mercoledì 1 maggio 2024

Non tutti sanno che........

 

Non tutti sanno che………

Non tutti sanno che al nostro esimio concittadino Prof. Salvatore Castorina è stato conferito, di recente, un importante riconoscimento: la targa della tessera e del distintivo a vita dalla sede centrale del Lions Club International Stati Uniti, su proposta del Lions Club di Taormina. Ho avuto modo di visionare l’originale del riconoscimento, riportato in forma sintetica dal quotidiano La Sicilia del 30 u.s. dove si legge la motivazione: “Uomo di grande umanità e cultura che ha dedicato parte della sua vita ad azioni filantropiche e umanitarie, che sono oggi un vero orgoglio per il lionismo internazionale” Nell’articolo si fa cenno anche al Campus della Comunità di Capodarco, con sede in Linguaglossa, costruito con finanziamento lions, che nel periodo estivo ospita numeroso giovani disabili, provenienti da tutto il mondo. La vita e l’azione del nostro concittadino Prof. Castorina, mi richiama alla mente un altro grande personaggio della medicina, Giuseppe Moscati, detto “il medico dei poveri”, il cui corpo riposa nella Chiesa del Gesù Nuovo a Napoli. Chissà se un giorno anche per lui, si compirà il percorso evangelico del Moscati. L’accostamento non è casuale, ove al termine povertà non si attribuisca il significato letterale del tempo in cui visse il Moscati, ma la condizione di chi oggi soffre e non ha una risposta dallo Stato, spesso soddisfatta da Cliniche private, la Morgagni, in primo luogo, fondata dal nostro concittadino, che si aggiunge, come fiore all’occhiello, alle tante, altre sue iniziative nel campo medico e umanitario.

 

Non tutti gli amori fioriscono in primavera

 

Non tutti gli amori fioriscono in primavera.

“ Tho! Guarda chi ci viene incontro, lei: una bella donna, impegnata nel sociale. Se vuoi, te le presento” disse Mario

 “Non è il caso, in mezzo a tanta folla” rispose Dario, che, scostandosi da Mario, fece finta di guardare dentro una vetrina, per evitare l’imbarazzo di quell’incontro inaspettato.

Non ebbe il tempo di formulare la risposta, quand’ecco che lei lo urtò con la spalla, per evitare d’inciampare con chi le stava davanti, in quella mattina di tarda primavera, in cui molta gente affollava la città.

Nessuno chiese scusa per quell’atto involontario, come se entrambi non avessero colpa di quello scontro. Uno scontro assai fugace, che nella mente di Dario lasciò qualcosa d’incompiuto, quasi un presagio di ciò che sarebbe accaduto.

Lei, Rita, così si chiamava, era impegnata nel sociale e Dario frequentava spesso quell’ambiente, dove praticava il volontariato. Prima  o poi doveva accadere che s’incontrassero e quando avvenne, Dario si ricordò subito di quello ‘scontro’avvenuto in quella lontana mattina di primavera.

Ora lei gli stava davanti, in tutta la sua avvenenza, rimanendone folgorato. Il suo aspetto fisico possedeva un non so che di mistico, che esaltava la sua bellezza, soave e leggera, quasi evanescente, come un giorno di primavera, che per la sua natura poetica, aiuta a formulare emozioni e sensazioni profonde. La stessa sensazione che si attiva, quando si ammira un campo di ciliegi in fiore, che odorano di primavera. Le sue mani bianche, come il latte, quando si muovevano par accarezzassero l’aria. La sua voce calma, suadente, ma incerta,  accompagnava il suo sguardo, che si perdeva nel vuoto.

Gli incontri col tempo diventarono numerosi, sempre più forieri di sensazioni forti per entrambi, trattenute dalle condizioni personali: lui coniugato con prole, lei casta, per virtù. Una scelta forte, che presuppone la convinta rinuncia a donarsi, in vista di beni ritenuti superiori: etici, religiosi o per accadimenti naturali o esperienze di vita Con la crescente intimità, lei fini di ammettere che quella scelta era nata da una cocente delusione d’amore e con quella scelta libera aveva trovato rifugio, per fuggire alle umane passioni. Una scelta che Dario considerava stantia, banale, sprecata, dato il suo irresistibile fascino, ripiegato tra le piaghe del destino.

Tra un incontro e l’altro, era inevitabile che quelle due vite, racchiuse in gabbie separate, fossero destinate a intrecciarsi, senza un perché, finché un giorno le vincenti forze della natura sbocciarono in un bacio. Lei non si ritrasse, ma non assecondò l’amoroso gesto. Lasciò che le sue labbra rimanessero serrate e il suo viso si girasse dall’altra parte, sospinto da quello sfuggente bacio. Solo i loro occhi parlavano, lanciando vicendevoli sguardi, pungenti come aghi di pino, da cui par trasudassero repressi desideri di due martoriate anime. Per Dario il bacio su quelle labbra inafferrabili, non accettato, ma nemmeno respinto aveva il sapore del miele. Gli occhi di quella donna che gli stava davanti, sembravano a Dario fiocchi di gioia che si adagiavano dolcemente sulla sua anima, mentre a lei quel bacio inaspettato parve una carezza di Dio. Nessun dei due osava aprirsi, imprigionati, com’erano, in storie diverse. Quell’amore, non cercato, era solo un seme sepolto nel mondo oscuro delle intenzioni, che mai si sarebbe tramutato in fiore, simbolo di una primavera amorosa. La prole e la castità, che contrassegnavano le loro vite, erano valori irrinunciabili. Rimaneva solo quel bacio, una bianca rosa, in un giardino di spine, un suggello d’amore impossibile. Nato per caso, perché poteva accadere, perché doveva accadere, perché è accaduto. Come le tante cose che accadono senza un perché.

 

 

 

 

Noi e l'alheimer

 

Noi e l’alzheimer.

L’alzheimer, una patologia che blocca la mente e rende irriconoscibile tutto ciò che la circonda, non è una malattia alla quale è facile assuefarsi. Quando una persona cara muore, col tempo subentra la rassegnazione, ma se la stessa è affetta dall’’alzheimer la reazione è diversa, si direbbe più triste e dolorosa. E’ difficile accettare la barriera che ci divide dalla persona amata, muta nella mente, che sta a guardarci, come se una vita trascorsa insieme fosse un sorso d’aria svanito nel petto. Tra noi e la persona cara, la vita ha posto una siepe di filo spinato, contro cui la nostra anima, nel vano tentativo di riportare alla luce quel grumo di ricordi succhiati dal buco nero del nulla, s’imbriglia, sanguinando gocce di dolore. L’alzheimer, anticamera della morte, rinchiude la persona affetta in un virtuale campo di concentramento, dove a germogliare, non è più un’anima, ma il fiore del dolore. Una visione immaginaria, magistralmente descritta nell’’opera pittorica di E Munch, dove si vede una donna in uno stato di profonda tristezza, con attorno tanti fiori appassiti, simbolo delle persone care che le stanno a fianco e vivono la sua stessa sofferenza. Un dolore che non ha mai fine e veste forme diverse. Tra tanto soffrire ci piace immaginare chi è affetto da alzheimer come un fiore col capo chino, che al tramonto della vita si appresta a volare tra le fuggenti nuvole, alla ricerca di un luogo dove attecchire e rifiorire, se ciò può servire a lenire anche le pene di chi resta. Pubblicata oggi 01.05.2024 su La Sicilia

venerdì 26 aprile 2024

Al di là di noi

 

Al di là di noi

 

Rivivo tra le pieghe dell’anima

i giovani sussulti del tuo corpo

e la tua voce che, sottile,

si spinge dentro di me incitandomi.

 

Nel dolce silenzio che ci avvolge

annegano finalmente i nostri pensieri

e le sensazioni diventano giganti senza tempo

che proiettano le loro ombre al di là di noi

per divenire esse stesse tempo.

 

Poi la carezza del tuo fiato

o il bacio di una mia carezza,

infrangendo d’improvviso attimi di assenza,

che colorano di eterno,

trascina le nostre anime abbracciate

attraverso il mare della clessidra,

dove tra minuti granelli di tempo

si mescolano le nostre vite di sempre.

 

Tratta da Fiori di datura. di saro pafumi

mercoledì 24 aprile 2024

Quando a Linguaglossa le colline erano in fiore

 Quando a Linguaglossa le  colline erano in  fiore.

Il titolo di un a vecchia canzone recitava “Le colline sono in fiore”.Oggi se osserviamo le colline, un tempo verdeggianti, che incorniciano Linguaglossa come perla incastonata in una conchiglia, di esse resta solo l’ amaro, secco stupore . Una stretta al cuore quelle diffuse chiazze brulle, che dell’alopecia han le forme. Ampie zone incolte, senza colori, qualità e forme, che il seccume ha reso sterili, senza compassione e pietà alcune. Il contadino, stanco di lavorare, ha preferito cercare altrove la sua ragione, lasciando ivi sepolta la sua anima, sotto una coltre di dolore. Un tempo quelle che sono oggi macchie brulle erano verdeggianti viti o  dorati ricami di ondeggianti spighe: vino e pane, che il lavoro rendeva dolci come il miele. Era allora il tempo in cui si lavorava per la felicità di vivere e non, come oggi,  per l’infelicità d’avere. Oggi a posto dell’ultimo vitigno o spiga  “ la mugghiante greggia e la belante c’è lassù su quelle cime”’dove la vite e il grano hanno lasciato il posto allo sterco, che si mescola all’acre, pungente odore del selvatico finocchio o del bianco-rosato aspro, pungente origano, vero “splendore di montagna” (oros  ganos) qual è chiamato dai nostri greci padri. Eppure, lassù, un giorno il contadino dovrà tornare, per disseppellire la sua anima, se vorrà campare. Possano quelle secche colline ritornare  in fiore perché noi che qui abitiam,come recita la vecchia canzone, “ stiam morendo di dolore”. 

martedì 23 aprile 2024

L'amara solitudine del'uomo di oggi

 

L’amara solitudine dell’uomo di oggi.

In quest’epoca di valori sovvertiti, anche i rapporti sociali hanno mutato pelle. Non c’è l’antica spensieratezza d’un tempo, oberati come siamo da tanti problemi quotidiani. Da qui un diverso approccio col nostro prossimo, con cui c’imbattiamo tutti giorni. Guai a rispolverare l’abusata domanda di rito: “Come stai?”. Si sente snocciolare una serie di sciagure, malattie, disgrazie, disinganni che se non sono un’istigazione al suicidio poco ci manca. Guai a tentare di parlare di economia o politica. Ognuno sa come redigere il bilancio dello Stato, come formulare una legge, come risolvere il problema della sicurezza sul lavoro o quello della disoccupazione, magari proprio di chi lascia l’auto in seconda fila o sulle strisce pedonali o non ha la macchina assicurata. Alla domande sulla salute, meglio rispondere che è tutto a posto, che in famiglia i rapporti sono eccellenti, che nostro/a figlio/a si è laureto/a con 110 e lode, anche se da dieci anni è alla ricerca d’un lavoro. Ostentare salute, fiducia e sicurezza è il modo migliore di finire un incontro, perché alla fine al prossimo non importa un fico secco di quanto ci può capitare. Una ricetta culinaria siciliana mi suggerisce una metafora da riferire all’uomo di oggi. In quest’epoca in cui imperversa un esagerato individualismo, l’uomo assomiglia al falsomagro: arrotolato su stesso e imbottito di poche, confuse idee, critica quotidianamente il Potere in ogni sua espressione: il sindaco che ha votato, la maestra che non dà un alto voto al figlio, il vicino di casa rumoroso, il salumiere che imbroglia sul prezzo o sul peso, e persino l’amico logorroico. L’uomo odierno non salva nessuno, nemmeno Cristo in croce, che si è immolato per i nostri peccati. Un’insofferenza generalizzata, alimentata dalla mancanza di valori, cui credere (famiglia, religione, politica, fede), che, quando difettano o sono mancanti, generano il disinganno del proprio credo, ossia la perdita di contatto con una realtà diversa da quella immaginata o sperata. Un vuoto che colmiamo con tendenze effimere o con la corsa al denaro, che non colmano alcun vuoto interiore. E’ desolante apprendere che le nuove generazioni crescano con l’idea che l’unico valore sia il denaro. Un vuoto interiore che genera insicurezza e insoddisfazione, che sprofonda l’uomo in un’amara solitudine. Da qui l’esigenza di colmare questo vuoto con falsi miti:il denaro,il successo a tutti i costi, la droga, la moda e le tendenze effimere, i finti divertimenti e le riunioni da sballo: ingredienti, che come nel senso traslato dell’espressione “falsomagro” e in senso ironico si può applicare all’uomo di oggi, per significare la sua natura ambigua tra consistenza esterna e sostanza, che rende la vita dell’uomo moderno sempre più opaca e contraddittoria tra ciò che si vuole essere e ciò che si è. Pubblicata oggi 23.04.23024 su La Sicilia..

 

 

sabato 20 aprile 2024

L'avviso di garanzia. Da gogna a sfida.

 

L’avviso di garanzia. Da gogna, a sfida.

Lavviso di garanzia” è l'atto con il quale il Pubblico Ministero informa l'indagato e la persona offesa, del compimento di un atto d’indagine…..”(art.369 C.P.P.).Un principio che va a braccetto con lpresunzione d'innocenza, secondo la quale un imputato non è considerato colpevole, sino a che non sia provato il contrario, nei suoi tre gradi di giudizio. I principi testé esposti sono chiari, eppure nella realtà avviene che un avviso di garanzia sia considerato, ipso facto, indizio di colpevolezza, con la gogna mediatica che ne deriva. Da che cosa nasce questa malevola interpretazione di un principio così chiaro? Prima di tutto dalla religione, secondo la quale siano tutti peccatori, e da peccatori, a colpevoli, il passo è breve. Ma è la natura umana che ci fornisce la spiegazione: la predisposizione dell’animo all’aticofilia e al sadismo, di cui è affetta tutta l’umanità, inadatta a confrontarsi con le proprie insicurezze e paure: un impulso innato, dolce come il miele, che i media diffondono ed esaltano, con la loro ‘pornografia del dolore’.Incapaci di ricavare appagamento dalla nostra vita, lo ricerchiamo nei patimenti dell’altro, Come uscirne? Prima di tutto parificando l’attuale disparità tra pubblica accusa e difesa, specie in ordine alla custodia preventiva,che va neutralizzata tutte le volte che la difesa offra gli arresti domiciliari, privilegiandoli sulla prima.  Pensando, poi, che su quell’avviso di garanzia, inteso come ‘sfida’ tra pubblica accusa e difesa, ci può essere scritto il nostro nome. Tra le poche certezze che abbiamo, dobbiamo sapere che la ruota della vita gira per tutti e quel benvenuto o malaugurato ‘avviso di garanzia’, a seconda i punti di vista, spunterà, prima o poi, per ognuno di noi, come la gramigna in mezzo a un campo di grano. Basta aspettare. Pubblicata oggi 20.04.2024 su La Sicilia.

martedì 16 aprile 2024

La nostra è vera democrazia ?

 

La nostra è vera democrazia?

Siamo così sicuri di vivere in un regime di vera democrazia? Se ci guardiamo attorno, siamo certi di pensare in autonomia? Il pensiero è l’unica attività che nasce libera, per poi perdere questa libertà, condizionati come siamo da tutto ciò che ci circonda. La stampa e in genere chi informa, quando s’interessa di politica, contiene in embrione il seme dell’illiberalità, il contrario di ciò che invoca per se stessa, giacché il suo principale scopo è quello d’informare, orientando verso un fine prefissato. La televisione, la carta stampata sono i mezzi che distribuiscono informazione, ma, a ben vedere, non sono entità neutre. Puntano a un preciso scopo: fare proseliti per un’idea. Il lettore non fa altro che scegliere una ‘pietanza’ già servita. Una notizia diffusa da un organo, non è mai una semplice notizia, ma indossa un abito diverso, secondo da chi è commentata, inducendo il lettore a condividerla e a sposare le stesse idee Si diventa così affezionati lettori del medesimo quotidiano o fedeli telespettatori delle consuete trasmissioni televisive. Si potrebbe dire: “ Dimmi cosa leggi o vedi, e ti dirò cosa pensi”.Si sceglie il giornale o il programma televisivo secondo il proprio indottrinamento, che ci risparmia la fatica di pensare, determinando dipendenza e assuefazione,che ci rende prigionieri di un’altrui scelta illiberale. Tutto ciò non ha nulla in comune con la vera democrazia,che deve saper distinguere il vero dal falso, evitando di farsi condizionare. Mille volte meglio un uomo libero,che vegetare,gracchiando a guisa di rana in una palude di menzogne e falsità. Pubblicata oggi 16.04.2024 su La Sicilia.

lunedì 15 aprile 2024

La bellezza del corpo femminile non ha eguali

 La bellezza del corpo femminile non ha eguali.

La bellezza del corpo femminile è una realtà indiscussa. Sarebbe il caso di considerarla patrimoni dell’umanità.  Per noi uomini, c’è da rimanere grati al Padreterno per questa scelta. Avrà avuto le sue buone ragioni. Resta il fatto che le bellezze sono molte, a partire dalla grazia delle forme femminili, dalle movenze, dai colori, dall’anatomia in generale, per finire al modo di vestire, elegante e ricercato, che aggiunge un tocco magico a ciò che più bello non si può. Un intreccio armonioso di corpo e comportamento. Un vero simulacro che incontra i gusti maschili e si traduce in attrazione, amore e condivisione di vita. Bisogna andare indietro nei tempi, per trovare un modello contrapposto,quello maschile, tramandatoci dagli artisti del tempo, Fidia in particolare. E’ inevitabile, perciò che i più grandi artisti di tutti i tempi abbiano dedicato la loro arte all’immagine femminile, esaltandone l’universalità. In questa disparità estetica tra uomo e donna, ci consola la facilità con cui la donna spesso s’innamora di uomini brutti, forse per accorciare la distanza, dando priorità alla ricerca di valori più profondi. Forse per questo è vero l’antico detto popolare: “ Due belle facce non possono dormire su di uno stesso cuscino”.

venerdì 12 aprile 2024

L'agnosticismo senile.

 

L’agnosticismo senile

Con l’età si è indifferenti quasi a tutto, perché venendo meno le forze, entra in gioco l’autodifesa contro tutto ciò che può procurare malanni fisici o mentali. Anche la politica si affronta con distacco, per non essere coinvolti passionalmente, come quando si era giovani o più verosimilmente, perché la saggezza ci fa vedere i problemi da una prospettiva, deputata da interessi di parte o egoistici. Un disagio che si manifesta nei dibattiti sui media, dove la ragione è sopraffatta dalla mistificazione e dalla menzogna. Uno spettacolo poco edificante, che allontana dalla politica. Non meno imbarazzo si avverte quando,  discutendo di processi penali, sono sviscerati particolari coperti da segreto istruttorio o indizi, spacciati come “prove”’, senza l’ausilio di un confronto vero, che distorce la natura del processo, che pubblico é, e come tale deve rimanere entro i confini delle aule giudiziarie. Si articola, invece, un processo parallelo a quello legittimo, in nome di un giornalismo d’inchiesta, che si sovrappone a quello ufficiale, distorcendone, talvolta, il corso. Tutto questo bailamme politico e giudiziario non giova per niente a informare il pubblico, ma contribuisce ad accrescere lo sconcerto, o l’agnosticismo, con la rinunzia della mente a cercare la verità. Non deve meravigliare, in queste condizioni, l’astensione dal voto, l’assuefazione al femminicidio o più in generale l’indifferenza verso ogni genere di problemi umani. Creano confusione anche certe dichiarazioni dei ‘potenti’, come quella del Papa che dichiara (se mai ce ne fosse bisogno) che “l’inferno non esiste”, e che “l’anima in peccato, scompare”. Mi verrebbe da chiedergli da dove attinge queste notizie, se fino a poche ore fa la Chiesa diceva tutto il contrario. Se le fake news provengono dall’Alto, siamo messi male.

 

 

Le cantilene dei vecchi carrettieri

 

Le cantilene dei vecchi carrettieri

 

Quando nel dopoguerra le auto non raggiungevano la diffusione di oggi, il trasporto delle merci avveniva con i carri e di notte era frequente ascoltare per le polverose, solitarie strade le cantilene dei carrettieri, che si accompagnavano allo zoccolio dei cavalli. Io, che a Linguaglossa abitavo nella piazza principale  del paese, ascoltavo volentieri, da bambino, le cantilene dei carrettieri di passaggio.

Un canto, prima lontano e lieve, che aumentava di tono all’avvicinarsi, fino a mescolarsi con lo zoccolare del cavallo e lo sferragliare cadenzato del carro, per poi dissolversi in lontananza, fino a spegnersi nella tristezza della notte.

 Spesso mi alzavo per vedere nell’oscurità della notte il carro che giungeva, appena  rischiarato dalla fioca luce di un’oscillante lampada a petrolio e porgevo attento il mio orecchio per afferrare quei pochi versi che mi tingevano il cuore di mestizia. 

“Tira cavaddu miu, tira e camina/. L’ura è tarda e la strada è luntana/. Lu suli mi cuddau arreri ‘na spina/’ ‘ndu straduni di la nostra <chiana>/. Ci curpa cu sunau l’Avimmaria/, ca ancora menzannotti è/. Lu scrusciu di la rota e la catina/ cumpagni sunu di sta vuci paisana”/.

Quando nella lontananza la cantilena lentamente si spegneva e la luce della lampada diventava una tremante fiammella, quel canto trascinava seco la mia anima sul carro di quel “disgraziato”, che della notte era compagno, mentre anch’io ripetevo tra le calde e comode lenzuola del mio letto: “ Tira cavaddu miu, tira e camina…..”

 Poi mi scioglievo nel sonno, ma quel canto struggente e lamentoso, accompagnato talvolta dallo sbuffare iroso del cavallo, continuava a riempire l’oscurità di altre strade fino all’alba, quando il sonno del carrettiere, stemperato dal canto, faceva largo ad altra fatica giornaliera.

Tratto dea “Racconti sera” di saro pafumi

 

 

 

 

 

 

 

mercoledì 10 aprile 2024

Quando la natura parla

 

Quando la natura parla.

Arrivarono tutti, puntuali, uno dopo l’altro; la pioggia, i fulmini, i tuoni. Il cielo si oscurò e si riempì di nubi che rovesciarono sulla terra, arsa dal sole e dalla siccità, secchiate d’acqua piovana, come le cascate del Niagara. Nessun palmo della terra fu risparmiato e gli alberi furono lieti di tanto diluvio.  Quando l’impeto della natura si fermò, per consentire alla terra di riprendere fiato, dal suolo si sprigionò un caldo fumoso vapore, liberando un inebriante profumo di terra bagnata dopo tanto soffrire. I rami degli alberi sembravano braccia protese al cielo per ringraziarlo per le ferite lenite. Il sole riprese la sua corsa col suo bianco accecante, privo di nuvole. Le foglie degli alberi, dolcemente rinfrancati, distillarono fresche gocce, che lacrime erano di gioia e di emozione per quell’inatteso rinfresco sperato e gradito. Le margheritine, sollevato il capo chino dal peso della calura, intonarono soavi cori amorosi, che s’intrecciavamo col festoso cinguettio degli uccelli, or liberi di svolazzare con le loro vesti colorate. Tutta la natura parlava e noi ad ascoltare quella sinfonia, che di Dio aveva la voce.    

domenica 7 aprile 2024

L'intelligenza artificiale e i pericoli per la società.

 

L’intelligenza artificiale e i pericoli per la società.

 

 

La società sta ritornando, poco alla volta al passato. Dal matrimonio, alla famiglia, dalla religione, alla politica, persino nel modo di cibarci. Una subdola forma di fondamentalismo socioculturale post-moderno. Non esiste più alcuna teoria esatta, all’infuori della propria, ritenuta la più giusta e la migliore, con la conseguenza che non sappiamo più cosa sia bene o male e i problemi continuano a rimanere irrisolti. Ecco, perciò, che si ricorre all’intelligenza artificiale nell’illusoria convinzione di avere una risposta. Un ritorno al passato, come quando si faceva ricorso all’oracolo: una forma di divinazione presso vari popoli antichi, consistente “in un responso fornito dalla divinità, a una domanda relativa a cose ignote del presente, del passato o del futuro o anche alla giusta maniera di agire in determinate circostanze”, attraverso parole proferite da una figura umana direttamente ispirata dal dio. Oggi quelle stesse risposte si cercano nell’intelligenza artificiale, attraverso statistiche, esperienze, algoritmi, con cui si possono cercare e trovare un’infinità d’informazioni su svariati argomenti. Purtroppo è forte la tentazione di usar quest’intelligenza per scopi non consoni, come nel campo comportamentale e/o morale, col pericolo di rendere il libero pensiero, sempre più schiavo di questi artifizi innaturali, con ciò sovvertendo gli insegnamenti provenienti dalla nostra formazione classica, dovuta ai grandi filosofi del passato, nel valutare in modo pertinente, critico ed efficace le problematiche che emergono dalla vita quotidiana. Rompere questo sottile diaframma che separa l’intelligenza artificiale dal nostro senso critico è il maggior pericolo che corre la società di oggi, sempre più indotta a delegare ad altri la soluzione dei nostri problemi, col risultato d’intorpidire, se non addirittura spegnere, le nostre facoltà intellettive. Pubblicata su La Sicilia Oggi 07.04.2024

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sabato 30 marzo 2024

Quando la pasqua era dei bambini

 Quando la Pasqua era dei bambini.

Un tempo, ahimè, ormai remoto, a Pasqua l’appuntamento di noi ragazzi, a Linguaglossa, era a mezzogiorno davanti alla Chiesa Madre. La sera precedente era un’affannosa ricerca di “troccule” di tutti i tipi, perché il loro rumore doveva essere assordante come l’evento eccezionale che si doveva festeggiare: “vidiri abbrivisciri Cristu”, da dietro l’altare maggiore, con  la bandiera in mano e una nuvola d’incenso che l’accompagnava. Avvenuta la risurrezione Il suono delle “troccule”, in piazza, si mescolava allo scampanio assordante delle campane a festa, perché a quell’ora Cristo risorto era la vittoria della vita sulla morte. Pochi giorni all’anno capitava tanta allegra spensierata partecipazione dei giovani ai riti religiosi e la Pasqua era l’unico giorno in cui il cuore di noi giovani era pieno di gioia e di meraviglia. Di gioia, perché la risurrezione apriva i cuori alla speranza; di meraviglia, perché l’assurgere di Cristo da dietro l’altare si accompagnava all’emozione fanciullesca che la scenografia sacra rappresentava. Ogni attimo di ritardo sull’orario previsto portava con sé una crescente trepidazione negli astanti, specie di noi giovani che, quell’evento, vivevamo con straordinaria, fresca, autentica ingenuità. Ancora col  profumo d’incenso nelle narici, si correva fuori dalla Chiesa in un festoso, crescente delirio, con la “troccula” che azionata a mano o fanciullescamente spinta su ruota finiva di essere un semplice, rustico, rumoroso arnese di legno, per trasformarsi in un magico, liberatorio grido di vittoria sulla morte che la risurrezione di Cristo trasmetteva ai nostri cuori. Oggi che la Pasqua, spostata a mezzanotte, ha lasciato per strada la festosa ingenuità di molti giovani, un auguro rivolgo a tutti, in occasione della Santa Pasqua: poter rivivere nella mente il magico, festoso suono delle “troccule” e nel cuore la fresca giovanile gioia per la risurrezione di Cristo, accompagnata da quel magico profumo d’incenso che ciascuno ha gelosamente custodito in qualche cassetto della propria memoria. Un salto all’indietro, quando la Pasqua era giovinezza. spensieratezza, freschezza, ingenuità, allegria e Cristo  risorto un’emozione, oggi sbiadita

martedì 26 marzo 2024

"Lettera a me stesso".Un tradizionale del lunedì.

 

“Lettera a me stesso”. Un tradizionale del lunedì.

Quando il lunedì s’inizia la giornata, sfogliando La Sicilia, è un piacere leggere “Lettera a me stesso” di E. Trantino, una tradizione, come mangiare pesce il venerdì. E’ forte il desiderio d’immergersi in una buona lettura, fatta di forma elegante e raffinata, in una società che ha abdicato alla sua lingua madre, ma anche di contenuto, perché sprona a pensare: un’attività sempre più rara, sopraffatta dalla quotidiana superficialità. Trovare, su quest’angolo di rara cultura, una nota che mi riguarda, non è cosa di tutti i giorni. E’ come un temporale estivo e inaspettato, che sprigiona i vapori delle strade polverose e apre i polmoni all’odore intenso della terra, come le parole a me dedicate dall’autore, che hanno il profumo della stima e della sincerità. Una sensazione rara a percepirsi in questo mondo popolato, per dirla con l’Autore, da “ portatori, gialli per itterizia dello spirito, che si eccitano come fortunati profeti delle sventure altrui”. Leggere la rubrica “Lettera a me stesso” non è solo il piacere culturale del lunedì, ma una tradizione, per imparare a sapere scrivere, riflettere e pesare, perché questa è la missione che si prefigge l’Autore: cercare negli altri, attraverso la metafora di una lettera a se stesso, le risposte alla solitudine in cui è sprofondato il mondo di oggi, senza futuro, privo di solidarietà e di valori. Pubblicata su La Sicilia oggi 26.03.2024.

domenica 24 marzo 2024

Sulla separazione delle carriere

 

Sulla separazione delle carriere.

Ogni qualvolta si dibatte sulla separazione delle carriere, tra giudici e pubblici ministeri, ciascuno mette in campo le proprie ragioni, pro o contro tale ipotesi. Non v’è chi non veda come le due attività siano ‘naturalmente’ opposte, poiché richiedono una preparazione giuridico/comportamentale assai dissimile. Il pubblico ministero è per natura il dominus dell’attività dì indagine, il primo investigatore della scena criminis, volto alla ricerca  delle fonti di prova, al fine dell’esercizio dell’azione penale. Tale attività necessita una preparazione culturale specifica, con la mente rivolta all’investigazione, che va coltivata e raffinata con anni di studi e pratica. Nel Pubblico Ministero è necessario il fiuto dell’investigatore, perché tale è la sua funzione: cercare tutti gli elementi necessari per arrivare all’incriminazione del presunto reo. Un investigatore alla Maigret, che non si cala con comprensione nei contesti umani, come nel personaggio televisivo, ma è, invece, uno spietato ricercatore della colpevolezza a tutti i costi.  Come un personaggio del genere, con quell’abito mentale cucito addosso dopo anni di esperienza nel settore, possa d’incanto tramutarsi in giudice, è difficile da capire. Quest’ultimo deve cercare la verità e a tal fine deve sentire la verità come esigenza intima e insopprimibile che, poiché tale, non s’impara, né insegna, ma si possiede come qualità umana. Solo chi possiede questa serena, innata qualità può aspirare a fare il giudice. Esercitare alternativamente le due attività, significa appartenere a due poli contrapposti, che richiedono una preparazione culturale diversa. Non si può programmare l’animo umano come un elettrodomestico, che premendo un pulsante, attua una diversa funzione. La cultura più diffusa del pubblico ministero è la convinzione che “non esistono innocenti, ma solo colpevoli non ancora scoperti”.Un magistrato che si esprime in tal modo, non dovrebbe giudicare, ma provare a vestire i panni dell imputato innocente. A nessun piacerebbe essere giudicato da chi coltiva pregiudizi del genere, per cui quest’alternanza di ruoli suona offesa alla ragione, alla serenità di chi giudica e alla fiducia di chi ne è coinvolto. Pubblicata su La Sicilia oggi 24.03.2024

giovedì 14 marzo 2024

L'insonnia attiva tipica degli anziani

 

L’insonnia attiva tipica degli anziani.

L’anziano più di chiunque soffre d’insonnia. Essa rappresenta, si dice, il desiderio inconscio di allungare la vita. In questo lungo peregrinare tra le ombre della notte, la mente si rifugia nei ricordi del passato, rivedendoli a passo ridotto, come un film che si svolge davanti ai propri occhi. Uno spettacolo che rattrista, perché ha il mesto colore di un passato che non torna. Riempire l’insonnia di ricordi diventa un tormento e la notte si fa più triste e buia. Meglio renderla attiva, riempiendola di cose piacevoli: pensare il contenuto di una lettera da inviare a La Sicilia, la cui lettura non dovrà esaurirsi, tra un sorso di caffè e l’altro, ma fare riflettere. Solo quando l’insonnia ha corpo e vive di propositi, ha senso viverla, e il desiderio inconscio di allungare la vita, diventa realtà. Pubblicata oggi 14.03.2024 su La Sicilia

giovedì 7 marzo 2024

Tristo è colui che gode dei mali altrui

 

“Tristo è colui che gode dei mali altrui”.

L’uomo è un animale dotato di ragione Che sia stata una fortuna averla, ho i miei dubbi. Possedendo la ragione dovremmo essere razionali, ma talvolta la razionalità è distorta dagli istinti, che fanno regredire l’uomo in uno stadio inferiore. Avviene, per esempio che un vicino, un estraneo, più semplicemente un concittadino sia colpito da un avvenimento spiacevole, che lo mette in cattiva luce. A questo punto nell’animo di molti si attiva un sentimento di condanna, ma più spesso di compiacimento dell’altrui cattiva sorte. Ci trasformiamo in zecche che dal sangue altrui troviamo alimento per le nostre debolezze, che altrimenti tali rimangono, se non ancorate alle altrui disgrazie. La condanna di un chicchessia ci fa gioire, la sua assoluzione ci lascia indifferenti, anzi qualche volta ci deprime. Eppure, essendo dotati di ragione, dovremmo gioire, perché un’assoluzione è la vittoria dell’uomo sul male, che è vittoria di tutti. Invece si fa largo la malvagità, un istinto estraneo al vero mondo animale. Questo sentimento malevolo pare abbia origine antiche è ha un nome:, epicaricacia“. ovvero godere della sofferenza altrui, che colpisce la persona insoddisfatta e incapace di guardarsi dentro, perciò si dice: “Tristo è colui che gode dei mali altrui”. Liberarsene non è facile, perché è insita nella natura umana. Non di tutti, per fortuna. Pubblicata oggi 07.03.2024 su La Sicilia

martedì 5 marzo 2024

La gentilezza non ha sesso

 

La gentilezza non ha sesso.

Si dice che la gentilezza sia prerogativa femminile Dante, infatti, parlando di Beatrice la definisce “Tanto gentile e tanto onesta para”. Tra i tanti aggettivi ha scelto quello alla donna più appropriato. Eppure, a ben pensarci, questa qualità non è prerogativa delle sole donne, perché spesso la gentilezza appartiene anche agli uomini. Nella mia lunga vita ho incontrato uomini gentili non solo nell’aspetto, ma anche nel modo di porgersi. Un risultato che si ottiene col giusto approccio, preludio di un’empatia che nasce immediata nello stato d’animo della persona che s’incontra La gentilezza non è solo una qualità innata in chi la possiede, ma più spesso il prodotto di un giusto comportamento relazionale, da cui scaturisce. Per essere gentile bisogna essere in due, perché è dalla comunicazione verbale, da come si gestisce l’incontro, dal giusto tono della voce, da una stretta di mano, che nasce l’empatia. Se si realizza questo scambio di valori, la gentilezza è la naturale conseguenza, maschi o femmine siano i protagonisti. Pubblicata oggi 05.03.2024 su La Sicilia

giovedì 22 febbraio 2024

Linguaglossa,una cornice senza quadro.

 

Linguaglossa, una cornice senza quadro.

Linguaglossa sta vivendo un periodo di stasi. Appare, non per colpa di qualcuno, come una città reclusa, dove tutto è immobile. A voler parodiare uno dei tanti film Western, che la TP. ci propina, sembra una città, che precede una sparatoria o una rapina. Le strade si mostrano soleggiate e deserte, qualche refolo di vento trascina nuvole di polvere, una lanterna dondola sopra un negozio, col suo monotono, struggente cigolare e tutt’intorno silenzio, un silenzio d’attesa, in cui a dondolare è la vita tutta del paese.  Così appare Linguaglossa, feriale o festiva, alle undici di un qualunque mattino. Sembra non un paese piacevolmente pianeggiante, qual è, ma un piano inclinato adagiato su una slavina, che sta precipitando a valle. I rari personaggi che si vedono sembrano comparse, finte persone, impegnate in finte attività. Un set cinematografico, in cui reali sono solo le strade, le case e il silenzio che lo avvolge. In questo scenario di poche ombre mi travesto da viandante e per le vie del paese mi trascino muto e silenzioso con la mia chitarra, cantando con Erica Mou “ Ieri ho sognato che mi baciavi e mi stringevi. Camminavamo, c’era il sole. Linguaglossa era vuota, muta come noi….” Dietro la sua facciata triste si nasconde un paese apparentemente normale, un fiume che, senz’ acqua, scorre, mi abbraccia e scompare, mi trascina sopra la tua carretta d’amore. Un paese che, nonostante tutto, non finisco d’amare.

mercoledì 21 febbraio 2024

Il linguaggio anoressico dei social.

 

Il linguaggio anoressico dei social.

Con l’avvento dei  social e di tutto ciò che ne deriva, si sta assistendo a un impoverimento del linguaggio, adottato in particolar dal mondo giovanile. Un modo sintetico di esprimersi, fatto di segni, abbreviazioni, faccine, animaletti e oggetti vari. Il concetto sintetico, che vuole esprimere una faccina, in passato richiedeva la descrizione di uno stato d’animo, che talvolta diventava poesia, per la gioia del lettore, che nelle parole trovava un loro fascino. Questo moderno modo di esprimersi è tipico di una cultura orizzontale, in cui i soggetti che lo usano denotano un appiattimento culturale, che impedisce le diversità individuali. Un linguaggio privo di emozioni, se per esse s’intendono le percezioni, che il lettore ricava da una buona lettura. Oggi le parole hanno perduto la loro funzione, sono diventate magre, evanescenti, anoressiche, non riconoscibili dal nostro animo, che oggi tace. Il linguaggio usato dai social è estraneo al nostro vocabolario, stritolato da dittonghi gutturali e nuovi termini, veri geroglifici di antica memoria: downloadtaggarelinkarepostarechattaretwittarinstagrammare. Del piacere di leggere (Sur la lecture) resta solo l’opera di Marcel Proust, secondo cui la lettura “consiste, per ognuno di noi, nel ricevere un pensiero nella solitudine, continuando a godere dei poteri intellettuali che abbiamo quando siamo soli con noi stessi”, che, invece, questa nuova moda dei social vanifica, rubandoci l’anima che c’è in ognuno di noi. 

 

lunedì 5 febbraio 2024

La solitudine divora la società di oggi

 La solitudine divora la società di oggi.

Oggi la solitudine è più diffusa di quanto si possa immaginare. La casa non è più il focolare domestico e la moglie, l’angelo della casa. Essa serve solo per dormirci e farci sentire consolati di possederla. Al suo interno non c’è un nucleo familiare, ma un arcipelago, formato da tante isole, che nulla hanno in comune, se non quello di appartenere alla stessa specie. Non esistono interessi comuni e, se esistono, ciascuno bada ai propri. Anni fa conobbi una famiglia piemontese, i cui membri erano tenuti insieme da rigide regole di economia, quasi una società, in cui gli associati erano tenuti a contribuire in proporzione alle proprie sostanze. Mi sembrò più che una famiglia, una tribù, priva di vincoli affettivi, tanto lontana da quella siciliana di nostra appartenenza. Oggi anche da noi i vincoli affettivi sono poco presenti, spesso mantenuti dal bisogno di attingere dalla famiglia, anziché contribuire a mandarla avanti. Una solitudine o se vogliamo un egoistico individualismo, che si coglie anche in piazza, tra la gente. Qui invece di colonia o arcipelago, la comunità diventa solo di facciata, in cui predomina più l’esigenza dell’apparire che dell’essere. Un luogo di conflitti economici, politici, religiosi, e quando questi mancano, per scarso interesse o cultura, si passa al quotidiano, quasi si cerchi più l’occasione per litigare, che lo stare insieme, ragionevolmente in pace. Dalla solitudine che si vive dentro casa, si passa così a quella che si vive in pubblico, che ineluttabilmente sconfina nell’individualismo, intriso di egoismo, invidia, gelosia che caratterizzano l’uomo di oggi

martedì 30 gennaio 2024

Ora "Ascuta!" lo dico io.

 

Ora “Ascuta !” lo dico io.

Era immaginabile l’imbarazzo di ASCUTA a rispondere alle mie due domande. rimaste senza ascolto. Il che contraddice la finalità della vostra associazione/partito. Se avete scelto come logo “ASCUTA”, è prevedibile che qualcuno vi ponga una o più domande, perché l’esortazione ad ascoltare contiene un messaggio fatto di parole. Se mancano queste, il dialogo, si fa per dire, diventa tra muti. Dove starebbe la conclamata novità del vostro essere diversi dagli altri, se vi private delle parole o le impedite agli altri? Mi verrebbe da dire che siamo caduti dalla padella nella brace, il che era prevedibile, perché spogliarsi di pregiudizi, in questo nostro paese è impossibile. Ne è pieno il nostro DNA. Altro che nuove generazioni, se si rimane ancorati a un passato che non muore. A questo punto, permettetemi un consiglio: o cambiate musica o cambiate il vostro logo, sostituendolo con altro di questo tenore: “Iò ma cantu e iò ma sonu”.Auguri per il vostro futuro.

 

lunedì 29 gennaio 2024

Linguaglossa,un paese di spettatori

 

Linguaglossa, Un paese di spettatori.

Poco è cambiato in questi ultimi cinquant’anni. La popolazione continua a essere assente nella vita pubblica del nostro paese. Al tempo dei partiti, gli schieramenti erano definiti, e i cittadini usavano il battimano per acclamare i leader del proprio partito. Memorabili gli scontri tra i giganti della politica. Da una parte G. Barletta e dall’altra S. Calì. I cittadini spettatori di battaglie che non capivano, ma fedeli al proprio credo politico. Oggi di questi dibattiti rimane solo uno sbiadito ricordo. Sopravvive una loro lontana eco nel vari social, senza quell’afflato politico, che segnava i dibattiti di allora. La distanza tra chi amministra e il popolo é più marcata. Quasi incolmabile. Si parla di politica solo nei bar, tra un cappuccino con cornetto e un buon caffè, distanti, come siamo, dai tanti problemi che ci assillano. Fanno bene i politici a non tenere in nessun conto le poche opinioni che i cittadini manifestano sul loro operato. Hanno capito che i cittadini non hanno corpo, ma sono solo ombre vaganti in un mare d’indifferenza generale. Leggendo i vari social che sporadicamente si occupano della vita amministrativa del nostro paese, è evidente la “riservatezza” dei cittadini, con la quale si approcciano ai problemi, che diventa paura di manifestare la propria opinione, rinunziando in tal modo a quella libertà di espressione che deve essere patrimonio di tutti. Mettere “mi piace” alla fine di un articolo, è per molti come mostrare la propria nudità, che non è una forma di pudore, ma mancanza di coraggio. Per costoro non esiste alternativa. Il mutismo è la loro parola armata. con la quale non si persegue la verità, ma ci si accontenta di immaginarla. Siamo spettatori di una realtà che non  ci appartiene, avendo  delegato ad altri la facoltà di scegliere a posto di noi. rinunziando consapevolmente a ogni critica, che ha un solo nome: ignavia.

domenica 28 gennaio 2024

I lampioni di Piazza Matrice

 

I lampioni di Piazza Matrice.

Il territorio d un paese è come l’organismo umano. Bisogna averne cura, perché in caso d’incuria soffre per poi soccombere. In questo nostro paese si decide all’insegna del pressapochismo, senza che nessuno batta ciglia sul merito di certe discutibili iniziative. Come sia potuto accadere, mi chiedo, per esempio, che quei lampioni di rara bellezza che ornavano Piazza Matrice, siano stati, rimossi e collocati, se non erro, nella Villa Milana.La loro solenne presenza in quel posto dava alla piazza un’aria aristocratica da “Belle epoque”. Nella Villa Milana, invece, quei capolavori di arte tardo romantica si confondono con le numerose piante, perdendo valore e fascino. La visione di quei lampioni suggeriva una concezione romantica della vita, rappresentata dalla suggestiva canzone di Modugno “L’uomo in frac Si diceva: “ Come sia potuto accadere…..”. Purtroppo in quel periodo di felice fermento del paese, sì intrecciavano interessi di bottega. Accadeva, infatti, che si lucrasse su certi lavori pubblici, per cui “il fare” si mescolava “al ricevere”, eseguendo opere pubbliche, nella certezza di ricavare benefici personali. Lo spostamento dei lampioni dalla Piazza a Villa Milana, con la scusa di rinnovare l’illuminazione del sito, con altra ben più moderna, rappresentava una ghiotta occasione di spesa, che non andava sprecata. Se questo spostamento comportasse una scelta scellerata, poco importava, suffragata, com’era, dall’indifferenza del paese. Altro esempio, la costruzione del ponte sulla linea ferroviaria della Circum etnea. S’iniziava l’opera sfruttando un finanziamento, pur con la  consapevolezza di non poterlo ultimare, lasciandolo incompiuto per oltre trent’anni. Poco importava  se quel manufatto incompiuto  deturpasse un quartiere. La logica era sempre la stessa: spendere e spandere, ossia sperperare  al fine di lucrare. Oggi la politica è cambiata: non si fa nulla. Siamo caduti dalla padella nella brace. In compenso è accresciuta l’attenzione verso il territorio, non certamente nei confronti del tessuto urbano, che continua a essere ignorato, ma su problemi più ordinari: la raccolta della spazzatura, la circolazione viaria, la refezione scolastica, ecc. Abbiamo perso l’abitudine di pensare in grande e viviamo di rendita, quella lasciataci da chi ci ha preceduto. E i giovani? Hanno altro cui pensare, troppo fragili per accettare le difficoltà e gli inciampi che la vita gli offre. Soffrono per mancanza di prospettive. Da qui la loro voglia di cambiare tutto, senza però una visione valida su cui far confluire il loro sforzo. In quest’epoca di transizione non ci resta, dunque, che segnare il passo, in un’attesa indolente e senza scopo.

 

giovedì 25 gennaio 2024

Il sapore del passato.

 Il sapore del passato.

Spesso la nostalgia del tempo passato invade la nostra anima. E’ il momento in cui i nostri ricordi assumono forma, e l’anima si scioglie nel delirio di viverli. Momenti, che il tempo ha sbiadito, ma non spento. Ogni mezzo è utile per tuffarci nel passato. Un frutto, un fiore, un dolce, inghiottiti dalla monotonia della vita quotidiana, ci fanno ritrovare il sapore del tempo perduto La mostarda, la cotognata, le castagne infornate con le divertenti “scattiole”sono sapori che continuano a deliziarci. Assaporare un grappolo di uva bianca appesa alla trave del solaio, per consumarla fuori temo, diffusa consuetudine per quei tempi, ci riporta al tempo della vendemmia, con i suoi riti e le sue tradizioni. Ritrovare la ‘muscatedda’, oggi scomparsa, ci ricorda la guerra che si combatteva tra il pecoraio, il massaro, il confinante, le vespe e il padrone, tutti in corsa per accaparrarsela. E la soppressata casalinga appesa alle canne, per asciugare? E le frittelle di ricotta coperte di zucchero? Quanta nostalgia per i ciclamini e le violette, che si raccoglievano nei noccioleti al tempo della raccolta, che par facessero rivivere “il Sabato del villaggio”. Quanti i contadini che tornando a casa trascinavano seco nei pantaloni intrisi di fatica e fango, il profumo della “nipitedda”, che si accompagnava alla “mpicalora”, croce e delizia per le mogli, che quei logori, infestati vestiti dovevano ripulire. Fa tanta tenerezza vedere ancora tra le tegole che coprono la stalla rari mucchi di ficodindia, oggi sostituiti, per colazione, da caffèlatte burro e marmellata. E il sanguinaccio, nella versione dolce, con pinoli e diavolini colorati, come guarnizione? Che delizia, perduta ! Oggi, questi ricordi sono sepolti nella memoria, ma quando riemergono, ci restituiscono brandelli di spensierata gioventù, Sono le ali della nostra fantasia, che ci fanno volare tra cieli tinti d’azzurro e pieni di sogni: desiderio d’immortalità. 

mercoledì 24 gennaio 2024

La telenovela

 

La telenovela.

E’ diventata una ‘vexata quaestio’ la telenovela dei quadri che il nostro concittadino Mario Vasta, artista di talento, aveva intenzione di donare al Comune di Linguaglossa, suo amato luogo di nascita. Tra alti e basi, proposte accettate o respinte, soluzioni suggerite e scartate, ammiccamenti e ipocrisie varie, si articola tutta la vicenda, la cui soluzione è ancora lontana. Forse si sta aspettando che la famiglia dell’Artista si stanchi di questo ignobile, altalenante condotta e mandi tutto a monte. Ipotesi plausibilissima e giustificata, per chi nei panni dei donanti, incontra tanta resistenza e/o incomprensione verso un atto di assoluta generosità. Sento di esternare una sensazione di sdegno oltre che verso le Autorità, che non riescono a risolvere la questione, anche nei confronti della popolazione, che in un frangente come questo, si limita a guardare. Capisco che la cultura non interessi più di tanto, paradossalmente nemmeno a coloro, che pomposamente dichiarano di curarla, ma in casi come questi, l’orgoglio di un paese deve farsi sentire, perché se vogliamo che Linguaglossa cresca, lo sforzo deve essere corale. Se una questione, come quella in atto, non trova soluzioni, nonostante la sua superabile, connaturata semplicità, cosa dovremo aspettarci per problemi ben più complessi? Se in questo paese non abbandoniamo la cultura dei favoritismi a questo a quello di turno, non diventeremo mai adulti. La questione dei quadri è, di là della pochezza di chi deve decidere, la cartina di tornasole di una società spenta e lontana dai problemi del paese.

lunedì 22 gennaio 2024

Linguaglossa, un paese "irredimibile"

 

Linguaglossa. Un paese “irredimibile”.

Nemmeno al tempo dei partiti politici esisteva la guerra che oggi c’è tra noi cittadini. Sembra una guerra civile poggiata sul nulla, perché di nulla stiamo parlando, in un paese immobile, alla ricerca di un’identità perduta. Un’atmosfera di odio e indifferenza che si nota camminando per le strade o smanettando tra i tanti social, che ci ‘deliziano’ giornalmente. Da che cosa nasce questo senso d’incomprensione, divenuto avversione, è poco chiaro. Forse dall’insoddisfazione, che c’è dentro di noi, la cui causa ci piace addebitare agli altri. E così’ ogni parola, commento o critica diventano pietre scagliate contro gli altri. In questa sassaiola, che ci riguarda tutti, restano confusi i ruoli dei protagonisti, e non si capisce chi lancia e chi riceve i sassi. Una sola cosa appare chiara: ciascuno si sente vittima di qualcosa o qualcuno. In questo pericoloso piano inclinato in cui si sostanzia l’intera comunità, è comodo sconfinare nel personale, passando alle invettive, anziché confrontarsi su problemi generali, che riguardano il futuro del paese. Un confronto su temi generali, diventa un cortile, un affare tra comari, dimostrando a quale livello intellettivo è giunta la nostra società, che per certi versi, non c’è da stupirsi, ricalca il palcoscenico dei dibattiti in TV. dove trionfa un provincialismo da strapazzo. In questo clima da cortile, forse è meglio tirare i remi in barca, perché per un paese che non vuol crescere, non c’è nessuna discussione utile da portare avanti. Prendendo a prestito, un’affermazione di Sciascia, vien da dire che Linguaglossa, è divenuto un paese “irredimibile”.

domenica 21 gennaio 2024

Le lacrime e la verità

 

Le lacrime e la verità.

Chissà se un giorno la scienza riuscirà ad analizzare le lacrime non nella loro composizione chimica, che già si conosce, ma come emozioni e sentimenti che contengono. Si piange per un dolore fisico, per una sofferenza emotiva, per la perdita di una persona cara, per rabbia, tristezza, cordoglio, frustrazione o in qualche caso anche per gioia. Identificare il grado di dolore o gioia nelle lacrime può essere l’inizio di un percorso ben più importante: distinguere le vere lacrime da quelle false, il che significa scoprire le variazioni degli stati affettivi..Già siamo sulla giusta strada perché è stato scoperto che le lacrime emotive contengono elementi più alti di proteine. manganese, potassio e ormoni, che, se non liberati, potrebbero nuocere all’organismo. Una scoperta che avvicina la ricerca della verità, quella che l’uomo tende a raggiungere, senza mai riuscirci. La speranza è nella scienza, Se si è scoperto,così pare, il peso dell’anima, non è lontana la possibilità di scoprire la verità, che c’è dentro di noi. E’ stato scoperto che una coppia di cromosomi X e Y (XY) determina un maschio e una coppia di cromosomi X e X (XX) determina una femmina. Chissà se esiste il cromosoma che contiene la verità. Sicuramente in un anfratto sconosciuto e remoto della nostra mente esisterà il cromosoma della verità. Se la verità ha una sua struttura,costituita dal rapporto tra pensiero e realtà, scoprire questo rapporto , significa scoprire la verità, che nessuno può mettere in dubbio,giacché ci sarà corrispondenza tra ciò che si pensa e la realtà. Se scoprire le lacrime finte da quelle vere, è possibile, sarà possibile scoprire le parole finte da quelle vere. Se si dovesse scoprire tutto ciò, il modo sarebbe certamente migliore.

 

giovedì 18 gennaio 2024

Un paese che odia è un paese destinato a non crescere

 

Un paese che odia è un paese destinato a non crescere.

Come si fa a far capire a tanti cervelloni pensanti, che criticare il proprio paese, non significa denigrarlo, ma stimolarlo a crescere?

Come di si fa a far capire a tanti cervelloni pensanti, che criticare il proprio paese, offrendo soluzioni, significa amarlo e farlo crescere?

Come si fa a far capire a tanti cervelloni pensanti, che la critica costruttiva, oltre che un diritto è un dovere?

Come si fa a far capire a tanti cervelloni pensanti, che la critica non è mai personale, ma riguarda le istituzioni, a prescindere dal colore?

 Come si fa a far capire ai cervelloni pensanti, che la verità va sempre detta, anche se fa male ascoltarla?

Non serve criticare chi critica, ma confutare con atti concreti ciò che non si condivide, fornendo risposte adeguate.

Non serve seminare odio verso chi critica, che significa fuga da se stesso, frutto dell’ignoranza e simbolo di debolezza intellettuale e causa di disgregazione sociale.

Piuttosto cerchiano di mettere insieme i cittadini di una collettività, tenendoli insieme, come si fa con i grani del rosario, non da un sottile filo, ma dalla solidarietà. 

mercoledì 17 gennaio 2024

Il turismo,una risorsa.

 

Il turismo, una risorsa

Linguaglossa dopo “la scorpacciata” degli eventi estivi rientra nella normalità, che si concretizza nello stato di sonnolenza che la caratterizza ormai da tempo.

Forse, tirati i remi a bordo, da un’imbarcazione ferma, sarebbe il caso di pensare a come recuperare il tempo perduto.

Linguaglossa ha due serbatoi da cui attingere per il suo sviluppo: il centro cittadino e l’Etna.

Il primo richiede attenzione, conservando quello che di buono possiede e rendere godibile quella parte trascurata che potrebbe fornire aspetti di sviluppo. Penso alle numerose stradine all’interno del tessuto urbano, molte ricche di fascino, che potrebbero, se oggetto di cura, rappresentare un gioiello da condividere e presentate come elemento caratterizzante del tessuto urbano. Su quest’argomento ho scritto un post, che pubblico separatamente. Chi ha voglia di leggerlo lo troverà su FB: “Le stradine non muoiono”.

Per quanto riguarda il tema Etna. In problema è più complesso. Ci sono errori irrimediabili e altri che si possono ancora correggere, se si vuole mettere mano a un serio, armonioso sviluppo.

Gli errori. Avere in primo luogo progettato la posizione delle casette-souvenir in posti distanti tra di loro. Alcuni certamente penalizzati nel periodo invernale. Altri collocati in un sito che toglie visibilità al complesso che sta alle spalle e crea problemi di circolazione nel periodo invernale. Più di tutto è incomprensibile la sistemazione degli alberghi così distanti l’uno dall’altro. In alta montagna sarebbe stato opportuno avvicinarli tra di loro. Rimuovere montagne di neve costa. L’area residenziale sarebbe  potuta essere progettata a forma di ferro di cavallo, con gli alberghi al centro e le casette- souvenir, ai lati. Alle spalle ampi parcheggi. Competenti urbanisti avrebbero di certo meglio progettato la zona. Oggi è impensabile modificare l’ubicazione delle casette, ma le strutture residenziali potrebbero avere una migliore posizione.

Solo riflessioni, nulla di più, che, però, potrebbero essere la piattaforma per approfondimenti in materia. Certe soluzioni potevano essere oggetto di studio molto indietro nel tempo ma tant’è. Forse è tropo tardi? Parlarne giova.

 

domenica 14 gennaio 2024

Quei segnali d'allarme spesso sottovalutati

 

Quei segnali d’allarme spesso sottovalutati.

Certe tragedie familiari che troppo spesso irrompono nella società d’oggi, col fragore di una bomba, non nascono quasi mai per caso. Se così fosse potremmo parlare di pura follia. Hanno invece una genesi prolungata, un malessere che cova sotto cenere, per poi sfociare in delirio puro: una sofferenza metabolica del cervello che catapulta il soggetto in una realtà senza ragione. Ogni forma di prevenzione è difficile, perché il soggetto non comunica al mondo esterno questo suo personale malessere, rimanendo confinato dentro il suo io malato. Né può essere diversamente, perché chi n’è affetto non cerca aiuto negli altri, consapevole di non poterlo ricevere, vivendo in una società di per sé malata, in cui ciascun individuo è più o meno afflitto dagli stessi problemi e quindi incapace di offrire aiuto e/o comprensione, a partire dai parenti più stretti. In questa forma di isolazionismo autogestito, il malessere assume forme parossistiche irreversibili. Da qui al baratro il passo è breve. In queste condizioni, consapevoli del disagio che si vive, sarebbe il caso che chi n’è affetto, si affidi, senza remore, a strutture adeguate, ossia a centri medici che sappiano interpretare i disagi dell’anima e offrire quel supporto psicologico di cui necessita il soggetto malato. Perché di vera malattia si tratta e non di semplice raptus . Coloro che sono vicini a queste famiglie (genitori, fratelli, sorelle, ecc), in cui il disagio del quotidiano vivere non può non essere non visibile, dovrebbero essere le prime sentinelle a far scattare l’allarme, magari allertando apposite strutture di cui la società è carente, ma di cui si sente impellente bisogno. Pubblicato oggi 14.01.2024 su La Sicilia

sabato 13 gennaio 2024

Mia madre e le 'cuzzole'

 

Mia madre e le 'cuzzole'.

Ogni venerdì era una gioia ritornare a casa, dopo una settimana di lezioni universitarie a Catania. Sapevo che il giorno dopo mia madre mi avrebbe preparato le “cuzzole”.Durante la settimana avevo fatto il pieno dei famosi arancini acquistati da Guardina, che teneva il negozio di gastronomia in Via Etnea all’altezza della Sala Roma. Inconfondibili oltre che per il gusto, per l’aroma che catturava l’olfatto di chi si trovava nei pressi. Altro negozio che mi attraeva era la gastronomia Cristaldi, ubicata nei pressi dello slargo da cui dipartiva Via Caronda. Un luogo magico per la preparazione della famosa pasta alla palermitana e per le polpettine fritte di “muccu”. Il sabato mattina mia madre mi mandava da donna Maria “a famusu” con panetteria vicino alla Matrice, per acquistate la pasta di pane, che serviva per la preparazione delle cuzzole.Un’arte in cui mia madre eccelleva, non servendole, come d’uso, inzuccherate, ma imbottendole con acciughe e formaggio primo sale o con formaggio e pomodoro fresco o con cicoli (zirinculi), secondo le preferenze dei familiari. Per distinguerle usava infilzarle con spezzoni di stuzzicadenti. Una vera prelibatezza, oggi quasi perduta, che mi ricorda gli anni della mia giovinezza. Sono tradizioni culinarie che vanno conservate e tramandate, non solo per la loro genuina preparazione, ma più di tutto per ritrovare la freschezza del tempo e preservarle dall’oblio.

venerdì 12 gennaio 2024

Una nuova religione

 

Una nuova religione.

Smanettando su Internet alla ricerca di notizie meritevoli di approfondimento m’è capitato “tra le dita” un sito che può definirsi “ilconfessionale” dei giovani e meno giovani, non quello di pregevole noce che tante volte abbiamo visto in chiesa, ma quello più moderno, rigorosamente telematico,nel quale ciascunoconfessa i propri desideri, spesso esclusivamente indirizzati alla ricerca dell’anima gemella, come panacea di frustrazioni vissute. Nessuno si sognerebbe di gridare in pubblico: ” Voglio fare sesso”, invece il significato nemmeno tanto criptato di questi messaggi telematici è proprio questo. In una società che del consumo e del sesso,oltre che di altre biasimevoli abitudini, ha fatto la propria religione, non c’è da stupirsi. Meraviglia non poco, però, la spregiudicatezzadi alcuni messaggi, in particolare di persone“felicemente” ammogliate con prole,alla ricerca di una seconda, terza, quarta anima gemella. Ciascuno di noi può nutrire inconfessabili desideri, ma prudenza impone di non esternarli in pubblico o per chi ci crede di affidarli, semmai, al proprio confessore o allo psicologo.Come si giustifichi questa confessione pubblica? Leggerezza, spregiudicatezza, disinvoltura, irresponsabilità, sfrontatezza? Solo terapia.Affacciarsi alla finestra di Internet non significadialogarecon la propria “Giulietta”,ma affidare al mondo intero le proprie frustrazioni, dove“ l’altro” è una sconfinata moltitudine di persone e la parolaha ilfragore rumoroso di un uragano, disperato, quantoillusorio. Un grido liberatorio di aiutodi chi in Internet cerca la fede o laforza di credere inse stesso. Forse sta nascendo una nuova religione: Google.

Il compleanno

 

Il compleanno.  (da: Collana di racconti).

Don Concetto aveva preparato tutto per il suo cinquantesimo compleanno. Era stufo di mangiare tutti i giorni pane e olive, pane e cipolla, o dissodando la terra, pane e lumache, che infilzava con la punta del coltello, arrostendole sulla brace,

o pane e formaggio, quel poco che riusciva a racimolare dal pecoraio, facendo finta d non vedere, quando questi portava a pascolo, a contratto scaduto, le sue pecore nelle terre del padrone. Stanco del solito mangiare, aveva portato alla moglie due chili di stocco, che aveva ordinato a don Maru, raccomandandogli che fosse della qualità San Giovanni, perché lo cucinasse alla messinese, come sapeva fare lei. Donna Rosa, cercando tra le poche derrate alimentari, che teneva in casa, si era accorta che mancava quasi tutto per preparare lo stocco, che piaceva al marito. Don Giovanni non era passato, come ogni mattina col suo carrettino, ricco di ortaggi e l’olio era poco, perché donna Rosa aveva saltato, per mancanza di soldi, il giro settimanale di donn’Affiu, l’ugghiularu, aiutandosi nella frittura con la più economica sugna. In quanto all’olio, pensava di chiederlo a comare Lucia, la vicina di casa, perché non tutte erano disposte a regalarlo, prezioso e costoso qual era. Per rimediare tutti gli ingredienti necessari a cucinare lo stocco doveva farsi il giro del quartiere, perciò si diede con le mani una sistemata ai capelli, si snodò il grembiule che indossava per le faccende domestiche, avviandosi per fare la questua. Si accorse che aveva ai piedi ancora le ciabatte, per cui tornò indietro per aprire l’armoire, dove teneva conservate le uniche paia di scarpe che usava la domenica, andando a messa e si avviò, chiudendo l’uscio alle spalle. Trovare ciò che le mancava non era difficile, perché, a quel tempo, tra le donne del quartiere la solidarietà era di casa, a partire dal lievito per il pane, che passava di mano in mano. Quando riuscì a rimediare il necessario, fece ritorno a casa, mettendo sul fuoco il tegame, perché tutto fosse pronto al rientro del marito, avendo cura di cucinarlo prima, perché riposasse, per esaltarne il sapore. A quell’epoca quando le donne avevano finito le faccende domestiche, si riunivano. di solito presso  qualche comare, sedute con le spalle al sole, per rammendare, cucire, spettegolare, in attesa che i mariti facessero ritorno dal lavoro. Don Turi era il primo che arrivava e l’ultimo ad avviarsi al lavoro, sfaticato com’era ritenuto nel quartiere. Le comari vendendolo rientrare, fischiettando, con la zappa in mano e lo zaino sulle spalle,guardavano divertite donna Mena,come per dirle : “Tu pigghiasti, ora tu cianci” Don Turi, in verità, se era sfaticato, aveva un pregio: amava sua moglie, e da lei era corrisposto. Ogni qualvolta tornava dal lavoro le portava sempre un pensierino: una manciata di fragole di bosco, avvolte in pampini di vite,un mazzetto di ciclamini, che donna Mena metteva sotto il naso delle comari,che invidiose erano, anche se preferivano nasconderlo. Poi era la volta degli altri mariti, che alla spicciolata facevano ritorno. Era il momento in cui il sole s’imbucava all’orizzonte,ognuna si riportava la sedia a casa e il raduno delle comari terminava, per dedicarsi al marito. All’epoca i compleanni si festeggiavano solo tra familiari, per le ristrettezze economiche, che non consentivano inviti. Donna Rosa per festeggiare il marito aveva pensato anche ai dolci: una resta di fichi secchi e  una manciata di ‘scattioli’, scelti tra le castagne infornate,assieme al vino che profumava di ginestra, quella che fioriva,rigogliosa, in contrada Borrigliona, dove don Concetto coltivava le sue poche  viti.

Oggi di quella società contadina e solidale non rimane nulla. Si è trasformata in una savana,dove le persone, tristi e inappagate, grugniscono e sbuffano come ippopotami o come coccodrilli sono in agguato pronti a versare finte lacrime per i mali altrui. I campi, un tempo rigogliosi, ora sono, abbandonati e coperti da sterco di pecora, dove germogliano solo ciuffi di finocchietto selvatico e le strade sono piene di rovi. Qua e là si vedono  vaste zone bruciate, che hanno divorato gialli cespugli di odorosa ginestra. Anche martore, donnole e conigli selvatici hanno abbandonato le loro tane per rifugiarsi in buchi profondi più dell’inferno. Si sentono solo i neri corvi pennuti gracchiare canti dì’imprecazione contro chi la sua anima ha abbandonato tra stoppie e rovi fumanti. Non ci sono più le comari, che sedute, con le spalle al sole, davanti all’uscio di casa, divoravano il tempo che non passava mai. Oggi in quelle case abbandonate danzano le porte sospinte dal vento, per attirare l’attenzione di chi passa, per invitarlo a entrare e risentire l’antico calore di chi prima le abitava. La società ha subito profondi cambiamenti, l’ultimo dovuto al covid, che ha allentato qualsiasi rapporto. Non ci riconosciamo più come vicini gli uni all’altro, accomunati dallo stesso destino, dove la solidarietà era la base di ogni rapporto umano. Lontano il tempo in cui donna Rosa chiedeva alla vicina di casa il lievito per il pane o se per caso avesse una cipolla, perché non aveva avuto tempo di andare a far la spesa, né quella mattina, come sperava, era passato don Giovanni col suo carrettino. E’ scomparsa pure la comparanza, servita a stringere un nuovo patto di amicizia in caso di matrimoni, battesimi e cresime, ridotti ai minimi termini per cause diverse. Un vincolo quella della comparanza che talvolta superava quello del sangue.

Non c’è più don Turi che torna a casa fischiettando, né donna Mena ad aspettarlo. Oggi i pettegolezzi si ascoltano alla TV, le comari di una volta si guardano in cagnesco e la solidarietà si trova solo tra i cani randagi, costretti a frugare tra i resti di un lauto pranzo. Fuori dalle abitazioni, a posto delle sedie, che ospitavano le comari, file di macchine posteggiate, che sembrano millepiedi, arti rubati agli uomini che hanno smesso di camminare, forse nell’illusione di tornare bambini e farsi cullare.      

 

 

 

 

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giovedì 11 gennaio 2024

Amiamo il paese in cui siamo nati?

 

Amiamo il paese in cui siamo nati?

Amare il proprio paese non significa amare anche gli abitanti. Per questi ultimi i sentimenti possono essere diversi: gelosie, invidie, risentimenti, divisioni politiche, questioni familiari ecc. L’amore per il proprio paese non è quello che nutre chi vi è nato, perché trattasi di un istinto atavico presente in ogni individuo. Se si fa questa domanda ai cittadini, un terzo non risponde, un terzo non sa motivarla, il restante confonde l’amore con il dovere. Amare il proprio paese significa contribuire al suo sviluppo, aggiungendo con azioni concrete qualcosa che manca, non limitato al solito balcone fiorito o al rifacimento di una facciata.

Amare il proprio paese significa:

-        Prendere parte a tutti i programmi di sviluppo.

-        Studiare la storia del proprio paese.

-        - Confrontarsi con le altre realtà vicine.

-        Conoscere la storia di coloro che ci hanno preceduto, rendendo migliore il territorio e l’economia del paese.

-        Rispettare le tradizioni.

-        Fare conoscere il paese a chi non l’ha mai conosciuto.

-        Insegnare ai propri figli ad amarlo.

-        Criticare le cose che non vanno, suggerendo soluzioni ed esempi.

-        Non considerare la Casa comune come casa propria, piegandola ai propri interessi.

-        Rispettare il territorio come casa propria, dedicandogli le stesse cure.   

Se si osservano questi suggerimenti, solo allora puoi dire di amare il tuo paese.