Solidarietà contadina (Nostalgia per la “pausa vino” dei contadini d’una volta).
“ Na facemmu na
vota ‘i vinu ?” Era l’invito rivolto ai compagni “d’anda” di chi, stressato
dalla fatica, voleva riposarsi e cercare nel vino e nella compagnia la forza di
continuare. Oggi si chiamerebbe “pausa caffè”. Il vino per chi lavorava di
braccia era un energetico, serviva a rigenerare le forze. “U barrileddu”, che,
di solito, conteneva la bevanda di Bacco, era un contenitore fatto di doghe di
legno, ideale per conservarlo all’ombra di un albero frondoso o ai piedi di un
muro, di solito posto “ a manca”, dove cioè non batteva il sole e spesso
coperto da frasche, foglie o felci, perché si mantenesse fresco. Gli occhi dei
contadini si poggiavano spesso su quel “barrileddu”,come un traguardo da
raggiungere, non appena l’orologio delle forze scandiva il tempo trascorso. Non
c’era un’ora esatta per consumare la “pausa caffè”, perché ogni lavoratore
aveva i suoi tempi. Bere però in compagnia era quasi un rituale, perché nei costumi
del contadino la pausa non era mai individuale, ma collettiva, come segno di
condivisione e solidarietà. Ma anche il modo di bere era un’esclusiva
contadina. Di solito “u barrileddu” aveva un
piccolo foro sulla pancia, tenuto chiuso da un pezzetto di legno
appuntito, “ u stuppagghiu”, preferibilmente di “ferra”. Si sollevava con
entrambe le mani e tenendolo accuratamente alzato, lontano dalla bocca, si
faceva defluire il contenuto. A bevuta
ultimata “na strisciata i brazzu” sulle labbra
serviva ad asciugarle. L’esigenza
di non accostare le labbra al recipiente
era un segno di “bbona crianza” nei confronti
di chi seguiva. Ma la solidarietà del contadino non si esprimeva
solamente nelle pause lavorative, la sua massima espressione si raggiungeva, quando
“all’anda” qualcuno dei lavoratori,
spalla a spalla, non manteneva il passo.
Era costume aspettarlo, ma perché ciò non risaltasse agli occhi del padrone,
spesso presente, era sufficiente uno sguardo d’intesa tra i compagni,
rallentando ognuno il ritmo del lavoro. Era un espediente, che imponeva la
solidarietà contadina nei confronti di chi, più debole, non riusciva a
mantenere lo stesso ritmo degli altri. Poi, all’ora stabilità dalle
consuetudini locali, seguiva la pausa pranzo, la più attesa. Era questo il
momento clou, un vero tripudio di solidarietà, perché ognuno offriva agli altri
un assaggio di ciò che la moglie gli aveva preparato. Di solito s’infilzava col
coltello una porzione di cibo, che si offriva agli altri, generosamente
ricambiati. Era l’ora dei complimenti per donna Rosa, donna Maria, donna
Carmela, mogli ombra, che quei poveri pasti avevano con cura e amore preparato
e ciascuno gioiva oltre che per sé, anche per la propria compagna di vita,
cosicché ogni boccone intriso di riconoscenza e amore scivolava più soave nelle
loro bocche e ogni fatica alleviava. Oggi il lavoro manuale dei contadini è
scomparso, sostituito dalle macchine agricole e della solidarietà resta il
ricordo e tanta nostalgia. Tratto da “Elzeviri sparsi” di Saro Pafumi
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