. Se in mille vogliamo andare al cinema e i posti a sedere sono cinquecento, è ineluttabile che la metà rimanga fuori, anche se teoricamente ciascuno ha il diritto di entrare. Viviamo in un' epoca in cui la regola, anche in tema di libertà, è il paradosso. Esempio: S’invoca il diritto di fare entrare i cani nei ristoranti. Se un ristorante ha 1oo tavoli che moltiplicati per quattro posti a sedere, può contenere quattrocento commensali e ciascuno porta con sé il proprio cane troveremo quattrocento commensali e altrettanti cani. Il diritto mi consente di portarmi appresso il cane, ma la logica non lo consente e la realtà ancor di più. Ciò significa che anche la libertà ha un suo limite e il lavoro non fa eccezione. Si può essere stanchi per mille ragioni, ma di solito si è stanchi per avere sbagliato in qualcosa: a volere considerare la laurea, per esempio, un diritto a ottenere il lavoro e non un investimento su e per se stessi. La stanchezza è un indebolimento delle proprie forze, ma fortunatamente non è irreversibile. Non comprendo la tragedia di chi l’espatrio lo considera una punizione. Ho conosciuto amici napoletani convintissimi di non lasciare Napoli nemmeno a cannonate, e altri amici che, emigrati, non vorrebbero fare ritorno nemmeno a cannonate. La stanchezza è una condizione di debolezza psicologica. Nessuno nasce dottore, avvocato o insegnante Si diventa e la scelta talvolta può essere sbagliata. Nel secolo scorso i nostri progenitori hanno fatto la scelta, costretti dalla “pancia”, di andare via dal Bel Paese. Oggi che il problema “pancia” non esiste la scelta diventa più traumatica. Da qui la tragedia di molti giovani che non vogliono tagliare il cordone ombelicale che li collega al proprio territorio o ai propri affetti. Un buco nero dal quale occorre uscire per non esserne inghiottiti e la riuscita dipende dall’uso che ciascuno fa della propria intelligenza. Lo studio serve a questo.
Pubblicata su La Sicilia il 17.09.2011 Saro Pafumi

venerdì 16 settembre 2011

Il triste destino della cassetta della posta

Cara cassetta (della posta),
in metallo, legno, ghisa che tu sia, quanto impegno nello sceglierti e curarti che, appesa al portone di casa il mio nome ben inciso portavi, fiera, sul tuo ombelico. La sera, al mio rientro a casa, il mio primo pensiero era d’esplorare nel tuo ventre alla ricerca di lettere o cartoline d’amici che rinfrancassero la mia mente o sollevassero il mio spirito. Tu, statica e muta, scrutando, furtiva, il mio volto, capivi se la missiva che custodivi era per me di gioia o di dolore. Ospitale com’eri, non rifiutavi nessun foglio, segretaria discreta, lettere o tasse che fossero. Oggi, purtroppo, quando apro il tuo ventre, non trovo più messaggi scritti di amici, parenti o conoscenti, che altre aride vie informatiche hanno scelto per notiziarmi (sms. i.mail. fax), ma depliants, brochures, avvisi pubblicitari che farciscono il tuo ventre, fino a soffocarti, chè lingua di carte attorcigliate mostri fuor dalla bocca, come d’impiccata. Da amica, che eri, confidente e riservata, sei ritornata a essere solo una cassetta inanimata in metallo, in legno o in ghisa che tu sia. Il mio nome che, sbiadito, porti ancora scritto sull’ombelico è solo ricordo di un’amicizia finita, d’un vincolo d’amore passato. Da custode e messaggera di notizie, sei diventata semplicemente una cassetta in legno, in metallo, in ghisa, inanimata, qual ’eri, come ti ho conosciuto, confusa e mescolata tra mille disordinate ferramenta impolverate. Pubblicata su La Sicilia il 14.09.2011. Saro P

domenica 11 settembre 2011

Quando il latte veniva munto sotto casa



“ Se mi volete fornire due litri di latte al giorno. caldo dev’essere, senza schiuma e alle sette di mattina” disse don Piipinu “spaventu” che abitava a due passi dalla chiesa madre. Pronuziò quelle poche parole con tono risoluto, rivolgendosi col “voi”, per stabilire le distanze, al capraio che conduceva in pascolo le sue terre. U Zu Giddiu che di mestiere faceva il capraio a domicilio, quell’ordine aveva dovuto subirlo senza batter ciglia. “ Senza schiuma”, come lo pretendeva don Pippinu, “ca scumazza” come voleva fornirlo u zu Giddio, la differenza non era trascurabile, perché scumazza oggi, scumazza domani, zu Giddio, “sodu, sodu”, s’’era costruita mezza casa A fine mese quando zu Giddiu presentava il conto a scumazza c’entrava e come, perché don Pippinu non era tipo da farsi infinocchiare. Le grida si sentivano in tutto il quartiere, perché è vero ca scumazza c’era ma non nella percentuale che don Pippinu calcolava. Il nomignolo “ spaventu” a don Peppino gli era stato affibbiato dagli amici del circolo dei civili, perché non c’era discorso che don Pippinu iniziasse o finisse, senza quel sostantivo: “spaventu! aumentanu i tassi”, spaventu! calau u prezzu du vinu; non se ne può più, chi spaventu!…..” U zu Giddio ca viddanu era, ma di cervello fino, aveva trovato il modo di vendicarsi con don Pippinu che secondo lui voleva “sparagnari troppo supra a peddi ‘i puvireddi”. A quel tempo le capre circolavano per il paese, munte sotto il portone di casa dei signorotti che il latte pretendevano, caldo e cremoso. Poiché le capre come tutti gli esseri umani fanno i loro bisogni, u zu Giddiu faceva in modo che defecassero proprio sotto il portone di don Pippinu, lasciandovi un tappeto d’escrementi che ogni mattina la serva si scomodava di rimuovere tra le imprecazioni del padrone che gridava: spaventu! nun si nni po’ cchiù di stu zimmuru di capraru!”. Se u zu Giddiu aveva perso “la battaglia da scumazza”, don Pippinu non era stato vittorioso sull’altro fronte, perché quando u zu Giddiu passò a miglior vita, davanti al portone di don Pippinu le cose mutarono radicalmente. Non c’era più, è vero, quel tappeto d’escrementi che tanto faceva infuriare don Pippinu, ma nemmeno quel latte, caldo cremoso, con o senza schiuma, che don Pippinu adorava. La morte s’era portato via u zu Ggiddiu insieme al suo latte che per don Pippinu, nato signorotto, a sentir lui, aveva un sapore speciale, perché, sosteneva, proveniva dal pascolo delle sue terre ch’erano “roba sua” come “roba sua” era anche il latte che producevano le capre. Saro Pafumi

giovedì 8 settembre 2011

Quando con poco grano seminato si sfamava la famiglia


Don Carru “malaspisa”, da suoi genitori aveva ereditato solo lo scomodo di fargli i funerali, “poviru ‘ncanna” era. Quelle due o tre salme di terreno che possedeva se l’era dovute sudare per averle in gabella da un signorotto del paese che, cu travagghiu di don Carru, ci mangiava anche lui. Quel terreno solo lui se l’era potuto caricare in groppa: argilloso e collinoso, com’era, non faceva gola a nessuno. Don Carru, però, che il cervello fino del padre aveva ereditato, quello sì, aveva capito che con quelle poche salme ci poteva sfamare l’intera famiglia, coltivandole a grano. In un’epoca in cui per acquistare un chilogrammo di pane bisognava piegare la schiena dall’alba “a basciura” fino a morirci di stanchezza, la fatica non consentiva di raccontarla agli altri, perché a sera di fiato rimaneva solo quello per respirare. Don Carru trascorreva la sua vita tra aratura, semina e mietitura e quando “ a gialla” o “ a niura” non gli distruggevano il raccolto poteva finalmente raccogliere quello che il suo sudore aveva seminato. La fatica di don Carru non finiva con la semina, “ u lueri” doveva pagare e con gli uccelli, quando il grano s’indorava, era giornalmente in guerra, dall’alba al tramonto, perché oltre a don Carru erano in troppi ad avere fame: la moglie, gli otto figli e migliaia di uccelli che quel grano volevano più e meglio di don Carru che l’aveva seminato. Passiri, cardiddi, virduni, carannuli un incubo per don Carru. Col campanaccio in mano e sotto un sole che gli arrostiva la pelle e gli cuoceva i polmoni don Carru se ne stava accovacciato, nascosto tra le spighe, a scampanare di continuo , accompagnando il frastuono con un grugnire stridulo come di maiale in procinto d’ essere scannato, più che per dissuadere gli uccelli, per implorarli, ché figli aveva anche lui da sfamare. Poi a sera quando gli uccelli avevano, per stanchezza o pietà, smesso di rubargli quel po’ di grano, don Carru abbandonava i panni del campanaro e si affidava agli spaventapasseri che sparsi in lungo in largo in mezzo al campo, vestiti dei suoi panni a don Carru in croce somigliavano. Quando la luna si affacciava, sorniona, tra i rami di un’alta quercia, arrostito dal sole, don Carru, In groppa al suo asino, anch’esso stordito dal monotono, sordo scampanare faceva ritorno a casa, ma col pensiero rimaneva accovacciato in mezzo alle sue spighe, che la mattina successiva contava una a una, come i sospiri che mandava al Cielo tutte le volte che un uccello cacciava dal suo grano. Saro Pafumi