La politica in questi ultimi decenni ha subito notevoli mutamenti, non sempre migliorativi.
Prendiamo, per esempio, l’elezione del sindaco nei piccioli centri. Un tempo, la scelta del candidato avveniva all’interno di un partito o di una coalizione. Il capolista era cercato tra i maggiorenti del paese: un personaggio munito di carisma per preparazione, cultura, onestà, tradizioni familiari, costumi di vita attorno al quale coagulava il consenso degli elettori. Non era facile trovare soggetti idonei all’incarico e quelli disponibili erano chiamati a sacrificarsi per il bene del paese.
Oggi la situazione si è rovesciata. Non è il partito che sceglie il suo candidato, ma il candidato che si propone al popolo. Lo svolgimento della campagna elettorale è l’emblema di questo cambiamento. La disaffezione verso la politica è la regola. I partiti sono freddi simboli riportati sulle schede. I comizi hanno bisogno di essere tenuti nella sala degli specchi per moltiplicare l’effetto dei partecipanti, e i dibattiti galleggiano in un mare di banalità e incongruenza. L’aspirante candidato attorniato dai suoi “bravi” gira per le vie del paese, come un comitato cittadino che questua l’obolo per la festa del Santo patrono. Esaurito il periodo elettorale, rimangono le sedie vuote dei partecipanti, quasi fosse un concorso a posti. Per cinque lunghi anni la politica attraversa il deserto dei tartari tra le aride nebbie della quotidianità e le liste sembrano barconi stracolmi d’extracomunitari che si arenano sulla battigia della politica. Il candidato eletto non conserva il carattere democratico della carica, pronto a risolvere i problemi della collettività o a sacrificarsi per essa, ma spesso è il tornaconto personale che lo guida o il delirio d’onnipotenza, l’espansione del proprio Io che lo mette in fuga dal rapporto interpersonale. Un difetto molto ricorrente in chi non abituato al potere, n’è improvvisamente abbagliato. Difficilmente un personaggio siffatto si mescola alla folla, per saggiarne gli umori e conservare il consenso che è l’ossigeno d’ogni democrazia. Arroccato al suo potere, gode del narcisismo della sua immagine dimentico di stare assiso su uno scranno paurosamente traballante.
Questo novello populismo elettivo ha solo l’apparenza di un’autentica elezione diretta, perché in concreto finisce col diventare un assalto alla diligenza, in cui dell’antica concretezza del fare nulla o poco rimane. Il popolo o meglio quello che rimane di esso è chiamato ad esprimere un consenso in cui “la qualità” non è una scelta consapevole e selettiva, ma è condizionata “da quello che la piazza offre”: L’elezione spesso è costruita su una minima percentuale di voti legittimando un candidato che spesso rappresenta solo se stesso.
Tornare indietro non si può. Non ci resta che spingere sgomenti e rassegnati il treno della speranza di cui nessuno conosce la meta. In queste condizioni Il “ grecale” della politica soffia sugli entusiasmi gelando le attese delle piccole comunità sempre più orfane d’idee e di valori.
Saro Pafumi
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