Al tempo in cui Berta filava le nostre mamme, all’avvicinarsi della Pasqua, con un foulard avvolto sul capo e annodato dietro la nuca si dedicavano alle pulizie straordinarie della casa. I lampadari, quelli a ninfa, per chi aveva la fortuna di possederli, richiedevano più tempo per la pulizia: un incubo per ogni massaia. La ragione di tanto lavoro, oltre che per igiene, era dovuta al fatto che subito dopo Pasqua il parroco benediva le case e ospitare la Divinità significava, secondo un’usanza ebraica, purificare non solo il luogo in cui si dimorava , ma anche e soprattutto l’anima, almeno una volta l’anno, come con il precetto pasquale. In quell’occasione era d’uso fare un’offerta al parroco benedicente con qualche spicciolo riposto nel catino che conteneva l’acqua benedetta. Il chierichetto che accompagnava il prete, oltre a tenere il catino, dove il parroco intingeva l’aspersorio per la benedizione, era d’uso che si portasse appresso un paniere per raccogliere le uova che, per chi non disponeva di denaro, era il dono più diffuso. Non era infrequente qualche dono “fuori d’ordinanza” come accadde un giorno, a me chierichetto, di ricevere una “toppa di piscistoccu”, che la perpetua, il giorno seguente, in canonica cucinò “ a ghiotta”, il cui aroma in sacrestia si mescolò all’odore d’incenso, segno, di quella mescolanza di paganesimo e cristianità che ancor oggi è dato di vedere in alcune manifestazioni religiose.
E’ da quest’antica usanza,ancora oggi in vigore, che è nato il detto “fare le pulizie di pasqua” allorché si vuole indicare una pulizia fuori dell’ordinario.
Se estendessimo “le pulizie di pasqua” un po’ di più alle nostre coscienze forse la Santa Pasqua avrebbe un significato molto più profondo.
Pubblicato su La Sicilia il 01.04.2010
Saro Pafumi
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