venerdì 21 maggio 2010

Chiamala comu voi, sempri cucuzza è


Se c’è una dote che caratterizza noi italiani è la spiccata sensibilità verso gli altri, Siamo sempre alla ricerca di nuove definizioni per indicare uno stato, una condizione, un limite, una professione, un mestiere, una malattia.
Su certe carte d’identità una volta per definire lo stato “illegittimo” si usava indicare la paternità con la sigla N.N. Poi qualcuno pensò bene che quella sigla rappresentava qualcosa d’offensivo o la confessione di uno stato civile imbarazzante e l’indicazione dei genitori fu soppressa, con la conseguenza che, giocando al ribasso, oggi siamo tutti figli di N.N.
Poi venne qualcuno che pensò bene di chiamare il sordo, non udente e il cieco, non vedente, come se sostituendo un aggettivo o sostantivo con un participio la sostanza cambiasse. E così lo spazzino divenne operatore ecologico, la serva o cameriera, colf o badante. Un salto in avanti con espressioni fresche di conio. In un solo caso il progresso ha fatto un passo indietro nel coniare un diverso termine per chiamare il becchino. Così definito per l’usanza di beccare, pungere, pizzicare i morti per stabilirne l’effettiva dipartita. Oggi si usa chiamarli, elegantemente, necrofori, dall’antico greco.
Con queste metamorfosi linguistiche la nostra coscienza è a posto Peccato, però, che alle intenzioni non seguono i fatti, perché il sordo, il cieco, la cameriera, lo spazzino, il becchino, ogni disabile in generale tali erano e tali sono rimasti, non solo nel modo di pensare collettivo, ma persino nel modo di accoglierli in società, dove il loro disagio non è stato annullato.
Oggi sulla carta d’identità è stata aggiunta un'altra chicca linguistica. Al rigo che chiede la professione, l’ufficiale dell’anagrafe registra: “in attesa d’occupazione”, invece dell’odiosissimo “disoccupato”. La differenza sembra solo apparente, ma ad analizzarla freddamente nasconde una grande illusione. “Disoccupato” sembra essere una certezza, “in attesa d’occupazione”, una speranza. Che è come vedere il bicchiere mezzo pieno.
La sostanza in tutti questi casi non cambia. L’essenziale è mettersi a posto con le definizioni. Se poi persistono le barriere architettoniche, i pregiudizi, le limitazioni chi se ne importa. Non si dice del resto: “ chiamala comu voi, sempri cocuzza è”? Nonostante ogni nobile proposito.
Pubblicato su La Sicilia il 22/05/2010
. Saro Pafumi

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