Quelle sere d’inverno,
attorno al braciere
Non era il braciere attorno al quale, finita la fatica, si raccoglievano
che li riscaldava, ma la loro condizione di sofferta fratellanza.
Riposarsi, con la schiena rotta dopo una giornata di lavoro e dopo avere
consumato l’ultimo boccone di pane, tagliato col coltello a roncola, che chissà
quante cipolle aveva affettato, era come trovarsi in paradiso.
La stanchezza non si leggeva sui loro volti o, se c’era, era smorzata dal
buio della stanza illuminata da un piccolo lume a petrolio e annebbiata dal
fumo dei sigari che quei contadini accendevano uno dopo l’altro.
Ciascuno aveva la sua storia da raccontare ,triste, come la vita che il
destino gli aveva cucito addosso.
Ragazzino, in mezzo ai contadini, che dissodavano le terre dei miei
genitori, la sera, attorno a quel braciere, vivevo le loro storie con il fiato
sospeso, come se il mio respiro dipendesse da quei racconti.
Se qualcuno, raccontata la sua prima storia, si fermava per scavare nella
memoria, si sentiva solo il guaiolare di qualche volpe di passaggio e
l’abbaiare dei cani che, invano, l’inseguivano.
“Poi ?” Chiedevo, come un assetato che beve alla fonte del sapere.
Quel “poi” infrangeva d’incanto quel silenzio tormentato e giù altre storie
da raccontare, perché il contadino questo ha di bello: non scrive, non legge,
ma racconta cose vissute, con la stessa forza e passione del migliore
romanziere.
Don Turi, il più vecchio, con la sua giacca mezza scucita, posata sulle
spalle, era il più triste. La morte della moglie se l’era cucita addosso, come
un abito da indossare, e con quell’abito menava la vita tutti i giorni,
dall’alba al tramonto, curvo sul piccone, per dissodare non la terra, ma i
ricordi più belli vissuti con la moglie. Nei suoi racconti il nome di Maria, la
moglie, aveva il sapore dolce dell’amore. Poi, per non rinverdire con quel nome
lo strazio che aveva nel cuore, usava dire “Lei” sollevando l’indice, come per
chiamare testimone quella creatura ch’era volata anzitempo in cielo.
Donn’Affiu, un omone dall’età
indefinibile, parlava invece della sua infanzia. Disgrazie ne aveva da
raccontare. Aveva perso il fratello di vent’anni , ch’era saltato in aria
mentre sistemava l’innesto per fare esplodere una mina nella galleria dove
lavorava. Il padre non voleva sentirne di aiutare la nuora, vedova con due
figli da sfamare, perché non aveva condiviso la fuitina del figlio che quelle
braccia, a sentir lui, doveva ancora impiegare per mandare avanti la famiglia
che l’aveva messo al mondo.
Così donn’Affiu s’era visto costretto a “rubare” in famiglia per mandare
avanti quelle tre sfortunate creature. Era lui ,la mattina, che strigliava e
“governava” l’asino e lo stallatico doveva rimuovere per farne un cumulo, che
nella vigna al momento giusto bisognava sotterrare. D’accordo con la madre, che
negli occhi innocenti di quei suoi piccoli nipoti vedeva il volto straziato del
figlio strappato al suo cuore, donn’Affiu nascondeva un pane, avvolto nella
carta, tra il letame, che, non visto dal padre, finiva in bocca a quei tre
disgraziati. Poi, era un chilogrammo di fave o di ceci a fare la stessa sorte.
Quando un giorno il padre tirò le cuoia, il destino di quelle creature mutò.
C’era quella famiglia infranta da salvare e donn’Affiu pensò bene di
sposare la cognata. Giurò sull’altare di non volere altri figli, per non
confondere col suo sangue l’affetto viscerale che nutriva per quelli del
fratello. Un sacrificio che il Buon Dio
ricambiò regalando a donn’Affiu un corpo grosso, ma un cuore più grande ,una
salute di ferro e una famiglia in prestito alla quale non mancava mai pane e
amore.
Don Vicenzu, il massaro, che ci ospitava, aveva, intanto, già fatto tre
giri di vino, riempiendo i bicchieri fino all’orlo, perché, si sa, l’offerta
del vino è segno di ospitalità, ma serve anche per sciogliere la lingua e
addolcire i pensieri. L’abitudine di riempire i bicchieri fino all’orlo era,
allora, caratteristica dei contadini, che con quel gesto, a onta delle regole
di buona creanza, indicava segno di generosità. Quelle storie don Vincenzo le
conosceva a memoria, perché non era solo il lavoro che divideva con i compagni,
ma anche le pene, che in silenzio ascoltava.
La moglie del massaro, donna Lia, se ne stava in disparte, a rammendare.
Come facesse a cucire con quel buio pesto nella stanza, annerita dal fumo, era
un mistero tutto femminile. Ascoltava in silenzio, anche se talvolta un
incomprensibile brontolio tradiva la voglia di dire la sua, che a malapena
tratteneva. “Quei racconti erano cose da uomini, sì, per Dio”, pensava, “ma
perché alla donna era consentito di parlare solo sotto le lenzuola?”
Itanu, il più giovane, per timidezza o per rabbia si mangiava le unghie e
con esse la terra che quelle unghie avevano catturato, strappando ciuffi d’erba
dai muri infestati di parietaria. Era dovuto tornare in fretta dall’Australia,
perché il padre era morto, lasciando la moglie incinta e tre figli piccoli ai
quali bisognava dare da mangiare. Quando partì, qualche anno prima, aveva
appena compiuto diciotto anni e il costo del biglietto aveva dovuto rimediarlo
dalla generosità dei parenti. Sulla nave nemmeno un soldo in tasca e viverci un
mese, quando durava la traversata, era come attraversare, senz’acqua, il
deserto su un cammello.
Solo acqua e pane che qualche cameriere di bordo, per pietà, gli rimediava.
Quando arrivò al Porto di Brisbane, senza i cinque chili che aveva lasciato per
digiuno sulla nave, la felicità gli aveva tolto persino il morso della fame.
Aveva così tanto metabolizzato l’acqua salata del mare che gli venne solo una
gran voglia di bere. Qualcuno sulla nave gli aveva insegnato qualche parola
d’inglese: Working, bread, soda Water. Solo quest’ultima ricordava, ma
pronunziandola “situata” non trovava nessuno che lo aiutasse a dissetarsi.
Quando, morto di sete, senti alle spalle che qualcuno parlava la sua lingua,
gli parve di non essere mai partito dal paese. All’estero, a quei tempi, la
fratellanza era un obbligo e così Itanu, grazie a quei paesani trovati lì, per
caso, trovò pure il lavoro. Scaricava cassette di frutta che non aveva mai
visto, né sapeva come si chiamasse. Quando il sabato il padrone della “farm” lo
pagava, egli metteva in tasca quel denaro incomprensibile, senza contarlo. Lo
guardava come se non gli appartenesse, perché dall’altra parte del mondo c’era
qualcuno che lo aspettava. Poi l’incanto si spense, i sogni svanirono, il
ritorno al paese si fece pressante. Adesso era li, attorno a quel braciere, in
mezzo ai suoi compagni a raccontare il suo breve sogno australiano. Costretto,
suo malgrado, a legarsi la zappa alle mani, quella zappa dalla quale, forse,
non s’era staccato mai.
Donna Lia, intanto, finito di
rammendare, aveva accorciato lo stoppino del lume a petrolio, non si sa per
risparmiare o per dare il segno che bisognava andare a dormire. Il pagliericcio,
accanto alla stalla, era lì che attendeva le membra stanche di quei
disgraziati. Un altro giorno di fatica li attendeva, io altre storie
d’ascoltare.
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