martedì 22 marzo 2011

Ricordo di un vecchio fotografo:don Micalangiulu


Nei piccoli paesi per passare alla storia non occorre inventare la penicillina, basta essere “speciale“ nel suo campo, come “don Micalangiulu” lo era, a Linguaglossa, nell’arte della fotografia.
In un’epoca in cui le foto erano in bianco e nero o color seppia, egli non aveva rivali. Non che il lavoro abbondasse, perché, allora, anche le fotografie dei nubendi erano all’insegna del risparmio. Poche pose immortalavano gli sposi e quelle in compagnia dei parenti non superavano il sagrato della Chiesa. Il piatto forte di don Micalangiulu erano le foto per tessera, richieste dagli scolari che nel dopoguerra, numerosi, si cimentavano nell’alfabetismo. Farsi fotografare da don Micalangiulu non era un’impresa facile.
Intanto, andava avvertito per tempo, come si fa con un pittore che deve eseguire un ritratto e concordato il giorno si procedeva alla posa. La stanza in cui avveniva la “ripresa” era disadorna, Un lenzuolo appeso alla parete faceva da sfondo a chi, seduto su di una sedia “cca zammara” doveva farsi “ u tritrattu”. Di fronte, don Micalangiulu, armeggiando da dietro la macchina con la testa coperta da un drappo nero, impartiva ordini precisi: “a testa ritta”; “l’occhi aperti “; “ cerca di ridiri e non ti scurdari di liccariti i labbra”. L’ordine di leccarsi le labbra era la collaborazione che don Micalangiulu richiedeva, sapendo che quell’espediente consentiva alle labbra di assumere la giusta lucentezza. Un trucco che don Micalangiulu aveva imparato dopo anni di consumato mestiere. La “posa” durava un’eternità, perchè don Micalangiulu, pignolo com’era, doveva cogliere quella più naturale. Qualcosa però non andava sempre per il verso giusto, talché la posa spesso andava ripetuta, il che coincideva con “ a liccatina ‘i labbra”. Chissà per quali misteriose coincidenze chi posava “pu tritrattu” quasi sempre era fotografato con la lingua di fuori, mentre si accingeva ad eseguire l’ordine impartitogli da don Micalangiulu.
L’inconveniente si verificava spesso e poiché “la smorfia” si evidenziava al momento dello sviluppo, che, a quei tempi, avveniva il giorno dopo, il rituale della posa doveva essere ripetuto al completo.
Finito il lavoro, il ritocco finale della foto, fatto a matita, rigorosamente a mano, non poteva mancare. Era questo il momento in cui don Micalangiulu in cuor suo si sentiva più che un fotografo, un artista. E artista lo era veramente, se rivolgendoci a lui gli dicevamo: “Maestru Micalangiulu, ma fa ‘na fotu?”.
Oggi con le foto digitali, basta un click e si è subito fotografi. Il resto lo fa lo scanner e il computer che le trasmette in tutto il mondo. L’arte è diventata tecnica, La macchina di don MIcalangiulu è nei musei, le sue foto ingiallite dal tempo resistono negli album di famiglia, ma il ricordo di quest’artista è nei nostri cuori.


. Saro Pafumi

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