venerdì 30 aprile 2010

La pazienza, una dote che abbiamo in abbondanza

Il termine “paziente” dal greco “pathos”, significa dolore ed è usato in medicina per indicare chi soffre, chi sopporta, chi tollera, nel significato più ampio chi è in cura da un dottore.
Oggi il termine dovrebbe travalicare gli stretti confini della medicina per abbracciare tutti gli accadimenti del mondo reale. La sofferenza non riguarda più esclusivamente il mondo del dolore, ma è pane quotidiano.
Come si potrebbe definire chi sta in coda per ore alle Poste, il pendolare costretto a viaggiare quotidianamente in piedi o stipato come un’acciuga, chi chiede che un suo diritto sia riconosciuto, chi è in attesa di un rimborso o della definizione di una pratica, chi cerca un lavoro o semplicemente un parcheggio? Paziente, appunto. La pazienza è la dote che ci accomuna, il segno che ci contraddistingue, la qualità che ci caratterizza. Il meridione ne ha così tanta da poterla esportare. La mattina, quando si esce da casa, occorre avere le tasche piene di pazienza: l’impiegato contro l’utente insolente; l’utente contro l’impiegato scortese;
l’automobilista contro chi sorpassa a sinistra o chi aziona il clacson, perché chi lo precede anticipi la partenza al semaforo.
Meno male che qualche buontempone utilizza il, termine “pazienza” per ricamarci sopra qualche battuta a doppio senso, come su quell’avviso affisso in un ambulatorio medico dove si poteva leggere: “ Il dottore riceve “i pazienti” solo la mattina” sul quale qualcuno aveva aggiunto a mano: “I nervosi”, subito” o quella più umoristica e dissacrante leggibile su un necrologio cittadino: “ E’ deceduto oggi…il sig…………………. padre premuroso e marito paziente”. Qualcuno aveva con un segno di matita depennato “paziente” disegnandoci sopra un pugno chiuso con l’indice e il mignolo in posizione verticale ( fortunatamente con l’aggiunta del punto interrogativo).
La pazienza è o dovrebbe essere la dote dei forti, proverbiale quella dei contadini, ma guai a possederla in dosi esagerate, perchè si sconfina nella rassegnazione, che è l’anticamera dell’umiliazione, quella con cui si convive tutti i giorni, supplicando che ci sia riconosciuto quanto ci spetta, sia come individui, che come collettività.
Pubblicata su La Sicilia il 30.04.2010 Saro Pafumi

giovedì 29 aprile 2010

Le pietre sui binari della Circum

Pubblicata 29.04.2010
L’abitudine di mettere pietre sui binari per fermare o ritardare la corsa della Circum che trasporta gli studenti a scuola, da quello che si legge su La Sicilia, si ripete di tanto in tanto, mettendo a repentaglio l’incolumità di quanti usano questo mezzo. Pare che simili atti siano da addebitare all’azione di qualche studente che intende marinare la scuola. L’ipotesi è più che probabile, perché coincide con la corsa mattutina che trasporta gli studenti. Una simile condotta più che scema è delittuosa e i genitori farebbero bene a seguire i comportamenti dei propri figli, specie di quelli che con la scuola hanno un rapporto non precisamente idilliaco. Se scoprissi che mio figlio è uno di quelli che “scherzano” con le pietre sui binari, come padre non andrei certamente a denunziarlo, ma gli farei un discorsetto del genere: “Preso atto che a scuola non ci vuoi andare, non è il caso di farci sopra un dramma, né mi sembra meritorio mettere le pietre sopra i binari e per quello che oggi vale “il pezzo di carta” non è il caso che ti sacrifichi più di tanto. Vuol dire che da domani ti compro un bel trincetto e una lesina e ti metti a fare lo “scarparo”.
Anzi ti prometto, mettendogli la mano sulla spalla, che fino a quando non raggiungerai la maggiore età, sarai a mio carico. Dopo, Cassazione permettendo, spero che mi solleverai da quest’obbligo e ti formerai una famiglia, con l’affettuoso augurio che un padre ti possa fare”.

saro pafumi

sabato 24 aprile 2010

Linguaglossa, un paese in penombra

Chi abita in un piccolo paese, Linguaglossa è uno di questi, si guarda attorno per vedere la realtà che lo circonda. Una realtà variegata fatta di piccole e grandi cose: qualità della vita, occupazione, prospettive, tenore di vita, sicurezza, pulizia, oltre a tutti quegli elementi che concorrono a fornire un quadro quanto più aderente alla realtà.
Valutando due di questi elementi, i più incisivi, occupazione e prospettive, il paese di Linguaglossa può considerarsi in coma profondo. Non una diagnosi pessimistica questa, ma basata su considerazioni e dati reali che prescindono dal mancato sviluppo del territorio collegato al turismo sull’Etna, fermo da oltre otto anni che da solo non può trainare l’intera economia del paese. Vediamo il perchè.
Linguaglossa è un fazzoletto di terra racchiuso tra due camice di forza: la Sovrintendenza e il parco dell’Etna, oltre che sottoposto alle tante leggi ordinarie. Ciò significa che qualsiasi iniziativa: il semplice restauro di un ricovero agricolo, l’apertura di un lucernaio sul soffitto, il cambio del pavimento all’interno dell’abitazione, la costruzione della cuccia per il cane, il taglio di un albero, necessitano di progetti e nullaosta. Autentiche forche caudine che scoraggiano, impedisco o azzerano qualunque iniziativa o proposito.
Come se ciò non bastasse, tutto il territorio è sottoposto ad una serie d’altri vincoli derivanti dalla presenza d’aree boschive ( talvolta presenti solo sulla carta), pozzi idrici, aree cimiteriali, distanze stradali, il tutto sotto il vigile controllo di una burocrazia che del “diniego” contro ogni iniziativa ha fatto e fa la sua parola d’ordine.
In un Comune che si rispetti dove gli organi preposti sono o dovrebbero essere a servizio dei cittadini, ogni privata iniziativa che collida o sembri collidere con la legge può essere oggetto d’approfondita valutazione in contraddittorio con la parte richiedente, al fine, ove possibile, di trovare un’alternativa o una giusta soluzione. Nulla di tutto ciò avviene nella Casa comunale di Linguaglossa che in quanto “casa” e in quanto “comune” è o dovrebbe essere aperta ad ogni cittadino. Situazione peraltro da tempo aggravatasi per la precaria presenza di funzionari ( ragioniere capo e segretario comunale) che non trovano un assetto definitivo, con conseguente disordine e/o ritardo amministrativo ad esso collegato.
La politica a Linguaglossa è intesa, dai più, come ricerca di persone disposte a candidarsi per amministrare il paese. Sotto questo profilo i candidati non mancano, anzi sono troppi. Quel che manca o di cui non si sente parlare sono le idee e come affrontare i tanti problemi di Linguaglossa: bilancio comunale, tariffe, riscossione di tributi, circolazione stradale, manutenzione di strade cittadine e rurali, problema idrico a Borgata Catena ( non solo), rete idrica fatiscente e, cosa molto importate per un’amministrazione che si rispetti assetto impiegatizio da rifondare, in quanto ad uomini e mentalità.
Senza un approfondito esame dei tanti problemi che assillano Linguaglossa e un sereno esame di coscienza da parte di chi vuole candidarsi alla sua guida non si approda a nulla. L’alternativa è rassegnarsi a vedere dirottare, così come di fatto avviene, verso paesi vicini, Castiglione e Piedimonte ogni iniziativa che riguardi Linguaglossa, un paese, da troppo tempo in penombra.
Saro Pafumi

venerdì 23 aprile 2010

Il senso della misura

“Ci manca il senso della misura”, mi diceva un amico, commentando le statistiche, secondo le quali noi italiani siamo sempre più poveri. In quest’affermazione c’è del vero.
Basta guardarsi in giro o ascoltare i “fuori onda” di chi parla.
A parole tutti ci lamentiamo dello scarso potere d’acquisto di cui disponiamo, ma nei fatti i nostri comportamenti sono diametralmente opposti.
Gli esempi non mancano. Un nuovo modello di vettura cattura subito la nostra attenzione e anche se possediamo un’auto nuova, farci un pensierino non fa male, Il cellulare, anzi i cellulari, meglio se intonati al colore della cravatta o del foulard; i modelli “ultima generazione” sono i preferiti, perché quel che importa non è la comodità, ma la moda; le scarpe, rigorosamente firmate e se “respirano” ancora meglio; quelli dei bambini devono essere con luci incorporate, nell’attesa che esca il modello “sonoro”; che vuoi che sia una pizza del costo di cinque euro portata a casa, che moltiplicata per cinque. quanti i componenti familiari, fa venticinque, l’equivalente di cinque chili di tritato, sufficiente a sfamare una famiglia per un’intera settimana; la benzina costa troppo? Un problema che riguarda chi con l’auto ci deve lavorare, quelli che la usano per passeggiare il prezzo non li riguarda. Con la crisi i consumi rallentano, le commesse diminuiscono e la richiesta di manodopera si fa più rara? Il commerciante e l'artigiano il rimedio lo hanno a portata di mano: il primo se vendeva “cento” a un euro, ora vende “ottantatré” a un euro e venti, il secondo se guadagnava cento euro al giorno per una settimana, con la crisi ne pretende centocinquanta per quattro giorni; i lavoratori a reddito fisso, quelli più penalizzati, ma chi ha un certo potere “il regalino” non lo disdegna, tanto……….. per arrotondare; restano i pensionati. i quali tra figli. nipoti. generi e nuore i soldi nemmeno li vedono, infine ci sono i furbi che guadagnano al netto di tasse e i lavoratori in nero, due volte invidiati: a loro il lavoro non manca, perchè possono essere competitivi e in quanto a pagare le tasse, anche volendo, sono obiettivamente impediti.
Sopra ogni cosa c’è lo Stato e gli Enti che impongono le tasse. A parole sono in favore dei cittadini, ma ogni giorno, aumentano le tariffe, poco alla volta, per non fartene accorgere. Certo il progresso non si può arrestare, si deve solo subire.
Sta a noi trovare come applicarlo, ma è la misura che ci manca.
Pubblicato su Lo dico a La Sicilia il 22.04.2010
Saro Pafumi

mercoledì 21 aprile 2010

I cimiteri nel circuito turistico





“Elogio di un cimitero” pubblicata il 17/04/su Lo dico a LaSicilia mi suggerisce una riflessione sui tanti cimiteri che abbiamo avuto l’abitudine di costruire nelle varie zone di questo nostro paese.
Chi vi entra rimane stupefatto dalla grandiosità delle opere realizzate, tombe o cappelle gentilizie che siano, ma soprattutto rimane allibito per le ingenti somme profuse.
Da sempre c’ è stata e continua ad esserci una specie di mania a costruire la tomba più artistica o meglio addobbata per onorare al top il proprio caro defunto, ma in realtà col segreto intento di stupire o di paragonarsi, ispirato da una logica vanitosa che contrasta con l’aria mesta ed egalitaria che all’interno di un cimitero cristiano dovrebbe respirarsi. Entrando in questi sacri luoghi di sepoltura lo stupore prende il sopravvento alla riflessione e alla preghiera, distratti dall’apparenza, più che dalla sostanza. Si visitano i cimiteri più per ammirare anziché chiudersi nei ricordi e ascoltate la propria anima, più per stupirsi, che per raccogliersi attorno alla sua mestizia, tant’è che essi sono entrati a far parte di un circuito turistico, offrendo al visitatore una scenografia in cui i protagonisti, come in uno spettacolo profano, non sono coloro che vi sono seppelliti, ma le tombe che li custodiscono.
Niente di tutto questo colpisce o scalfisce l’attenzione di chi visita un cimitero dove bianche, semplici croci allineate e uguali spuntano come fiori da un verde prato. In questi luoghi dove la morte livella desideri e ambizioni, il raccoglimento diventa un respiro che sale in cielo in forma di preghiera o si tramuta in lacrima di dolore.
Nella “costruzione” dei nostri cimiteri abbiamo profuso “il senso del terreno”, dimenticando che essi sono l’anticamera dell’Al di là, dove i morti sono anime che non possiamo “vestire” a nostro piacimento. Se esistesse iI “sindacato dei morti” chissà che fine farebbero questi nostri cimiteri di cui vantiamo forme, arte e bellezza, in cui continuiamo a materializzare lo spirito, come se la morte fosse solo di quei morti che ci ostiniamo a “vestire” con il gusto del tempo
che la morte cancella, non per celebrarli ma “per mostrarli”.

Saro Pafumi

lunedì 19 aprile 2010

il burka e il shador delle nostre nonne



Spesso ci meravigliamo nel vedere donne mediorientali indossare il burka o il chador, come se questi indumenti fossero del tutto estranei alle nostre consuetudini.
Se si cerca nel nostro passato, nemmeno tanto remoto, questi indumenti li troviamo sia pure interpretati in forme stilistiche diverse nelle nostre tradizioni.
Un accenno del burka si po’ individuare nella tradizione delle signore di un certo rango di usare il cappello con veletta in voga negli anni venti
Un accessorio che serviva a velare il viso della donna che doveva apparire contegnoso e riservato. Velare il viso era segno di pudore, rispetto e mistero; alzare la veletta era come donarsi, permettere che la si sollevasse era come rompere un “simbolico imene”. Un richiamo seducente, come seducente doveva apparire il mistero che nascondeva la femminilità.
Chi è avanti negli anni si ricorderà pure che molte delle nostre donne anziane facevano largo uso di scialli tirati sul capo, lasciando scoperto solo il volto. Un indumento che in ceri casi era segno di dignitosa povertà o, per la sua disadorna crudezza, era usato dalle donne casa & chiesa. Non è un caso che la stessa Madonna in certe immagini è raffigurata avvolta in uno scialle, un mix di pudicizia, modestia e candore.
Oggi se una donna dovesse indossare un simile indumento sarebbe considerata un reperto archeologico, perché la moda è agli antipodi, interessata com’è a mostrare la bellezza femminile, anche se talvolta con qualche eccesso.
Le donne d’oggi come fiori dischiusi hanno liberato il loro corpo, contribuendo ad introdurre un’ondata evanescente e gioiosa al grigiore della vita. Una parte del creato, la donna, che non più tardi di mezzo secolo addietro era avvolta nelle nubi dell’ignoto che, per quanto affascinante, qual’è il mistero, privava l’intera umanità (donne comprese) di questo dono di Dio.
Lasciamo perciò che il burka e il chador li indossino senza meravigliarci più di tanto, le donne mediorientali e noi godiamoci la bellezza che il dischiuso fiore femminile rappresenti per noi.
Se una differenza c’è da cogliere nel vestire delle donne orientali rispetto alle nostre, essa è da ricercarsi nel diverso atteggiamento degli uomini. Gli orientali amano scoprire o custodire “il mistero”, noi preferiamo la conoscenza, fonte di verità che generosamente condividiamo.

Saro Pafumi

domenica 18 aprile 2010

Il R.I.D bancario, un boomerang

Tra i tanti modi di pagare le bollette che gravano i bilanci familiari c’è il R.I.D ( rapporto interbancario diretto) che consiste in una delega rilasciata alla banca per far fronte, in automatico, ai pagamenti delle bollette domestiche, prelevando l’importo dal proprio conto corrente. In un paese civile questo sistema di pagamento comodo, veloce e moderno permette all’utente correntista di assolvere in tempo utile le proprie obbligazioni, evitando ritardi e disguidi che possono fare incorrere nel pagamento d’interessi e sopratasse. Poiché rilasciare la delega alla banca per il pagamento delle utenze è come consegnare alle imprese creditrici il proprio portafogli, non è raro che questo sistema di pagamento comporti serie e gravi conseguenze. Vediamo quali.
Non è infrequente che una bolletta riporti spese non dovute per servizi non prestati o calcolate in eccesso. In un paese civile il disguido dovrebbe essere oggetto di facile ed immediata soluzione. Capita invece che chi chiede chiarimenti assai difficilmente riesce ad averli, secondo l’antico detto: “ ccu paia prima, mangia pisci fitenti”. Avviene perciò che in mancanza di chiarimenti si è costretti a revocare la delega alla banca per bloccare il R.I.D relativo al pagamento non dovuto o contestato. Ma credete che in un paese civile questo sacrosanto diritto non sia foriero di conseguenze spiacevoli? Quali?
La banca che ha introdotto nel suo sistema, e quindi nel circuito bancario, il pagamento del R.I.D del proprio cliente è costretta, in caso di mancato pagamento, ad inserire il cliente nella black-list, con la conseguenza che in caso di richieste di finanziamenti, mutui o carte di credito se ne pregiudicano la concessione e/o il rilascio.
Tutto questo in un paese civile, perché da noi i diritti sono concessioni, i doveri obblighi, le richieste di chiarimenti, suppliche, le risposte, una grazia, le soluzioni, un miracolo.
Tutto questo in un paese civile dove il meccanismo di certe procedure macina dati, numeri statistiche, bisogni, necessità, diritti, ingiustizie; dove pigiando un tasto si cancella la dignità, l’onore, l'onestà o la stessa esistenza dell’uomo.
Il rimedio? Ritornare all’antico: mettersi pazientemente in fila indiana alle Poste con bolletta e denaro in mano, con la certezza che il portafogli resta saldamente nelle proprie tasche e la propria dignità non cade nel tritacarne di un congegno assurdo ed impietoso.

Pubblicato su Lo dico a La Sicilia il 18/04/2010 Saro Pafumi

mercoledì 7 aprile 2010

Puliti i cigli stadali della Mareneve, ma......

La Provincia di Catania in questi giorni ha provveduto a pulire i cigli stradali della Mareneve, versante Linguaglossa. Encomiabile iniziativa, cui va indirizzata la gratitudine della popolazione interessata. Credete che una simile lodevole iniziativa poteva non avere un suo risvolto negativo? Ci ha pensato l’impresa che ha gestito il servizio di pulitura.
Con la furbizia che ci contraddistingue, noi del sud, ecco la geniale trovata.
Il materiale di rifiuto: foglie, rami, pietre e terriccio dove li metto?
Uno sguardo furtivo, a destra e a manca, avanti e indietro ed ecco che gli operai, non visti, buttano i rifiuti nelle proprietà adiacenti. Ci penseranno i privati a smaltirli.
Gli operai avranno pensato: se molti cittadini buttano i loro rifiuti sulla pubblica via, perché noi non possiamo gettare i nostri nelle proprietà private? Ad ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria, detta una nota legge fisica.
Agli operai va riconosciuta la nostra gratitudine, per avere ristabilito l’ordine, la pulizia, il decoro e la buona creanza e fatta salva la loro onorabilità, con rispetto parlando.
Pubblicato Lo dico a La Sicilia il 07/04/2010
Saro Pafumi

lunedì 5 aprile 2010

Arazziu Stranu, precursore dei moderni talk show

Oggi in TV. è invalsa l’abitudine di trattare i processi penali in concomitanza con quelli veri che si celebrano nelle aule giudiziarie. Questo tipo di spettacolo non è stato inventato dalla TV, ma ha il suo prototipo negli anni cinquanta, quando il suo cantore, accompagnato da chitarra e cartellone, illustrava al popolo, nelle piazze dei paesi etnei, storie di personaggi siciliani, episodi di violenza o d’amorosa follia o poemetti satirici e di costume che il pubblico attento, stupito e silenzioso ascoltava affascinato: Arazziu Stranu, questo il suo nome. Un cantastorie siciliano, di Riposto, passato dalla cronaca alla storia, vero precursore dei moderni talk show. Il suo era uno spettacolo recitato con parole e versi a rima baciata, accompagnato dal suono della chitarra. Un racconto cantato che riprendeva nello stile la cantilena dei carrettieri, che, di notte accompagnata dallo sferragliare monotono e tedioso di zoccoli e ruote, lentamente si dissolveva nell’oscurità appena, appena rischiara da un penzolante lume a petrolio. Nei canti di Arazziu Stranu il morto ammazzato era il condimento di ogni triste vicenda, illustrato nel momento in cui la vittima stramazzava al suolo finita da una fucilata o trafitta da un fendente. Quadri dipinti a mano, paragonabili ai moderni servizi che la Tv. manda in onda come ausilio all’argomento trattato. Tra i racconti del celebre cantastorie la storia romanzata di Salvatore Giuliano, un bandito “celebrato” come generoso, popolare eroe; ”Pani e rispettu a li travagghiaturi” dove il divario sociale tra povertà e ricchezza era rappresentato da “figghi sucati”e “figghi ‘mbrucchiati”o scenette satiriche come ”Processo a porte chiuse” dove il doppio senso sostituiva gli odierni fumetti dei vignettisti.
Il racconto cantato in pubblico imitava quello funebre praticato nell’antica Roma o dei cantori greci nelle “agorà”
Non c’erano spazi pubblicitari nel racconto di Arazziu Stranu, perchè la drammaticità della vicenda non consentiva deviazioni o distrazioni. L’attenzione del pubblico, serio e silenzioso, doveva essere catturata dalla drammaticità della narrazione, come se la resa dei conti tra vittima e carnefice si stesse consumando sotto i suoi occhi. Il pubblico doveva percepire attraverso versi e suono il rumore del botto del fucile, immaginare di vedere il fumo uscire dalla canna, annusare l’odore della polvere e la vittima stramazzare al suolo, con l’immancabile rivolo di sangue che ne certificava la morte. Una scena dove la morbosità del pubblico si sposava con l’arte del cantastorie, con l’amara realtà della vicenda, col medesimo ripetitivo grado tonale del canto che l’accompagnava.
I moderni talk show ripercorrono gli schemi praticati da Arazziu Stranu. Le tecniche sono certamente cambiate, le menti si sono raffinate, lo stile più erudito, ma sempre uguale, ieri come oggi, è il piacere di raccontare il male, quello in cui i protagonisti sono gli altri e noi gli spettatori.
Pubblicato su Lo dico a La Sicilia il 04.04.2010 Saro Pafumi

venerdì 2 aprile 2010

Il rogo a Piano Provenzana

C’era d’aspettarselo che qualcuno avrebbe tirato in ballo il racket quale causa del rogo che ha mandato in fumo cinque casette a Piano Provenzana. Ci ha pensato il TG Tre delle ore 14 del 28/ marzo. Lo avrei giurato che qualche “cretinata ” giornalistica, dopo il fuoco, avrebbe ancor di più affumicato l’ambiente in cui si è maturato il rogo. Un’autentica “cretinata” occorre ripeterlo, frutto di superficialità che, conducendo ogni ipotesi di questo tipo ad azioni estorsive, non fa altro che diffondere inutili cortine fumogene sull’accaduto.
Linguaglossa, occorre precisarlo con orgoglio, è una realtà atipica rispetto a ciò che la circonda, dove non succede nulla o quasi, dove “il quasi” è talmente insolito o frutto di qualche isolata mente malata da non essere paradossalmente preso nemmeno in considerazione.
Non manca certamente di grave serietà l’episodio del rogo delle cinque casette, ma per carità ci si risparmi l’amaro sapore del racket che semplicemente ad ipotizzarlo arreca alla comunità linguaglossese più danno dello stesso rogo. Vi ostano all’ipotesi annunziata mille e una ragione, sol che si usi il cervello e/o la conoscenza della nostra realtà, come strumento per pensare, riflettere e scrivere.

Saro Pafumi

Le dimissioni del Vicesindaco a Linguaglossa

La Sicilia del 26/03, pagina 44 riporta la notizia, corredata di foto, delle dimissioni del vicesindaco Ignazio Mazza dall’attuale amministrazione comunale di Linguaglossa Le povere motivazioni riportate a sostegno della grave decisione nulla chiariscono sulla delusione annunziata dal Mazza, né chiarezza aggiungono le dispiaciute dichiarazioni di circostanza del sindaco di Linguaglossa. Il solito linguaggio politichese. Le parole: “Ciò che è mancato è proprio la politica seria…..” e “ Qui ognuno pensa solo ai propri interessi” con le quali l’ex vicesindaco annunzia il suo amaro disimpegno sono non semplici parole, ma macigni. Non è il caso che le ragioni delle dimissioni siano portate a conoscenza degli elettori, non solo di quelli che lo hanno votato, ma anche di quelli che trovandole coerenti e ragionevoli potrebbero essere indotti a votarlo? In democrazia quando si riceve un mandato per amministrate occorre non solo portare a termine il compito ricevuto, ma in caso d’impossibilità, chiarire i motivi che vi ostano.
Un vicenda che non si può chiudere come la canzone di Cementano: “ Spengono le luci, tacciono le voci………….grazie, prego, scusi, tornerò!” E la cittadinanza?

Saro Pafumi

Il grecale della politica

La politica in questi ultimi decenni ha subito notevoli mutamenti, non sempre migliorativi.
Prendiamo, per esempio, l’elezione del sindaco nei piccioli centri. Un tempo, la scelta del candidato avveniva all’interno di un partito o di una coalizione. Il capolista era cercato tra i maggiorenti del paese: un personaggio munito di carisma per preparazione, cultura, onestà, tradizioni familiari, costumi di vita attorno al quale coagulava il consenso degli elettori. Non era facile trovare soggetti idonei all’incarico e quelli disponibili erano chiamati a sacrificarsi per il bene del paese.
Oggi la situazione si è rovesciata. Non è il partito che sceglie il suo candidato, ma il candidato che si propone al popolo. Lo svolgimento della campagna elettorale è l’emblema di questo cambiamento. La disaffezione verso la politica è la regola. I partiti sono freddi simboli riportati sulle schede. I comizi hanno bisogno di essere tenuti nella sala degli specchi per moltiplicare l’effetto dei partecipanti, e i dibattiti galleggiano in un mare di banalità e incongruenza. L’aspirante candidato attorniato dai suoi “bravi” gira per le vie del paese, come un comitato cittadino che questua l’obolo per la festa del Santo patrono. Esaurito il periodo elettorale, rimangono le sedie vuote dei partecipanti, quasi fosse un concorso a posti. Per cinque lunghi anni la politica attraversa il deserto dei tartari tra le aride nebbie della quotidianità e le liste sembrano barconi stracolmi d’extracomunitari che si arenano sulla battigia della politica. Il candidato eletto non conserva il carattere democratico della carica, pronto a risolvere i problemi della collettività o a sacrificarsi per essa, ma spesso è il tornaconto personale che lo guida o il delirio d’onnipotenza, l’espansione del proprio Io che lo mette in fuga dal rapporto interpersonale. Un difetto molto ricorrente in chi non abituato al potere, n’è improvvisamente abbagliato. Difficilmente un personaggio siffatto si mescola alla folla, per saggiarne gli umori e conservare il consenso che è l’ossigeno d’ogni democrazia. Arroccato al suo potere, gode del narcisismo della sua immagine dimentico di stare assiso su uno scranno paurosamente traballante.
Questo novello populismo elettivo ha solo l’apparenza di un’autentica elezione diretta, perché in concreto finisce col diventare un assalto alla diligenza, in cui dell’antica concretezza del fare nulla o poco rimane. Il popolo o meglio quello che rimane di esso è chiamato ad esprimere un consenso in cui “la qualità” non è una scelta consapevole e selettiva, ma è condizionata “da quello che la piazza offre”: L’elezione spesso è costruita su una minima percentuale di voti legittimando un candidato che spesso rappresenta solo se stesso.
Tornare indietro non si può. Non ci resta che spingere sgomenti e rassegnati il treno della speranza di cui nessuno conosce la meta. In queste condizioni Il “ grecale” della politica soffia sugli entusiasmi gelando le attese delle piccole comunità sempre più orfane d’idee e di valori.
Saro Pafumi
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Certi paesi giostra

E’ un’epoca, la nostra, caratterizzata da una forte indeterminatezza in tutti i campi del vivere civile, dalla politica, all’economia, dalla legge, alla morale. E’ come se fossimo alla ricerca di qualcosa: il lavoro, una vincita, l’arrivo di una notizia, un cambiamento, una sistemazione o più semplicemente la speranza. In quest’attesa che dura da molto, troppo tempo ciascuno affronta la realtà come meglio può, soprattutto “stringendo la cinghia” che in tempo di vacche magre è l’unico rimedio sofferto, ma possibile.
Una realtà che si legge negli occhi di tutti, quasi che le pupille fossero punti interrogativi.
Un’’epoca, questa,che ha inventato le case dove “parcheggiare la vecchiaia” e “ i paesi giostra”, quelle piccole indifese realtà locali, dove tutto sembra muoversi, ma in realtà è immobile. E’ come se cavalcassimo uno dei tanti giocattoli che si trovano nelle giostre per bambini che girando ritornano al punto d partenza. Paesi dove di vero, di naturale, di spontaneo c’è quella condizione fisiologica umana d’assoluto riposo definita sonno. Centri dormienti dove non succede nulla, dove il trascorrere del tempo segnato dal ritmico e monotono tic-tac del pendolo è l’unico segno di vita.
In questi “paesi giostra” la stessa giovinezza trova il suo lento trascorrere nella monotonia: un giro in auto, come sul cavalluccio della giostra, un salto al pub, l’ennesima richiesta di denaro ai propri familiari impotenti e rassegnati, per ricominciare il giro quando il sole alto, scuote questo popolo di giovani assonnati annunziando un altro giorno. Molto è cambiato rispetto ai giovani di un tempo, quando già ad otto/dieci anni col proprio arnese sulle spalle aiutavano i genitori nelle loro fatiche giornaliere. Il tempo cambia ed anche le abitudini, ma quella che non muore mai è la speranza di migliorare e se tarda, l’attesa si trasforma in noia o in disperazione.
In questi piccoli paesi la realtà è rappresentata dalla visione di vecchi che seduti al sole fanno fatica a guardarsi attorno, rifugiandosi nel racconto di cose trascorse. Se vedono un giovane passare accanto non sanno se considerarlo fortunato ( per quello che lui ha
e loro non avevano) o sconfitto per quello che non potrà avere.
I giovani, i pochi che hanno capito, sono fuggiti. Ad una realtà fatta d’attesa, di noia, di frustrazione, hanno preferito il buio dell’incertezza, perché dall'oscurità si può emergere, dall’attesa senza fine si approda inesorabilmente alla delusione o alla sconfitta.

. Saro Pafumi

L'uomo e il sesso

Il sesso da quando l’uomo è apparso sulla terra ha sempre unito e diviso gli uomini, più del denaro, più del potere, nonostante sia una favilla dell’anima che scoppietta e svanisce in un battito di ciglia. Hanno iniziato Adamo ed Eva costretti ad abbandonare il paradiso terrestre, passando per la guerra di Troia, Antonio e Cleopatra, Catullo e Lesbia, Dante e Beatrice, Paolo e Francesca, Giulietta e Romeo, Isotta e Tristano, vittime inconsapevoli di quest’istinto d’amore, fino ad arrivare ai personaggi storici dei giorni nostri. Quali stimoli produca il sesso nel suo momento clou è a tutti noto: la prova del viaggio nell’Al di là, astrazione pura, un blackout che oscura i sensi e la mente, la perdita di gravità, il bigben della vita, un rotolarsi tra le nuvole, una conchiglia che galleggia sull’onda del piacere, ape e nettare insieme o chissà cos’altro. E’ dalla somma di tutti questi elementi tra umano e trascendente, fisico e metafisico che il sesso ha finito con l’essere il motore del mondo. Una forza che trascina l’uomo nell’abisso o lo spinge all’eroismo, un atto che può diventare pazzia o mutarsi in amore. Tutte le ideologie, religiose e laiche se ne sono appropriate, consapevoli che è la radice d’ogni essere, l’alfa e l’omega d’ogni esistenza. Avere le chiavi di esso, condizionarlo con le regole, disciplinandone i meccanismi significa impadronirsi del destino dell’uomo, guidarlo, possederlo, condizionarlo assolverlo, condannarlo e persino schiavizzarlo. Non importa quale sia il fine: la procreazione, l’autoconservazione, la difesa della razza, il piacere come fine. Essenziale è farne un’arma di potere, riempirlo di contenuti ambigui e con questo cavallo di troia penetrare nella coscienza dell’uomo per analizzarla, disarticolarla, spezzarla possederla.
IL sesso, seme di vita o radice di colpe, commedia e tragedia della vita, consolazione o tormento.
E’ in nome di quest’insopprimibile bisogno di libertà o d’effimera illusione che l’uomo, sia pure tra mille sofferenze, pericoli, rimorsi e distinguo, vive, concepisce, combatte e trasgredisce.
“ Penso che sogno così/ non ritorni mai più/………poi d’improvviso venivo/ dal vento rapito/e incominciavo a volare /nel cielo rapito… Modugno e la sua canzone. L’estasi tra sogno e realtà, corpo e anima abbracciati nel blu infinito. Chi meglio di Modugno avrebbe potuto rendere poetica la leggerezza dell’essere.

Saro Pafumi

giovedì 1 aprile 2010

Antiche usanze, le pulizie di Pasqua

Al tempo in cui Berta filava le nostre mamme, all’avvicinarsi della Pasqua, con un foulard avvolto sul capo e annodato dietro la nuca si dedicavano alle pulizie straordinarie della casa. I lampadari, quelli a ninfa, per chi aveva la fortuna di possederli, richiedevano più tempo per la pulizia: un incubo per ogni massaia. La ragione di tanto lavoro, oltre che per igiene, era dovuta al fatto che subito dopo Pasqua il parroco benediva le case e ospitare la Divinità significava, secondo un’usanza ebraica, purificare non solo il luogo in cui si dimorava , ma anche e soprattutto l’anima, almeno una volta l’anno, come con il precetto pasquale. In quell’occasione era d’uso fare un’offerta al parroco benedicente con qualche spicciolo riposto nel catino che conteneva l’acqua benedetta. Il chierichetto che accompagnava il prete, oltre a tenere il catino, dove il parroco intingeva l’aspersorio per la benedizione, era d’uso che si portasse appresso un paniere per raccogliere le uova che, per chi non disponeva di denaro, era il dono più diffuso. Non era infrequente qualche dono “fuori d’ordinanza” come accadde un giorno, a me chierichetto, di ricevere una “toppa di piscistoccu”, che la perpetua, il giorno seguente, in canonica cucinò “ a ghiotta”, il cui aroma in sacrestia si mescolò all’odore d’incenso, segno, di quella mescolanza di paganesimo e cristianità che ancor oggi è dato di vedere in alcune manifestazioni religiose.
E’ da quest’antica usanza,ancora oggi in vigore, che è nato il detto “fare le pulizie di pasqua” allorché si vuole indicare una pulizia fuori dell’ordinario.
Se estendessimo “le pulizie di pasqua” un po’ di più alle nostre coscienze forse la Santa Pasqua avrebbe un significato molto più profondo.

Pubblicato su La Sicilia il 01.04.2010
Saro Pafumi