sabato 27 aprile 2013

Una madre non muore mai

“ Un fascio di rose rosse per mia madre che oggi compie centodieci anni”. Detta così la frase, rivolta da uno sconosciuto al fioraio, che conosco da una vita, mi lasciò interdetto. Avere una madre alla veneranda età di cento dieci anni appena compiuti, non è una fortuna che capita tutti i giorni. Timidamente mi accostai all’insolito interlocutore per saperne di più, perché un traguardo così ambito m’incuriosiva. “ Mia madre è deceduta da oltre trent’anni, ” precisò con naturalezza, “ma per me è come se non fosse mai morta” La sento, l’ascolto tutti i giorni e la festeggio tutti gli anni, come se fosse accanto a me con la dolcezza del suo sorriso che mi aiuta a vivere. Una madre non muore mai e nessun figlio si spoglia della placenta che l’avvolge per tutta la vita.” In quel fascio di rose scarlatte che lo sconosciuto teneva in mano e nelle sue pacate parole lessi l’amore e la certezza che lo guidava. La fede, pensai, è una virtù che aiuta a vivere, una grazia che illumina, una forza che intinge la ragione nella certezza. La madre, morendo, aveva lasciato in eredità a quell’uomo non soltanto la forza del suo amore materno, ma gli aveva trasmesso “il testimone” della vita, in quella che è e rimane una corsa a staffetta tra genitori e figli. Ma per vincere e arrivare alla meta, non basta la forza e la volontà, bisogna correre sospinti dall’alito di chi ci ha donato la vita. Si può vivere la gioia di avere dieci figli, ma la forza che si riceve dall’amore avuto dalla propria madre è una fonte che non si esaurisce mai.   “ Un fascio di rose rosse….”, forse è l’inizio di una preghiera profumata inviata a colei che ci sostiene e ci accompagna per tutta la vita. Saro Pafumi

lunedì 22 aprile 2013

Il diritto di proprietà cancellato

Meno male che mio nonno è morto, pace all’anima sua, perché se doveva pagare l’IMU sulla casa che abitava, conoscendo la sua spilorceria, sono certo che avrebbe venduto la casa e si sarebbe ritirato in convento. Occorre prendere atto che oggi chi possiede una casa se non è un disgraziato, poco ci manca. Un tempo chi possedeva una casa era considerato fortunato e chi era proprietario di un pezzo di terra possidente. Oggi entrambi appartengono alla categoria degli “inquilini” tartassati, essendo venuto meno il diritto di proprietà. Ne sanno qualcosa le migliaia di agricoltori che possedere anche poca terra è come avere una malattia in famiglia. Un tempo la loro unica preoccupazione erano le calamità naturali: grandine, mal secco, filossera. Oggi queste malattie hanno un solo nome: imu. Ricordo ancora la voce squillante di un mio compaesano, comunista doc “ Nunziatu a monica” che dall’alto di un tavolo, lui che a malapena raggiungeva, scarpe comprese, un metro e sessanta, negli anni cinquanta nella piazza principale di Linguaglossa “ attizzava” i contadini, mezzadri compresi, al grido, arrabbiato, acuto e squillante: “ La terra ai contadini”. Oggi se quello stesso grido disperato ma insieme augurale fosse ascoltato dai contadini, il povero Nunziato a monica” sarebbe, a furor di popolo, rovesciato dal tavolo e inseguito con i forconi. Cambiano i tempi, le risorse, le energie, gli uomini e le idee, ma la terra rimane ancora oggi la nostra unica fonte di sostentamento. Peccato che questa realtà l’abbiano dimenticato sia i contadini sia lo Stato, i primi nell’illusione di vivere una vita migliore, affrancata dalla fatica dei campi, ora che la meccanizzazione ha reso tutto meno oneroso e lo Stato che si ostina a tartassare o non tutelare quella parte di ricchezza che la natura con generosità ci regala, facendoci odiare anche il vaso di prezzemolo che teniamo sul davanzale della finestra.


Pubblicata su La Sicilia 22.04.2013. Saro Pafumi

lunedì 15 aprile 2013

Un popolo che venera il dio denaro

“ Un si ni po’ chiù” un monologo corale che si sente ripetere ad ogni angolo di strada, al bar, sul bus, in treno, alla Tv e persino in famiglia prima, durante e dopo i pasti. Il tema è sempre lo stesso: il denaro che, di metallo o di carta, ci avvolge, ci coinvolge, si rivolge a grandi e piccoli senza distinzione di sesso, lingua e religione. Un’ossessione che ci condiziona, ci pervade, ci plasma a suo piacimento come peste bubbonica che corrode corpo e anima. Una tragedia collettiva sempre esistita, che la crisi attuale, ha materializzato trasformandosi in una maschera infeconda che ci ha reso maledettamente uguali. Dove non ha potuto la rivoluzione francese col suo grido: “égalité, ha potuto il dio denaro che tutto divide e tutto accomuna verso il basso. “ Un si ni po’ chiù” è diventato l’inno nazionale sotto la cui bandiera si riconoscono popoli e nazioni. Si vota, ci si sposa, si divorzia, si vive, si muore “di” e “per” denaro. “ Spread, tasso, interesse semplice o composto sono i nuovi messaggi evangelici che sostituiscono fede speranza e carità. Del resto cosa dice il prete? “ Senza stola non si confessa e senza soldi non si canta messa”. E se la predica viene da quel pulpito, cosa resta per sperare? “Dacci oggi il nostro euro quotidiano” il nuovo Pater che ha sostituito l’antica preghiera cristiana. Dal confessionale non ascolti più la voce del ministro di Dio che per penitenza ti assegna tre Ave e tre Pater, ma un’offerta per le Ancelle della Divina Misericordia. Anche nei sogni il denaro ha fatto il suo prepotente ingresso non come gesto d’amore, di piacere o d’indulgenza, ma come angoscia, incubo che ti fa gridare nel bel mezzo della notte, sudaticcio e mezzo assopito: “Un si ni po’ chiù” mentre banconote, grandi quanto manifesti murali, ti svolazzano attorno senza che le mani possano coglierne una. Saro Pafumi


Pubblicata su La Sicilia 15.04.2013

martedì 9 aprile 2013

Piano Provenzana: si sciolgono neve e speranza


“Una riflessione è forse d’obbligo” conclude il suo articolo l’amico Incorpora a proposito della riapertura degli impianti di Piano Provenzana vanificata dalla pioggia di cenere, (La Sicilia 06/04.) Il problema è che continuando a riflettere senza fine la neve si scioglie e insieme la speranza. Mi chiedo: Ora che gli impianti di risalita sono ultimati grazie agli sforzi di chi è preposto alla ricostruzione e al funzionamento, cos’altro ci vuole per fare ripartire la ricostruzione delle infrastrutture senza le quali gli impianti sono una cattedrale nel deserto? Sull’argomento sono stati versati fiumi d’inchiostro da chi ha a cuore le sorti di questo versante, ma finora la soluzione non s’intravede. Undici anni sono un’eternità per mettere in cantiere la ricostruzione, con le conseguenze che la crisi in atto comporta. A ciò si aggiunge che a luglio di quest’anno scade la convenzione con la società che ha in concessione la strada che porta al cratere per le escursioni e gli animi di quanti vogliono partecipare a questa fetta di turismo in itinere sono già in ebollizione. La vicenda per chi conosce i termini della concessione è complessa e le soluzioni sono alquante nebulose se non addirittura inesistenti allo stato attuale. Si corre il rischio che anche questa fetta di turismo estivo finisca a bagnomaria con gli esiti disastrosi per l’economia di questo versante, come se il tempo trascorso inutilmente non sia stato foriero di disagi. A parte gli investimenti economici e organizzativi che tali iniziative comportano, mancano del tutto le strategie o almeno sono alquanto nebulose. Gli umori poco allegri, i mal di pancia, i mugugni sono abbastanza diffusi. Sono gli unici, concreti elementi presenti “in piazza”, oltre alla visibile cenere vulcanica che con puntualità quasi quotidiana ci ricorda che qui tutto “è noia, noia, noia” come recita una vecchia canzone ritornata
Pubblicata su La Sicilia 09.04.2013
Saro Pafumi

sabato 6 aprile 2013

Quelle foto color seppia

Quelle foto color seppia


Facebook, più che un libro da sfogliare, è un circolo mediatico globale, dove incontrare persone sconosciute, amici con i quali scambiare ricordi, riflessioni, opinioni, battute che fanno da collante tra quanti accedono a questo servizio. A volte sul sito capita di trovare interessanti foto dei nostri paesini etnei, tra queste, le più pregevoli, quelle che raccontato vita, costumi e personaggi d’altri tempi. La nota curiosa della pubblicazione di queste foto è il dibattito che scaturisce attorno ad esse, all’interno del quale spicca in particolar modo la nostalgia di quanti, emigrati, apprezzano quelle foto come frammenti della loro anima lasciata lì a fiorire. Ricordi scoloriti, eppure presenti nella memoria di ognuno. La nostalgia che colpisce l’emigrato di fronte a queste foto è un rimpianto malinconico, spesso legato alla giovinezza o all’impossibilità di rivivere le emozioni legate al tempo trascorso. Per chi, invece, non ha vissuto “il martirio” dell’emigrazione, rimanendo nel proprio paese, con il quale ha condiviso le ferite inferte dal tempo, quelle foto color seppia esprimono sentimenti diversi: rabbia, frustrazione. delusione per come il proprio paese si è degradato, calpestando storia, tradizioni, usi, costumi che invece l’emigrato ha conservato intatti nella memoria. Due modi diversi di giudicare. Eppure, quelle foto color seppia siamo noi, deformati dallo specchio del tempo, immagini scolorite nelle quali ciascuno cerca invano se stesso come se il tempo trascorso non ci appartenesse. Saro Pafumi