domenica 29 agosto 2010

L'EXTRACOMUNITARIO DELUSO

Giorni addietro mi è toccato di cogliere lo sfogo di un lavoratore extracomunitario che dopo avere vissuto per diversi anni nell’ombra, data la sua condizione di lavoratore irregolare, aveva finalmente coronato il suo sogno: ottenere l’agognato soggiorno. Dirlo gongolante di gioia è dir poco, perchè un tizio che è costretto a nascondersi alla vista delle forze dell’ordine o a darsi a gambe levate davanti agli ispettori del lavoro non è una condizione da invidiare. Euforico oltre misura per la nuova, acquisita condizione sociale aveva deciso di regolarizzare la sua esistenza con la richiesta della carta d’identità e la residenza che lo avrebbero parificato se non del tutto, almeno in parte al cittadino italiano.
Per un individuo che da fantasma si tramuta in essere umano in carne ed ossa il passaggio non è facile e, ancor di più, indolore. In questo nostro paese, si sa, per cambiare una virgola occorre seguire un complicato, interminabile percorso burocratico, figuriamoci per tramutare uno spettro in un individuo.
“ Ha il codice fiscale?”, “Dove abita?”, “Ha un contratto d’affitto?”, “ E’ regolarmente registrato?” “ E’ in regola con la tassa sui rifiuti soliti urbani?” “ Chi è il suo datore di lavoro?” “ E’ regolarmente retribuito?”, “Gli sono stati versati i contributi?” Una serie di domande che l’extracomunitario non s’aspettava, convinto che il permesso di soggiorno fosse da ritenersi “ all inclusive”. Aveva più semplicemente fatto male i conti.
Non si cambia, con tanta leggerezza, una condizione d’assoluto privilegio qual è quella dell’apparente inesistenza con una condizione anagrafica foriera più di doveri che di diritti, Ciò lo sa molto bene l’italiano medio che mette in atto ogni espediente pur di rimanere “ignoto”agli occhi dello Stato L’evasore, il lavoratore in nero… altri non sono che cittadini diventati “extracomunitari” per scelta, ben consapevoli che perdere la propria “identità” equivale a rendersi “invisibili”, fantasmi appunto con tutti i privilegi legati alla condizione. Com’è strano questo nostro mondo. C’è chi fatica una vita pur di conseguire la residenza, la cittadinanza, una posizione regolare e rispettabile e c’è chi farebbe a meno di questi riconoscimenti o “convenzioni sociali” consapevole che “i fantasmi” non sono anime dannate che perennemente vagano senza riposo, ma individui veri che godono i privilegi dei vivi che l’astuzia ha reso invisibili, o se volete “extracomunitari irregolari, per scelta”.
Pubblicato su La Sicilia il 29.08.2010
. Saro Pafumi

venerdì 27 agosto 2010

" A LIBRETTA"

Che sia il segnale di ritorno al passato, l’indizio che qualcosa stia cambiando, l’avvio di nuove difficoltà? Sempre più spesso capita di ascoltare, entrando dal bottegaio: “ u signassi ‘da libretta”. L’espressione non è nuova per chi ha una certa età, ma era da molto tempo che questa pratica di “vinniri a credenza”non si ascoltava. Ci sono abitudini che si perdono, altre che cambiano, altre che resistono, altre che non muoiono mai, perché è “la necessità” che le rende immortali. “ A libretta, forse è una di queste. Un minuscolo notes sul quale, nell’intesa tra bottegaio e cliente, è segnato l’importo giornaliero delle umane necessità primarie, dalla semplice carta igienica al pane quotidiano. Se si avesse la voglia e il tempo, attraverso lo studio di queste “librette” si potrebbero elaborate autentiche statistiche dei bisogni primari della società, perché “ a libretta” di esse è la cartina di tornasole.
Oggi queste “librette” si chiamano “carte di credito”, ma ottenerle implicano costi e puntualità. Il negoziante si sa “la pazienza” la vende pure e in caso di ritardo sa come comportarsi. perchè secondo un antico proverbio: “ a cridenza costa ‘na vota e menza” e anche se non si può “tirare” sul prezzo, perchè “a cridenza cria dipinnenza”, confessiamolo: “a libretta” fa comodo. . Questo modo di chiamare “ a libretta”, pare sia stato mutuato dal linguaggio militare dove il termine stava ad indicare il manuale d’esercitazione delle manifestazioni celebrative, ma più verosimilmente si è passato da “libretto” o “notes” a “ libretta”, perché noi siciliani abbiamo l’inventiva d’ingentilire i nomi, come “ a diabeti”, “ a salami” che nella lingua italiana sono rigorosamente maschili. “ A libretta” nel linguaggio parlato dialettale suona bene: è più soft, ha un tono amichevole, dà fiducia, ci accompagna nella vita quotidiana, perciò non si ha voglia d’abbandonarla. Meglio fidarsi di chi un’anima l’ha, ci conosce e ci ha seguito una vita, che delle moderne carte plastificate che a posto dell’anima hanno un microcip che non guarda in faccia nessuno. Nessuna “libretta” si sognerebbe di rispondere: “credito insufficiente” perché chi ha un’anima le necessità altrui le comprende e a “ libretta” è una vera amica. Un po’ d’umanità in questo mondo tecnologico non guasta. Ben tornata, dunque, cara, vecchia amica “libretta”.
Pubblicata su La Sicilia il 28.08.2010
. Saro Pafumi

lunedì 16 agosto 2010

LINGUAGLOSSA - SAN ROCCO, FESTA E TRADIZIONI



La festa di San. Rocco, che si celebra in questi giorni a Linguaglossa, affonda le sue radici in epoche lontane ed è legata ad una serie di manifestazioni popolaresche Almeno quattro quelle che accompagnavano fino a non molto tempo fa la ricorrenza: l’asta; ‘a chianata a ‘ntinna; a scassata ‘e catusi; a merca o iaddu.
Di queste quattro “rappresentazioni” solo la prima resiste e consiste nel vendere al migliore offerente, attraverso un abile banditore, la mercanzia offerta dai devoti: una cesta di pomodori, un agnello, una forma di formaggio. o altro il cui ricavato era ed è devoluto a festeggiare il Santo. “A chianata a ‘ntinna” è caduta in disuso. Consisteva nell’innalzare in piazza San. Rocco un palo alto circa 10 metri, cosparso di grasso animale e succo di pale di ficodindia, usato come lubrificante, che, reso viscido e scivoloso, doveva rendere faticoso l’arrampicarvisi. Alla sommità ben visibili penzolavano generi alimentari d’ogni tipo.
La terza rappresentazione “ a scassata ‘e catusi” è resistita fino a poco tempo, Da una fune magistralmente azionata da un abile manovratore “ pendeva “u catusu” (un coccio d’argilla) che oscillava ad un’altezza di tre/quattro metri dal suolo. Sotto il coccio penzolante, un gruppo d’uomini strettamente avvinghiati e sopra di loro, in equilibrio precario, chi doveva “scassare u catusu che gli oscillava sulla testa. Rotto il coccio, dopo vari tentativi tra le risate del pubblico, la sorpresa: terra rossa, nero fumo o qualche modesto regalo che doveva spartirsi tra i contendenti. Molta fatica, poca sostanza e tanto divertimelo del pubblico che seguiva la tenzone con tifo da stadio. La quarta rappresentazione “ a merca o iaddu” conteneva in sé una carica di sadismo che la civiltà ha spazzato via dalla tradizione popolare. Un gallo vivo, penzolante e dondolante a testa giù, doveva essere centrato dal contendente di turno a colpi di pietre acquistate due soldi l’una. Chi riusciva a centrarlo, da una distanza di 30 metri, se lo aggiudicava. In questo tiro a bersaglio la facevano da padroni pecorai e caprai che con il lancio delle pietre avevano una naturale dimestichezza.
A queste rappresentazioni popolari si aggiungeva il sedici d’agosto l’usanza dei fratelli Cavallaro, detti “ i munti”di cucinare “ u crastu o fornu”, una vera leccornia che solo la loro maestria rendeva prelibata.
La semplice e stringata descrizione di queste antiche rappresentazioni ha lo scopo di far conoscere che esse erano in gran parte, con esclusione di una sparuta minoranza che partecipava ai giochi con spirito goliardico, prerogativa dei più disagiati. Tradizioni andate perdute, nonostante volessero o potessero apparire come manifestazioni semplicemente ludiche.
Chi partecipava a queste competizioni, sacrificando pudore e dignità, molto spesso era spinto da condizioni economiche precarie e con la speranza di accaparrarsi derrate alimentari altrimenti relegate nel mondo dei sogni. Uno spettacolo che doveva divertire il pubblico, ricevendo il contendente, a volte, sprezzante derisione.
Quanti hanno nostalgia di queste tradizioni perdute, si consolino con la fede, perché il vero miracolo di San Rocco è l’avere spazzato via queste rappresentazioni che nell’indigenza trovavano origine e ispirazione. Le tradizioni vanno conservate o in certi casi, se possibile, rivisitate come “recite” esclusivamente “burlesche”, ma quando offendono la dignità umana, nonostante ogni contraria apparenza, è sciocco averne nostalgia.
Pubblicato su La Sicilia il 17.08.2010
. Saro Pafumi

giovedì 12 agosto 2010

LA CORRUZIONE, UN CANCRO DELLA SOCIETA'

Il periodo che stiamo attraversando è uno dei più torbidi nella storia della Repubblica italiana. Non che i periodi precedenti siano stati immuni da simili nefandezze, ma mai con la gravità e la diffusione odierne. Si respira attorno ai fatti di corruzione politica un’aria di disgusto che costringe a convivere con il fetore di un miasma generale.
Se però analizziamo le condizioni dell’animo umano il disgusto di ciascuno diventa sgomento, paura. disagio. Oggi le notizie con la crudezza con cui sono riportate, corredate da foto e nomi di personaggi della porta accanto, e per la frequenza quotidiana con cui sono diffuse aggiungono sgomento a sgomento. E come se franasse non una parte della società conosciuta, ma una parte di noi stessi. Il giorno successivo un nuovo bollettino di guerra: un elenco interminabile d’incarcerati, arrestati, indagati, spiati, intercettati, la scoperta di un nuovo bubbone che riproduce escrescenze in una sequenza senza fine. Un tempo non troppo remoto il cittadino aveva la convinzione che la società avesse due colori: il nero rappresentato dalla mafia e il bianco rappresentato dal potere politico-economico, con qualche limitata zona d’ombra all’interno di esso. Oggi il colore dominante è il grigio che rappresenta l’intera società italiana.
Ciascuno si chiede: in una società così organizzata, in cui la norma è il ricatto, la corruzione, il pizzo, sia se si debba chiedere un certificato di nascita o il riconoscimento di un qualsiasi diritto, devo adeguarmi o resistere? Il dubbio è legittimo, basta girarsi attorno.
Si notano ricchezze costruite in poco tempo, condizioni sociali di disagio capovolte, meriti acquisiti apparentemente inspiegabili, condizioni di vita sopra le righe, ostentazione di ricchezza che offende il comune senso del pudore. La domanda è d’obbligo: è la nuova condizione di chi ha saputo realizzarsi con le proprie forze o ha saputo adattarsi al sistema? Ciascuno trova la propria risposta, ma quasi sempre la stessa: Il tizio ha trovato il canale giusto, l’amicizia indovinata, il funzionario adeguato… Vedendo attorno a noi una facile ricchezza nata dal niente, ciascuno si mette alla ricerca “del canale giusto, finendo col percorrere le stesse strade trovate dall’Unto del Signore. Così la corruzione dilaga, il pizzo aumenta, come un’epidemia che se non capita e arrestata finisce con l’invadere l’inero corpo sociale.
E’ quello che abbiamo tutti i giorni sotto gli occhi: un incendio delle coscienze che invade distrugge, annerisce ogni tentativo di chi vuole o semplicemente tenta di resistere “al sistema”. Quanto tempo l’animo umano può convivere con un sistema degenerato a tutti i livelli? E’ una domanda che mi atterrisce più della corruzione stessa.
Pubblicato su La Sicilia il 13.08.2010 Saro Pafumi.

mercoledì 11 agosto 2010

LA TV D'ESTATE, VECCHIA SIGNORA CON ABITI INGIALLITI

A Napoli ho avuto il raro piacere di conoscere e stringere amicizia con un generale di cavalleria d’origine pugliese segretario particolare del segretario particolare ( mi si scusi il bisticcio dei termini) di Mussolini. Tutte le volte che andavo a trovarlo nella sua abitazione di Calata Trinità Maggiore era un piacere incontrarlo, ma insieme un tormento. Un piacere per l’amabile, dotta e signorile conversazione con cui intratteneva i suoi ospiti, infarcendola di ricordi, foto e documenti, ma insieme uno strazio, perché la conversazione verteva sempre sullo stesso tema: la guerra. Un copione fatto di particolari, ricordi ed avvenimenti ripetuti con maniacale precisione. Per evitare d’ascoltare il ripetersi delle sue storie già sentite, anticipavo i ricordi nella speranza che interrompesse l’elenco interminabile delle vicende vissute. “ Manco pa capa” direbbero a Napoli, perché imperterrito continuava fino ad esaurimento suo e dell’ospite di turno.
Quello che avviene in questo periodo nella Tv. è il ripetersi puntuale e inesorabile di ciò che è avvenuto nel passato televisivo, costringendoci a deliziarci di pellicole gialle e consunte, personaggi morti da oltre mezzo secolo, episodi dimenticati e rispolverati col solo scopo di riempire spazi televisivi altrimenti destinanti a rimanere bianchi. La nostra Tv si comporta come certe vecchie signore che tirano fuori dalle cassapanche vestiti ingialliti per indossarli con disinvoltura, come se il tempo fosse risuscitato. Una vera tristezza! Certamente anche i ricordi devono avere i loro spazi, ma non si possono sbrodolare a piccole dosi, in modo da non intristire oltre misura lo spettatore?
Pubblicato su La Sicilia il 11/08/2010
Saro Pafumi

giovedì 5 agosto 2010

SALVATORE INCORPORA, UN ARTISTA NON MUORE

“Oggi si tiene lezione dal vivo” annunziò il prof. Incorpora, che c’insegnava disegno nella scuola media dei Padri Domenicani a Linguaglossa, allogata in un vecchio edificio accanto alla Chiesa di Sant’Antonino. Ci condusse in una stradina limitrofa e sistemandoci in fila ci disse: “Vedete, di fronte a Voi, quel vecchio palmento? Riportatelo tale e quale sul vostro album da disegno”. Strappò dalla sua cartella un foglio bianco e con poche righe disegnò lui stesso quel vecchio rudere. Di suo vi aggiunse un paio di vendemmiatori in procinto di scaricare l’uva da pigiare. In un attimo e con pochi schizzi, lui artista, aveva creato un quadretto d’autore, rendendolo vivo e palpitante d’umanità. “ Non fate come me, che ho l’occhio dell’artista” aggiunse. “Voi dovete copiare la realtà”. Quindi accartocciò e ripose in tasca quel piccolo capolavoro che aveva disegnato in un batter d’occhio Nell’ora che ci fu concessa per elaborare il disegno, riuscii a tracciare poche righe. Quando il professore lo esaminò, piegandolo, mi disse: “ Più che un palmento hai disegnato un piatto. Con la sei messo proprio male. Prova a fare qualcosa col disegno geometrico”. Affidandomi, a casa, per prova, il compito di disegnare un ottagono. “ Bada”, mi disse, “ se usi la gomma per cancellare, sei fregato. Prima di tracciare una linea sul foglio bianco, misura e rifletti, rifletti e misura. Devi essere sicuro degli angoli che devi formare. Non sono ammesse cancellature, sbavature o linee ripetute, perché se tracci una linea è come se facessi una scelta di vita.”.
Col tempo capì che quell’insegnamento conteneva una metafora. Le rette sono come certi principi. Non ammettono sbavature o travisamenti Sono principi e basta. Avrei voluto ricordargli quel lontano giorno di lezione “dal vivo”, la metafora della retta come scelta di vita, ma guardando i suoi occhi sofferenti e spenti nell’ultimo nostro incontro, capi che non l’avrei rivisto da vivo. Non dissi nulla, preferendo che quei ricordi sedimentassero nella mia mente, ma avrei voluto sussurrarglieli all’orecchio il giorno in cui lo vidi esamine e sorridente tra le “sue” statue che gli ballavano attorno, cantando: “Un artista non muore! Un artista non muore!”
Pubblicato su La Sicilia il 05.08.2010 Saro Pafumi

domenica 1 agosto 2010

OTTO CHIESE DUE PARROCI

Siamo messi proprio male. La crisi è globale e lo scoramento generale. Un tempo quando si parlava di crisi, si pensava all’economia. al lavoro, alla sicurezza. Oggi a pagarne le spese è la politica, la morale e la stessa Chiesa. Un esempio. A Linguaglossa ci sono ben otto chiese e solamente due parroci. Avviene che nello stesso giorno, per circostanze casuali si sommano molte funzioni religiose: matrimoni, funerali, battesi, anniversari. Come si possa gestire questo ben Di Dio con soli due preti è uno di quei miracoli che non trova spiegazione. Le prospettive non sono rosee, perché con la crisi del settore ecclesiastico a tutti i livelli, trovare qualcuno che indossi l’abito religioso è un’impresa. Né, d'altronde, i matrimoni e i funerali sono cerimonie che si possono accorpare per ragioni di risparmio temporale. Anzi tra una cerimonia e l’altra è bene che trascorra un certo tempo, se non altro per ragioni scaramantiche. Forse sarebbe il caso che anche la Chiesa in quest’epoca globalizzata e di crisi esistenziale, consorziasse le proprie strutture, aprendo al contributo delle chiese vicine, in modo da unire le forze e svolgere i propri compiti all’insegna della collaborazione. Una specie di “ serrare le file”, anziché muoversi a ranghi separati come avveniva fino a qualche tempo addietro. Il fedele, in definitiva non è altro che un utente speciale o per usare un termine prosaico, “un consumatore”, di servizi, poco importa se si chiamino funzioni religiose o altrimenti.
La celerità, l’organizzazione, l’efficienza, la tempestività sono requisiti molto richiesti in quest’epoca in cui “il risparmio del tempo” è un’esigenza sentita e generale. Se in certi casi le crisi esistenziali si sviluppano e si moltiplicano avviene anche per il disagio che c’è in ogni manifestazione della vita quotidiana, dal benessere fisico a quello dell’anima.
Pubblicato il 01/08/2010 Saro Pafumi