“ Un si ni po’ chiù” un monologo corale che si sente ripetere ad ogni angolo di strada, al bar, sul bus, in treno, alla Tv e persino in famiglia prima, durante e dopo i pasti. Il tema è sempre lo stesso: il denaro che, di metallo o di carta, ci avvolge, ci coinvolge, si rivolge a grandi e piccoli senza distinzione di sesso, lingua e religione. Un’ossessione che ci condiziona, ci pervade, ci plasma a suo piacimento come peste bubbonica che corrode corpo e anima. Una tragedia collettiva sempre esistita, che la crisi attuale, ha materializzato trasformandosi in una maschera infeconda che ci ha reso maledettamente uguali. Dove non ha potuto la rivoluzione francese col suo grido: “égalité, ha potuto il dio denaro che tutto divide e tutto accomuna verso il basso. “ Un si ni po’ chiù” è diventato l’inno nazionale sotto la cui bandiera si riconoscono popoli e nazioni. Si vota, ci si sposa, si divorzia, si vive, si muore “di” e “per” denaro. “ Spread, tasso, interesse semplice o composto sono i nuovi messaggi evangelici che sostituiscono fede speranza e carità. Del resto cosa dice il prete? “ Senza stola non si confessa e senza soldi non si canta messa”. E se la predica viene da quel pulpito, cosa resta per sperare? “Dacci oggi il nostro euro quotidiano” il nuovo Pater che ha sostituito l’antica preghiera cristiana. Dal confessionale non ascolti più la voce del ministro di Dio che per penitenza ti assegna tre Ave e tre Pater, ma un’offerta per le Ancelle della Divina Misericordia. Anche nei sogni il denaro ha fatto il suo prepotente ingresso non come gesto d’amore, di piacere o d’indulgenza, ma come angoscia, incubo che ti fa gridare nel bel mezzo della notte, sudaticcio e mezzo assopito: “Un si ni po’ chiù” mentre banconote, grandi quanto manifesti murali, ti svolazzano attorno senza che le mani possano coglierne una. Saro Pafumi
Pubblicata su La Sicilia 15.04.2013
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