martedì 16 maggio 2023

 

Solidarietà contadina (Nostalgia per la “pausa vino” dei contadini d’una volta).

“ Na facemmu na vota ‘i vinu ?” Era l’invito rivolto ai compagni “d’anda” di chi, stressato dalla fatica, voleva riposarsi e cercare nel vino e nella compagnia la forza di continuare. Oggi si chiamerebbe “pausa caffè”. Il vino per chi lavorava di braccia era un energetico, serviva a rigenerare le forze. “U barrileddu”, che, di solito, conteneva la bevanda di Bacco, era un contenitore fatto di doghe di legno, ideale per conservarlo all’ombra di un albero frondoso o ai piedi di un muro, di solito posto “ a manca”, dove cioè non batteva il sole e spesso coperto da frasche, foglie o felci, perché si mantenesse fresco. Gli occhi dei contadini si poggiavano spesso su quel “barrileddu”,come un traguardo da raggiungere, non appena l’orologio delle forze scandiva il tempo trascorso. Non c’era un’ora esatta per consumare la “pausa caffè”, perché ogni lavoratore aveva i suoi tempi. Bere però in compagnia era quasi un rituale, perché nei costumi del contadino la pausa non era mai individuale, ma collettiva, come segno di condivisione e solidarietà. Ma anche il modo di bere era un’esclusiva contadina. Di solito “u barrileddu” aveva un  piccolo foro sulla pancia, tenuto chiuso da un pezzetto di legno appuntito, “ u stuppagghiu”, preferibilmente di “ferra”. Si sollevava con entrambe le mani e tenendolo accuratamente alzato, lontano dalla bocca, si faceva defluire il contenuto.  A bevuta ultimata “na strisciata i brazzu” sulle labbra  serviva ad asciugarle.  L’esigenza di non  accostare le labbra al recipiente era un segno di “bbona crianza” nei confronti  di chi seguiva. Ma la solidarietà del contadino non si esprimeva solamente nelle pause lavorative, la sua massima espressione si raggiungeva, quando “all’anda”  qualcuno dei lavoratori, spalla a spalla, non  manteneva il passo. Era costume aspettarlo, ma perché ciò non risaltasse agli occhi del padrone, spesso presente, era sufficiente uno sguardo d’intesa tra i compagni, rallentando ognuno il ritmo del lavoro. Era un espediente, che imponeva la solidarietà contadina nei confronti di chi, più debole, non riusciva a mantenere lo stesso ritmo degli altri. Poi, all’ora stabilità dalle consuetudini locali, seguiva la pausa pranzo, la più attesa. Era questo il momento clou, un vero tripudio di solidarietà, perché ognuno offriva agli altri un assaggio di ciò che la moglie gli aveva preparato. Di solito s’infilzava col coltello una porzione di cibo, che si offriva agli altri, generosamente ricambiati. Era l’ora dei complimenti per donna Rosa, donna Maria, donna Carmela, mogli ombra, che quei poveri pasti avevano con cura e amore preparato e ciascuno gioiva oltre che per sé, anche per la propria compagna di vita, cosicché ogni boccone intriso di riconoscenza e amore scivolava più soave nelle loro bocche e ogni fatica alleviava. Oggi il lavoro manuale dei contadini è scomparso, sostituito dalle macchine agricole e della solidarietà resta il ricordo e tanta nostalgia. Tratto da “Elzeviri sparsi” di Saro Pafumi

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