mercoledì 28 dicembre 2011

Il sogno, il santo, il lavoro nero.


Oggi ho fatto un sogno. Chiedevo, genuflesso, non so a quale Santo o Divinità di farmi trovare un lavoro, in quest’isola scordata dal Signore. “Capisco che chiedo troppo”, imploravo “ ma se mi hai fatto nascere, è per svolgere in questo mondo una qualche attività” . “M’è rimasto solo il lavoro “nero”, ma è immorale” mi rispose la Divinità, con un filo di voce da somigliare a un sospiro. “ Tu che sei Giusto”, chiesi: “Non è più immorale non trovare lavoro? La società definisce “nero” il lavoro sottopagato, perché nero è il colore della sofferenza, dell’intrigo, dell’ambiguità. Ma senza il lavoro “nero”, dimmi, forse che la mia sofferenza diminuirà? Un tempo, ricordi? Il pane nero era l’alimento dei poveri, ma era tanta la fame nera, da farlo apparire bianco, bianchissimo agli occhi degli affamati. Oggi che siamo assetati di lavoro non distinguiamo i colori in questo mondo, dove grigio è il colore prevalente. E poi, Santo o Divinità, chi Tu sia, perché definire “nero” il lavoro sottopagato, ma non anche quello iperpagato? L’ingiustizia sta nella misura, poca o eccessiva che sia”. Mentre, genuflesso, interrogavo l’Entità, una mano si posò sulla mia spalla. Mi voltai e chiesi: “Chi sei?” “Sono San Precario”, rispose, con voce ferma e austera. “Perché cerchi il lavoro nero? Non sai che esso è immorale? Vieni con me, ti offro un lavoro precario” aggiunse.” Ma non è immorale pure quello, giacché non offre continuità, il reddito non è adeguato e il futuro è incerto?”, domandai. “Sì, ma quello l’uomo l’ha reso legale e ciò che è legale non può essere immorale” aggiunse San Precario, con una smorfia da sembrare un rimprovero. Balbettai qualcosa, forse imprecai, non ricordo, poi, di botto, mi svegliai. Mi vestii in fretta, ricordandomi che quello era il mio primo giorno di lavoro “nero” e corsi, corsi, a tutto fiato, masticando parole irripetibili contro San Precario. Pubblicata su La Sicilia il 29.12.2011 Saro Pafumi.

lunedì 26 dicembre 2011

Le amarezze di un coltivatore di agrumi.


Solo, seduto, ricurvo su se stesso. Fuori il cielo stellato. La finestra si apriva su di un’ampia vallata sfavillante di bianchi fiori di limoni, appena accarezzati dalla luce della luna. Il tepore della primavera e la brezza marina trascinavano dentro la stanza il fresco profumo della zagara appena fiorita, il resto si disperdeva al di là dell’’orizzonte. Don Marianu, “ U signurinu”, come lo chiamavano i contadini, era nato lì, in quella stessa stanza, un lontano giorno di primavera. Il suo primo respiro si era impregnato del soave profumo della zagara, che amava. I limoni per lui non erano solamente frutti, rugosi, aspri, succosi, erano la sua ragione di vita. Generazioni prima di lui erano vissute grazie a questo frutto, nato dal sole. Ora non più. La crisi, la globalizzazione avevano reso quel frutto magico una semplice spugna da spremere, “pastazzu” per animali. Solo, seduto, ricurvo su se stesso recuperava dal fondale della mente i tanti, dolci ricordi del passato, come fa il pescatore col suo palamito appesantito da mille ami. I figli che di limoni non volevano sentir parlare, più volte gli avevano detto: “ vendi ! vendi !" . A lui, che con quei limoni ci aveva mantenuto la famiglia e fatto studiare i suoi quattro figli quel “vendi ! ”, insolentemente ripetuto, era apparso un pugno sferratogli nello stomaco. La delusione lo aveva incupito, reso canuto, i limoni invenduti avevano devastato il resto. Solo, immerso in quell’ampia vallata di limoni fioriti, ne respirava l’aria profumata che puntualmente a primavera la natura gli donava. Che i limoni marcissero ai piedi degli alberi, pensava. A lui bastava quel magico profumo di zagara, che nessuna crisi poteva portargli via. Pubblicata su La Sicilia il 27.12.2011 Saro Pafumi

venerdì 23 dicembre 2011

Supermercati e codice a barre


Non so se sia la sfortuna che mi perseguita o semplici spiacevoli coincidenze, di certo coi supermercati il mio approccio non è decisamente favorevole. Non è infatti la prima volta che acquisto un articolo, segnato sul banco di vendita con un prezzo, che alla cassa me lo ritrovo maggiorato. La giustificazione: “ l’addetto non ha avuto il tempo di aggiornare il prezzo al banco”. La giustificazione , se il termine possa dirsi appropriato, non convince affatto. Non vedo come si possa trovare il tempo di cambiare centinaia di codici a barre nei vari articoli posti in vendita e non trovare il tempo di cambiare il cartellino sul banco espositivo. Non vorrei pensar male. Ma non è che “la cosa” puzzi di bruciato? Poiché il prezzo è visibile al banco espositivo, riportato a barre sull’articolo, risulta impossibile per chi ha fatto la spesa controllare uno ad uno la corrispondenza dei vari articoli acquistati. Un rimedio ci sarebbe: indossare un casco sormontato da un lettore di codice a barre e controllare la rispondenza su quanto segnato al banco, a costo di passare per un evaso da una casa di cura per malati mentali. “La disumanità del codice a barre sta nel fatto che, una volta programmato, si comporta in maniera perfettamente onesta” questa l’opinione di Isaac Asimov, fatta propria dai supermercati. Come dargli torto. Cittadini occhio al prezzo! Il trucco può avere le sembianze di un “pacco” natalizio. Pubblicata su La Sicilia il 24.12.2011. Saro Pafumi

mercoledì 21 dicembre 2011

Il vecchio contadino,il risparmio, i giovani, i desideri.


Ascoltare don Sarbaturi “Sciarmenta”, contadino doc, che, da giovane, strappando il tempo al lavoro “fece” le scuole serali c’è sempre da imparare. Egli sul risparmio ha una sua teoria che mette in pratica e si sforza d’insegnare all’ultimo dei suoi cinque figli che, a differenza dei fratelli, non ha voluto emigrare “in continente”. “Io”, esordisce, “ col denaro non ho problemi, ma mio figlio, come tutti i giovani, qualche volta esagera. Nel senso che se va alla pescheria e trova il pesce spada a trenta euro e “ u masculinu” a cinque, si fa u cuntu di quantu costa menzu chilu di pisci spada. Ora, dico io, se hai in tasca solamente cinque euro cu ti porta a vardari u pisci spada? Il problema dei giovani d’oggi è che non hanno capito che il concetto dei risparmio è cambiato. Ci portu n’esempio: oggi si può mettere un euro da parte? No! E allora? E allora bisogna fare come faccio io che, tornando a casa, dico a quella santa di mia moglie: oggi abbiamo risparmiato dieci euro, ché anziché comprare mezzo chilo di pesce spada ho comprato un kg di masculini. Il risparmio, dico io, non va indirizzato sul denaro, ma sui desideri. “ Sparagnari” non vuol dire, oggi, mettere da parte il denaro, ma contenere i desideri. Oggi dalla bocca di tutti non nesci a parola “sparagnari”e si dimentica “cca quannu lu patri spenni e spanni cci lassa a li figghi guai e malanni.” “Don Sarbaturi” , lo interrompo, “a parte i vostri proverbi e le vostre metafore, appropriate, la vostra teoria sul pesce spada è una magistrale lezione sul risparmio, ma ditemi: non v’è mai venuto il desiderio di comprarvi una bella fetta di pesce spada?” “Mancu ppi sognu! Allura, scusassi, lei, come mio figlio, della teoria sul pesce spada, come la chiama lei, non ha caputu nenti. Si non avi i sordi è lu disideriu cca avi a risparmiari, comu ci l’aia a fari capiri!”. Pubblicata su La Sicilia il 22.12.2011.Saro Pafumi

martedì 20 dicembre 2011

Edicole e liberalizzazioni

Alla fine, in tema di liberalizzazioni, la montagna partorì un topolino: le edicole. Prendersela con le edicole è come “cercare la salute in ospedale” recita un proverbio napoletano. La ragione di siffatta necessità sfugge a ogni logica. Già le edicole! Rivolgendomi al pescivendolo, mi verrebbe da dire: “Mezzo chilo di triglie e già che c’è me le incarti nel quotidiano di oggi”, perché a furia di trovare i giornali dappertutto (benzinai in primo luogo) le edicole dovranno per forza di cose incrementare la vendita di “ spagnuletti e ruccheddi” come di fatto da qualche tempo avviene. In Italia, stando alle statistiche, non legge quasi nessuno. La maggioranza legge i giornali a sbafo e quando ha tempo si limita a scorrere i titoli cubitali e le cronache paesane. Una domanda l’avrei da fare al senatore a vita Monti: “Perché non libera i carburanti, spazzando via le compagnie petrolifere che in atto occupano l’intera filiera (ricerca ed estrazione del petrolio, importazione, raffinazione, distribuzione e vendita a dettaglio) ”. Già i carburanti! E come si può dinanzi allo strapotere delle compagnie petrolifere? Il ministro Passera sul tema ha dichiarato. “ Siamo in presenza di stazioni di servizio concessi in comodato” Con ciò?! Forse quando è stata varata la legge sull’equo canone, non s’è espropriato di fatto il diritto di proprietà? Cosa potevano i proprietari contro quella legge? Fare la serrata mettendosi davanti alle porte delle abitazioni e non fare entrare gli inquilini? Sono ragioni sociali che impongono certe leggi, a prescinde da ….. Ha dovuto, il prof, Monti, fare marcia indietro con i tassisti, figuriamoci con i mostri del petrolio. Su questo fronte Il Premier Monti sa bene che : ‘E denare so’ ‘a voce e ll’omme” e in fatto di denaro le Compagnie petrolifere hanno la voce grossa. E allora si liberalizzano le categorie che rappresentano i “cani sciolti” dell’economia: le edicole, per l’appunto, che abbaiano ma non mordono. Fare la voce grossa con i deboli e piccola con i grandi non è una virtù rara in questo paese. Pubblicata su La Sicilia il 20.12.2011 Saro Pafumi

domenica 18 dicembre 2011

ICI e "bamboccioni"

Nella manovra finanziaria testé approvata si prevede per il pagamento dell’ICI sulla prima casa una detrazione di 50 euro per ogni figlio a carico, anche se maggiorenne, purché non superiore a ventisei anni. Qualcuno dovrebbe mettere sotto il naso del Prof. Monti le sentenze della Cassazione che impongono a carico dei genitori il mantenimento, senza alcun limite temporale, dei figli maggiorenni non economicamente autosufficienti o privi “incolpevolmente” dei mezzi di sussistenza. A “mandare i bamboccioni fuori di casa” ci aveva provato senza risultato Padoa Schioppa. Ora ci riprova il prof. Monti che escludendo dalle detrazioni dell’Ici i figli maggiorenni di età superiore a ventisei anni, pare voglia ripetere l’infelice frase usata dal suo predecessore. A tutto ciò si mette di traverso la Cassazione, la quale statuendo l’obbligo di mantenere i figli maggiorenni “incolpevolmente” disoccupati, si spinge a statuire che “nella ricerca del lavoro il giovane deve ispirarsi alle proprie aspirazioni, al percorso scolastico universitario e post universitario, alla specializzazione, al mercato del lavoro, con particolare riguardo al settore nel quale il soggetto abbia indirizzato la propria formazione”. Il che, detto i termini brutali, significa che se mio figlio, per esempio, ha deciso di fare il medico, potrebbe rifiutarsi di fare il capo infermiere al Gemelli, con la conseguenza che me lo ritrovo a carico sine die. Un principio giuridico quello della Cassazione scollegato dalla realtà del mondo del lavoro. In casi come quello testé ipotizzato, non avulso dalla realtà, ai genitori farebbe comodo la detrazione di cinquanta euro, risparmierebbero, in quest’epoca largamente informatizzata, almeno una ricarica telefonica da regalare al figlio “incolpevole”.
Pubblicata su La Sicilia il 18.12.2011. Saro Pafumi.

venerdì 16 dicembre 2011

Eliminare subito il titolo di onorevole

Forse è più facile scalare l’Everest a piedi nudi che convincere i deputati a ridursi le indennità. Anche volendo, non è facile, perché con le divisioni i deputati non hanno dimestichezza. Hanno chiesto tempo per fare i calcoli. Non è di tutti dividere per due gli undicimila euro che ora percepiscono. E così tra calcoli, riscontri e la prova del nove hanno chiesto tempo fino ad aprile. In attesa che i loro conti tornino, sarebbe meglio chiedere da subito che sia eliminato il titolo di “onorevole” che non costa nulla ed è persino immeritato. Ho letto da qualche parte che un tempo i deputati ricevevano per il loro servizio nell’interesse della collettività un obolo e per tale motivo erano considerati “ degni di onore”. Ora che l’obolo è diventato lauto appannaggio, vitalizio, privilegi e il servizio nell’interesse della collettività è diventato interesse proprio, il titolo onorifico non ha più senso. In caso di resistenza del ceto interessato, affidiamone l’uso ai parcheggiatori come fanno col titolo di “dottore” che non negano a nessuno. Pubblicata su La Sicilia il 16.12.2011. Saro Pafumi

giovedì 15 dicembre 2011

Pensioni, genio e follia

Pensando a Monti e alla sua “regola” di pagare le pensioni con una somma che non superi i cinquecento euro in contanti, verrebbe da ripetere con un noto filosofo: “ Genio e follia hanno qualcosa in comune: entrambi vivono in un mondo diverso da quello che esiste per gli altri”. Come si possa pretendere che un pensionato, costretto a stare in fila alla posta per ritirare la “sua” pensione di seicento o mille euro, rifaccia la fila per ottenere il saldo di quanto dovutogli?. Se non è follia questa, certamente è materia per psichiatri. Si vuol camuffare il limite imposto, con la scusa di evitare pagamenti in nero, imponendo la richiesta di una carta di credito che necessariamente presuppone l’apertura di un conto corrente che, anche se fosse a costo zero, sarebbe ugualmente una iattura. Immaginate una nonnina che invece di ritrovarsi in mano novecento euro in contanti che le fanno luccicare gli occhi, si ritrova la credit card plastificata con il PIN da digitare Se non le prende “una botta” poco ci manca. In questa vicenda-farsa di nero c’è solamente la coscienza di chi ha potuto immaginare una simile sciocchezza. La ragione sfugge alla logica, salvo che non si voglia nascondere una triste realtà: lo Stato non ha i soldi ed è costretto a pagare a rate. Ammetterlo sarebbe un suicidio, pensarlo è legittimo. Sarei curioso di vedere uno di questi alti burocrati impegnato a convincere quella moltitudine di vecchietti costretti a mendicare i propri diritti o quelli dei propri congiunti defunti che hanno faticato una vita per ritrovarsi con le brache calate. C’è un limite alla decenza, si chiami Stato o Pinco Pallino chi deve osservarla. Pubblicata su La Sicilia il 15.12.2011. Saro Pafumi

venerdì 9 dicembre 2011

Corruzione fa rima con prostituzione

Cos’è la tangente?” mi chiese il professore di matematica. Per uno come me che in quella materia “zoppicava “non fu facile trovare l’esatta definizione. Dopo un suggerimento bisbigliato del mio compagno di banco riuscii a mettere insieme quattro parole che davano una definizione approssimativa della figura geometrica. Me la cavai con un sei immeritato. Se oggi mi si facesse la stessa domanda, pronto risponderei: “La percentuale più o meno elevata che è chiesta in cambio di favori nella trattazione di una pratica”. Questa seconda definizione è entrata così fortemente nell’uso comune che quando si parla di tangente, nessuno pensa alla geometria, ma l’associa al denaro, al burocrate che di essa si ciba per proliferare. Causa ed effetto della tangente è la corruzione, un tappeto volante su cui prende posto chi ha le giuste leve in mano per decollare. E’ talmente diffusa dalla base al vertice della piramide impiegatizia e non solo, da assumere aspetti decisamente epidemici. Forse sarebbe il caso che al “tangentomane” si vietasse di percepire lo stipendio, potendo egli lautamente vivere di “mazzette”. Si avrebbero due risultati: lo Stato risparmierebbe una montagna di soldi e il concusso potrebbe contrattare ”liberamente” la percentuale da pagare. In buona sostanza si tratterebbe di legalizzare “la prassi” che etimologicamente significa: il trattare affari, modo di procedere per consuetudine e…. con qualche forzatura… “rubare lecitamente”. Le leggi servono per essere interpretate alla luce di nuove esigenze sociali e di costume. Ogni accanimento contro la tangente è destinato a fallire, perché come avviene nel rito del matrimonio sono in due a dire “si”. E poi…corruzione fa rima con prostituzione, entrambe presenti da tempo immemorabile. Pubblicata su La Sicilia il 10.12.2011.
Saro Pafumi

martedì 6 dicembre 2011

Linguaglossa e le vicende dell'imprenditore vitivinicolo

Ho letto con interesse l’articolo pubblicato su La Sicilia del 6/12: “Imprenditore vitivinicolo di Linguaglossa. Ricevo minacce e attentati. Chiudo l’azienda” Non vorrei che le dichiarazioni fatte dall’imprenditore che tra l’altro annovero tra i mei amici, facessero passare il messaggio che “Linguaglossa” è nelle mani del rachet. Quando questi episodi accadono in una qualsiasi località, di solito non sono casi isolati, anzi rappresentano il segno di una collettività vittima di fatti criminosi che in taluni casi determina una metastasi inarrestabile. Le cose nel caso in esame sono leggermente diverse e le vicende dell’amico imprenditore devono inquadrarsi in episodi squisitamente personali che non riguardano l’intera comunità in cui i fatti hanno avuto origine. Il caso denunziato, oggetto per altro d’indagini giudiziarie, è certamente da qualificare come indegno e da condannare, per il quale si esprime la più ampia solidarietà al soggetto offeso, ma attenti a non qualificare il caso come endemico all’intera società. Una precisazione che va fatta non tanto a uso della collettività linguaglossse consapevole di essere estranea a ricatti malavitosi, ma della collettività in genere che dalla lettura di siffatti episodi criminosi potrebbe dedurre conclusioni avventate e non veritiere. “A ognuno le sue disgrazie”, dice un vecchio modo di dire e Linguaglossa ha quelle che l’Etna periodicamente le riserva. Ci bastano e ci avanzano queste, le altre per fortuna non ci appartengono. Pubblicata su La Sicilia il 07.12.2011. Saro Pafumi

lunedì 5 dicembre 2011

Introdurre il tax-day

Tutti i giorni televisione e giornali ci ammanniscono il solito ritornello: manca il lavoro, la disoccupazione cresce, la rabbia è tanta. Quello che manca, a mio parere, oltre al lavoro, è trovare il tempo di lavorare per chi il lavoro ha. Oggi chi ha una piccola azienda trascorre il tempo in fila in qualche ufficio, alle poste, in banca, alla camera di commercio, all’Inps, all’Agenzia delle entrate per nominare quelli di maggiore frequenza. Non si ha il tempo di pagare una bolletta ed ecco, di ritorno, trovare chi ti aspetta: il solito postino con l’ennesima cartella da recapitare. Le carte ci soffocano, le bollette ci sopraffanno, con l’aggravante che essendo diversamente scaglionate non c’è praticamente giorno “esentasse”. Sulla mia scrivania tenevo una cartella contenente le bollette da pagare, con su scritto “ tasse da evadere” al quale ingenuamente avevo dato il significato di “tasse da pagare”. La cosa richiamò l’attenzione di alcuni organi investigatori con una serie di domande al riguardo. Da allora sulla stessa carpetta, contenete le solite bollette da pagare, per evitare spiacevoli interpretazioni ho scritto: “ Le mie prigioni”. Dinanzi a siffatta inondazione d’imposte, bollette e tasse sarebbe il caso, forse, per non far sprecare tempo a chi lavora, d’introdurre il tax-day ossia, la giornata dedicata al pagamento delle tasse che può precedere o seguire la commemorazione dei defunti, giacché entrambe sono accomunate per una ragione o l’altra a un profondo senso di tristezza e di depressione. Un’ ennesima ricorrenza civile nell’interesse dello Stato e per chi non vuol perdere tempo per lavorare. Pubblicata su La Sicilia il 06.12.2011. Saro Pafumi.

sabato 3 dicembre 2011

Eutanasia e paradosso

Il caso Magri e la sua “dolce morte” hanno riaperto il dibattito sul diritto all’eutanasia. Vorrei, sul caso specifico, dire la mia, anche se vale meno del due a briscola. La dottrina cattolica ci ha insegnato che la vita degli individui è regolata dal libero arbitrio. Un concetto filosofico-teologico, secondo il quale ogni persona è libera di fare le sue scelte e Dio, anche potendo, non utilizza il suo potere per condizionare le scelte dell’individuo. Il ricorso all’eutanasia s’inquadra nel contesto del libero arbitrio, permettendo all’individuo di scegliere anche la morte con le conseguenze sul piano religioso che tale atto comporta: il peccato, ossia l’inferno. Può Dio spedire all’inferno un individuo che abbia, per esempio, condotto una vita esemplare, sol perché nell’attimo finale non ha avuto la forza di sopportare le “sue” sofferenze? Se così fosse, immagino, però che Dio spedisca, sì, quel tale all’inferno, ma riservandogli un ambiente con l’aria condizionata. A prescindere dalla battuta che può sembrare blasfema, il ricorso all’eutanasia che in Italia è vietata, impone un’altra riflessione: la disparità sociale. Chi economicamente può, si sceglie “la dolce morte”, chi non può, deve affidarsi a mezzi economici e violenti. Se l’eutanasia fosse ammessa, risparmieremmo almeno questo secondo aspetto, il più macabro. Pubblicata su La Sicilia il 03.12.2011.Saro Pafumi

mercoledì 30 novembre 2011

San Giorgio e la crisi


In questi giorni è stato dato risalto al biglietto indirizzato da Enrico Letta a Monti in cui si parla di “miracolo”, ossia del prodigio di mettere insieme maggioranza e opposizione nel sostegno al governo Monti. Fuori da ogni metafora e ipocrisia le ragioni del “miracolo” sono facilmente comprensibili: la maggioranza, trovandosi col fiato corto, non poteva passare alla storia come il governo che aveva portato l’Italia al default; l’opposizione, perché, pur sapendo di vincere le elezioni, non voleva essere il partito di lacrime e sangue. Questa combinazione di ragioni convergenti, sia pure opposte, ha realizzato “il miracolo italico” di dar vita a un governo tecnico, secondo la nota teoria delle convergenze parallele inventata da Moro. Il Santo che ha operato “il miracolo” non poteva che essere “San Giorgio”, protettore dei cavalieri (leggi: banchieri) che, racconta la leggenda, affrontò il drago (la crisi) e, incarcerato dall’imperatore Diocleziano, predisse sette anni di tormenti (leggi: per il popolo italiano). Condannato a morte risuscitò, operando il miracolo di risuscitare due persone (maggioranza e opposizione) per poi farle sparire, facendo posto al terzo polo tanto caro alla Chiesa. La leggenda si ferma qui, ma pare che San Giorgio sia risuscitato un’altra volta, Qualcuno giura di averlo visto al Quirinale. Pubblicata su La Sicilia il 30.11.2011 Saro

lunedì 28 novembre 2011

Quando ti riducono la pensione da 420 a 400 euro al mese...

Mi chiedeva, tra l’ironico e il sarcastico, un pensionato con 400 euro al mese, di spiegargli come sia possibile che la società, cosi detta civile, s’indigni per i tagli alla scuola, all’università, alla cultura, alla ricerca, ma non spenda una parola in favore di famiglie o individui costretti a cercare il cibo, come gli animali, per sopravvivere; come sia possibile che la società civile, provi pena per un cane randagio, ma non scorga le migliaia di clochard costretti a dormire coperti di cartoni sotto i ponti; come sia possibile che la società civile, si lamenti del caro vita, mentre le strade sono stracolme di spazzatura, segno evidente di un consumismo smodato e irrefrenabile; come sia possibile che la società civile provi fastidio nel vedere un accattone chiedere l’elemosina, ma non si accorga delle migliaia frugare furtivamente tra i rifiuti in cerca di qualcosa da mangiare; come sia possibile che la società civile protesti se la propria pensione aumenti solo del coefficiente ISTAT mentre al mio interlocutore gli era stata ridotta da 420 a 400 al mese.
Mentre i suoi occhi sollecitavano una risposta, la carità m’impediva di comunicargli il mio pensiero. “Prova a immaginare, gli risposi infine, “per consolarlo”, come possa vivere un burocrate con millequattrocento euro al giorno; un amministratore delegato di banca con tre milioni di euro l’anno; prova a immaginare quale fatica debba impiegare un personaggio televisivo che guadagna duecentocinquantamila euro a puntata o un parlamentare che deve tenersi occupato cinque anni per avere la pensione; prova a immaginare di non pensare soprattutto questo se vuoi continuare a vivere”. Pubblicata su La Sicilia il 28.11.2011Saro Pafumi.

venerdì 25 novembre 2011

Consigli da seguire per il disbrigo di una pratica

Primo: Fai uso di camomilla per affrontare con calma e serenità il travaglio che ti attende. Secondo: usa la gentilezza nel rivolgerti all’impiegato: “ Scusi se la disturbo e la distolgo dai suoi onerosi impegni, ma ho una domanda da rivolgerle (segue quesito). Terzo: essere brevi e concisi perché solo per il pubblico impiegato il tempo è denaro. Quarto: abbassare ripetutamente il capo , in silenzio, per ogni documento richiesto. Quinto: non chiedere mai se l’elenco sia completo, perché lo saprai, dopo le tante volte che ti sei recato presso lo stesso impiegato, aggiungendo o intercalando nuovi documenti. Sesto: confidare nella fortuna, perché se l’impiegato con cui hai trattato la pratica è assente, sostituito o trasferito, devi, come nel gioco dell’oca, iniziare tutto d’accapo. Settimo: non chiedere mai il tempo che ci vorrà per l’espletamento della pratica. L’impiegato, in questo caso allargherà le braccia che, bada, non è segno di sconforto, ma un indicatore senza tempo. Ottavo: annota i giorni e le ore di ricevimento, perché ogni ufficio ha la sua tabella di marcia, salvo s’intende riunioni sindacali, blocchi telematici, ponti, assenze per malattia (starnuti, naso che cola, mal di schiena, raucedine, stress post-festivo ….). Nono: evitare i mesi di luglio e agosto che nei calendari del pubblico impiego sono soppressi e non recarsi negli uffici pubblici prima o dopo il periodo feriale e nei giorni che precedono o seguono le festività natalizie e pasquali, perché nel pubblico impiego, in tali periodi si discutono i bilanci preventivi o consuntivi delle ferie appena trascorse o da trascorrere. Decimo: non gongolare in caso di esito positivo della pratica. Hai appena attraversato la soglia dell’inferno. Saro Pafumi

giovedì 24 novembre 2011

Il terzo polo, una iattura

La peggiore iattura che è potuta capitare all’Italia è stata la nascita del terzo polo, ossia la rinascita della “democrazia cristiana” che s’inserisce come cuneo tra i due poli. Per dirla in termini “boccacceschi” si è formato il classico “triangolo” con il terzo polo che veste i panni “ dell’amante” alla ricerca del maggior “piacere” (interesse) che può ricavare dall’incontro con l’uno o con l’altro polo, pronto a tradire a seconda della propria convenienza. Questo fenomeno non è nuovo, perché faceva parte, come sistema, della prima repubblica, con partitini del due percento che segnavano la sorte dei vari governi. Questo sistema tipicamente italiano ha debuttato con la fuoruscita dell’area finiana dal PDL contribuendo a determinare la proliferazione di gruppi e gruppuscoli, figli degeneri di questo sistema. Un po’ come avviene nelle convivenze civili, assistiamo, pertanto, alle “famiglie allargate” in cui la coabitazione, figlia dell’incrocio altalenante del terzo polo, determinerà, com’è prevedibile, una cronaca instabilità nella vita politica del paese. Tra figli naturali, adottivi e spuri siamo già a quota 34, messaggeri di proposte e richieste che il neo presidente del Consiglio ha dovuto sorbirsi nelle sue consultazioni. Avevamo saluto la discesa in campo di Berlusconi, perché portatrice dell’alternanza, miseramente disgregata dalle forze centrifughe messe in campo dal terzo polo. Se il buon giorno si vede dal mattino, accantonata l’esperienza Monti, se ciò dovesse avvenire, si ripiomberà, com’è logico nel vecchio modo di fare politica. A questo punto se il governo Monti dovesse centrare i suoi obiettivi, non sarebbe il caso di continuare quest’esperienza? Del resto la democrazia, fondata sul consenso popolare, in Italia è continuamente disattesa, prova ne sia che a governi in carica non corrispondono quasi mai quelli eletti (la Regione Sicilia è d’esempio) e lo stesso deputato eletto ha il diritto di cambiare casacca a suo piacimento senza nessuna conseguenza negativa sul suo comportamento. Per dirla “alla Scalfaro: “ Non ci sto” a questo vecchio modo di fare politica, né mi costa rinunziare a questo surrogato di democrazia . A volte un padre adottivo (presidente nominato) può essere più utile di un padre naturale (presidente eletto), anche se con la democrazia il primo centri come i cavoli a merenda.
Pubblicata su La Sicilia il 24.11.2011 Saro Pafumi

lunedì 21 novembre 2011

Linguaglossa, antico palazzo che andrebbe recuperato

Questa rubrica ha tante volte gentilmente ospitato miei appelli rivolti all’amministrazione comunale di Linguaglossa perché manifestasse maggiore attenzione alla tutela delle facciate del Centro storico, biglietto da visita per i numerosi turisti e visitatori di questo paese. Nulla si è fatto e temo che nulla si farà, perché con la congiuntura economica in corso “convincere” i proprietari è pura utopia. Purtroppo quando le iniziative non sono tempestive, il decorso del tempo non gioca mai a favore. Occorre però richiamare l’attenzione dell’amministrazione comunale almeno su di un particolare palazzo (ex proprietà Del Campo) che si affaccia sulla piazza principale, che merita qualche attenzione particolare, trattandosi di un edificio che fronteggia la Chiesa Madre. Convincere i proprietari a fare qualche ritocco, in particolare a eliminare il limo che copre la facciata, non sarebbe opera onerosa, considerata la sensibilità degli attuali proprietari verso il bene della cosa comune. Tentare non nuoce. Spesso le parole, quando sono accompagnate dalla grazia di che le pronunzia (Sindaco), hanno il magico dono di trasformarsi in azioni. Almeno questa è la speranza. Linguaglossa 095/647245. Saro Pafumi Pubblicata su La Sicilia il 21.11.2011

martedì 15 novembre 2011

Italiani e........basta.

Quando mi è capitato di andare nel Nord Italia, spesso la prima domanda che mi era rivolta era: “ Scusi, Lei di dov’è? “ Siclianu sugnu !” rispondevo, già prevedendo la risposta ch’era sempre la stessa: “ allura, mafiusu è !”. Come siciliano toccava sorbirmi quest’epiteto, talvolta detto con simpatia, altre volte meno. Stessa sorte, purtroppo, tocca agli italiani in genere che, all’estero, sono marchiati con qualche altro colorito epiteto: “traditori” per via di certe voltafaccia nella seconda guerra mondiale, oppure” pasticcioni”, “superficiali” “inaffidabili”, “indisciplinati” “chiassosi”, “sporcaccioni”, “tangentisti”, “opportunisti”, furbetti di quartiere” e chi ne ha più ne metta. Col nostro comportamento non facciamo altro che avallare questo tipo di pregiudizi che sappiamo reali, anche se ci offendiamo se qualcuno ce li ricorda. La politica, che è la cartina tornasole del nostro carattere italico, contribuisce non poco a rafforzare queste nostre “prerogative”. Gli ultimi avvenimenti hanno allungato la lista dei nostri difetti: voltagabbana, trasformisti, transfughi, pentiti. L’arte del pentimento ci riguarda tutti, perché generale e generalizzato. Non c’è aspetto del vivere civile che non sia affetto dalla comoda moda del pentimento: dal pentito di mafia al pentito politico, dal pentito omicida al pentito evasore, volgarmente chiamato “ ravvedimento operoso”. Il pentimento affonda le radici nel cattolicesimo e la sua più alta espressione è l’atto di dolore. accompagnato da tre lievi colpetti della mano sul petto, quasi a sugello del proposito fatto, salvo a vanificarlo una volta fuori dal sagrato. Mi chiedo: Quand’è che noi Italiani ci riprendiamo la nostra dignità, felici di essere chiamati Italiani e….. basta?
Pubblicata su La Sicilia il 15.11.2011 Saro Pafumi

sabato 5 novembre 2011

Liberalizzare cosa e quando.

I partiti si sgolano annunciando, in caso di vittoria, le più ampie liberalizzazioni nel campo delle iniziative economiche. Per comprendere il significato del termine “liberalizzazione” bisognerebbe entrare nella testa dei politici, perché non ostante i tanti proclami, le cose rimangono invariate e la confusione su questo tema è troppa. Le resistenze delle varie corporazioni, com’è ovvio, sono diverse, cosicché nessuno passa dalle parole ai fatti. Lo slogan più gettonato? Tutto ciò che non è vietato dalla legge è permesso. Il che è come dire: non fare nulla, perché nel Bel Paese anche se vuoi mettere una sedia davanti al tuo negozio devi essere munito di licenza. In questo nostro Pese è vietato persino lavorare. Esempio: i benzinai. Questa categoria è costretta, in taluni casi, a mantenere chiuso il proprio punto vendita addirittura tre giorni in una settimana. D’accordo che per un cristiano “ ricordati di santificare le feste” è un comandamento, ma tre giorni di riposo non li prescrive, a un paziente che sta in salute, nemmeno il medico. E poi si sa: il riposo genera spese, perché paradossalmente il tempo libero, che presso gli antichi romani era dedicato alle cure della casa, dell’orticello, oppure allo studio. oggi è impiegato per vagare in auto in cerca di una meta, qualunque essa sia, pur di evadere, ma in molti casi “ a rompere le palle” agli altri: fare incetta di castagne o di olive nei fondi altrui, sbirciare nelle case di campagna abbandonate alla ricerca dell’ultimo chiodo conficcato nel muro. Le uniche attività libere in questo nostro Paese sono quelle in nero o quelle dei cinesi che non osservano orari e giornate di chiusura. Personalmente una richiesta da fare l’avrei: liberalizzate almeno il lavoro, perché in primis questa “fatica” è medicina e poi si sa chi produce paga più tasse o si vuole vietare di osservare anche quest’obbligo? Possibile che occorre invidiare i cinesi che in questo nostro Paese sono liberi di fare ciò che vogliono nei loro esercizi? Per favore, rendeteci, almeno gli occhi a mandorla!
Pubblicata su La Sicilia il 05.11.2011. Saro Pafumi

venerdì 4 novembre 2011

"Alla sbarra" un termine giornalistico medievale

Comprendo l’esigenza del giornalismo di usare titoli quanto più sintetici ed espressivi, ma mi si consenta l’osservazione, trovo di cattivo gusto l’espressione sovente usata: “ alla sbarra” per indicare un imputato anche solo iscritto nel registro degli indagati. Per “sbarra” s’intende la divisione di ferro esistente nelle aule giudiziarie per dividere gli imputati dai giudici. Da qui l’origine del termine. Vada, pertanto, quando il termine è usato nel caso d’imputati realmente ristretti nella gabbia, come talvolta si vede nelle aule giudiziarie, ma quando esso è usato per indicare un imputato rinviato a giudizio, o semplicemente indagato il termine, mi sembra non solo poco appropriato, ma addirittura di cattivo gusto, “medievale”. L’imputato è sempre soggetto alla presunzione d’innocenza. L’espressione linguistica non è solamente forma, ma anche sostanza, stile, civiltà e ogni parola ha il suo peso. La dignità di un uomo resta tale anche quando veste i panni dell’imputato. Lasciamo perciò che il termine sia usato espressamente e limitatamente in caso di persone che “visivamente” sono ristrette entro le gabbie, che spero la civiltà un giorno non lontano, le spazzi via, sostituendole con divisioni un po’ meno mortificanti, qualunque sia il reato che si giudica.
Pubblicata su La Sicilia il 04.11.2011. Saro Pafumi.

mercoledì 2 novembre 2011

Spesso i titoli dei giornali tradiscono il contenuto

I tanti professori d’italiano che ho avuto l’immeritato piacere d’incontrare nella mia carriera scolastica mi hanno insegnato, oltre alle tante regole da rispettare nello scrivere, anche la forma. L’uso appropriato degli aggettivi era una raccomandazione frequente, perché l’aggettivo, sostenevano, serve a vestire il sostantivo della qualità che l’accompagna, come avviene con un abito che, se ben confezionato, sembra essere cucito addosso a chi lo indossa. Questa breve premessa nasce dalla constatazione che chi scrive sui giornali speso dimentica questa regola e a volte usa, per brevità, termini impropri, tali da modificare radicalmente il senso dell’argomento trattato. Quando, per esempio, ascolto o leggo che il governo ha reso i licenziamenti più “facili”, m’interrogo se quest’espressione sia aderente alla realtà. Poi magari nel leggere l’articolo si scopre che il licenziamento è limitato ai casi in cui l’azienda versa in cattive condizioni economiche, talchè il licenziamento, verificate le asserite condizioni di disagio, è reso possibile dalla legge. Non è di tutti, purtroppo, approfondire il contenuto di un argomento giornalistico, per cui quel “facile” che accompagna il titolo genera o può generare nel lettore confusione, disorientamento, apprensione. Spesso nel confezionare un articolo si dovrebbe fare come con le medicine: accompagnare l’articolo con la raccomandazione di leggere le indicazioni d’uso, ossia di usare la precauzione di leggerlo per intero, perché il titolo, a volte, può essere fuorviante.
Pubblicata su La Sicilia 02.11.2011. Saro Pafumi

venerdì 28 ottobre 2011

Strada Costa ancora Chiusa. Chi sa parli

La domanda nasce spontanea: “Quando sarà percorribile la strada “Costa"? quella che dovrebbe collegare Linguaglossa a Castiglione, annoverata, per i costi, tra i guinness dei primati? Tempo addietro leggevo da qualche parte che il ritardo della sua apertura era imputabile a frane e/o smottamenti verificatisi nel versante di Castiglione. Da allora, sono passati circa due anni, oltre ai venti e più dall’inizio dell’opera e di apertura al pubblico non se ne parla. Una strada nata asfittica fin dal suo sorgere a causa di veti irragionevoli, aspirazioni galattiche, spese faraoniche e realizzazione inconcludente. Un cocktail di scelte sbagliate che ha sperperato una montagna di soldi, oggetto di derisione dalla stampa nazionale (La Repubblica). Non sorprende nessuno che un’opera iniziata non sia completata: è “lo stile Italia”. Quel che sorprende è il silenzio delle autorità comunali di Linguaglossa e Castiglione, come se la mancata realizzazione non le riguardasse. Informare di tanto in tanto i cittadini sulle opere in corso e talvolta sulle cause dei ritardi sarebbe una buona prassi da adottare, perché amministrare, significa anche informare. E su questo versante le amministrazioni tutte non brillano certo d’efficienza. Vorrà qualcuno prendersi la briga di rendere edotti i cittadini sulla questione o dobbiamo rassegnarci ad attendere come se la richiesta di notizie fosse una grazia, anziché un dovere? Pubblicata su La Sicilia il 27.10.2011 Saro Pafumi

domenica 9 ottobre 2011

La Mereneve ostaggio di vacche e motociclisti

La Mereneve che da Linguaglossa conduce a Piano Provenzana c’è in atto un’insolita gara tra i motociclisti che la percorrono a forte velocità e le vacche che si mettono di traverso, quasi in segno di protesta per quel territorio che è diventato un loro terreno di conquista. Chi dei due contendenti vincerà la singolar tenzone non è dato sapere: di certo a uscire sconfitti da quest’insolita sfida sono quei poveri automobilisti costretti, per motivi di lavoro, a percorrerla quotidianamente stretti in una morsa tra esseri irrazionali. Non vorrei azzardare ipotesi nefaste, perché il tratto di strada è purtroppo conosciuto in tal senso. Vorrei piuttosto richiamare l’attenzione di chi è preposto ai controlli di sceglier chi tra le due irriducibili entità, vacche o motociclisti, debba avere la precedenza. Sperare che qualcuno di questi contendenti rinsavisca è speranza vana: le vacche perché non sono esseri razionali, i motociclisti perché la razionalità l’hanno perduta. Il rimedio potrebbe venire dalle “forze dell’ordine”, ma pare che su questo versante mancano “ le forze” e pure “l’ordine” o comunque non sono adeguate. Non ci resta che il Padreterno, ma possibile che dobbiamo confidare in “Colui che tutto move o ( in questo caso) “rimove”? Saro Pafumi

mercoledì 5 ottobre 2011

Al Sud il lavoro è un obolo

Con gli occhi umidi d’incipiente pianto da farli apparire due perle di luce e un filo di voce che tradiva la sua emozione, mi comunicò le ragioni della sua gioia: “ Finalmente, dopo tanto “chiedere” ho trovato un benefattore che mi ha assunto come apprendista- manovale”. Quel “ chiedere” fu un pugno nello stomaco, perché aveva il significato di chi riceve qualcosa come elemosina e considerare il lavoro un obolo non mi fu facile. Turiddittu, come lo chiamavamo affettuosamente in paese, esile com’era, quasi trasparente, aveva ben d’onde d’essere felice. Per lui che aveva perduto tragicamente il padre-padrone e primo di altri quattro fratelli che, messi insieme , non raggiungevano vent’anni, quel lavoro non era un obolo ma un’autentica ricchezza, perché se è vero che s’era liberato, si fa per dire, dalle angherie paterne, per lui, quell’uomo, restava “padre”, come è chiamato chi porta il pane a casa. “Cinquecento euro al mese, un milione di vecchie lire” aggiunse, forse per fare apparire la paga più sostanziosa. Feci una carrellata mentale tra i giovani di mia conoscenza che avevano pressappoco la stessa età di Turiddittu, scoprendo che nessuno lavorava. “ Sei fortunato” gli dissi, masticando quel “ fortunato” per farlo apparire quasi incomprensibile. “ Trovare lavoro alla tua età”, aggiunsi non so se per felicitarmi o per consolarlo “ti porta lontano, ti tempra, ti responsabilizza” “Al momento” mi rispose “ il mio unico problema è aiutare mia madre a potere mettere “ a pignata supra u focu” mi disse con una vena d’infantile spavalderia, cogliendo sul suo volto l’espressione di chi, senza saperlo, diventa improvvisamente uomo. “Scoprire la felicità sul volto di un ventenne che trova lavoro come apprendista- manuale è una felicità che può assaporare solamente chi abita al Sud” pensai, amaramente, mentre Turiddittu, raggiante, si allontanava, per iniziare la sua prima giornata di lavoro. Pubblicato su La Sicilia il 07/10/2011 Saro Pafumi.

domenica 2 ottobre 2011

Fatica e povertà dietro il rito nostalgico della vendemmia

Isammu! L’ordine impartito col tono di un comandante d’armata che il capo rivolgeva ai “ cuffari”, che l’uva trasportavano a spalla al palmento. Una ciurma di disperati che al tempo della vendemmia trasmigrava, come transumanza umana, dai paesi peloritani alle pendici dell’Etna, un tempo verdeggianti di vigneti. Giovani che nelle braccia avevano la forza e nel cuore la disperazione. A Linguaglossa, ricordo, sostavano nella piazza principale del paese, dove la notte avevano il pavimento per giaciglio, la coffa come cuscino e pochi panni per ripararsi dal freddo che nel mese di ottobre le ossa penetrava, pungente.
All’alba il Capo radunava la ciurma che, a piedi, come formiche in fila, raggiungeva le alture dove la vendemmia aspettava che il rito della fatica si consumasse.
Non un solo chicco d’uva doveva andare perduto e se qualche grappolo si sgranellava, i chicchi bisognava raccoglierli uno a uno sotto lo sguardo vigile e minaccioso del massaro, Quando le coffe erano colme il capo ciurma gridava;: “ Isammu!” e la fila d’uomini, carica d’uva, si snodava lentamente, come un millepiedi, fino al palmento, dove l’uva era rovesciata ai piedi de“ i pistaturi” che attendevano. Su una verga di castagno il capo ciurma, intanto, incideva col coltello una tacca per ogni viaggio.
A colazione, per “cumpanaggiu”, due sarde salate che ognuno disponeva sopra una fetta di pane casereccio, dopo averle liberate dal sale, ma non dalle lische, chè alimento anch’esse erano. Giusto il tempo di riposarsi, ché cibo quello non era e, “coffa in spalla” di nuovo nel vigneto.
A mezzo giorno la ciurma si radunava nel baglio per il pasto principale: un peperone arrostito appeso al suo gambo come un impiccato passava dalle mani del massaru a quelle del cuffaru che doveva farlo bastare. Olio per condirlo? Nemmeno l’ombra, ma sale a volontà per renderlo meno insipido.
Alla fine della giornata se la ciurma trovava ricovero nell’azienda “pani schittu” per cena, Ma era il suono della fisarmonica che riempiva lo stomaco, accompagnato dalle nenie di chi ancora aveva fiato da sprecare. Se il padrone era generoso, il massaro offriva ai cuffari un’Alfa, il cui aroma si confondeva con l’aria impastata del dolce odore del mosto.
Quando i mozziconi uno dopo l’altro si spegnevano, passata la notte su di un giaciglio di paglia, una nuova fatica li attendeva il giorno dopo e un’unica certezza: ritrovare due sarde salate e un peperone arrostito per “cumpanaggiu”. Saro Pafumi

venerdì 30 settembre 2011

Non giudicate e non sarete giudicati, perché......

Gesù disse ai suoi discepoli: “Non giudicate e non sarete giudicati….perché con il giudizio con il quale giudicate, sarete giudicati”. Vediamo di applicare questa massima di Cristo alle dichiarazioni del cardinale Bagnasco sull’etica della politica italiana. La chiesa di recente ha attraversato vere turbolenze etiche con le vicende dei preti pedofili che hanno coinvolto alti prelati delle Chiesa universale. Come ha reagito la Chiesa innanzi a questi fatti criminosi? Condannando senza appello chi si è macchiato di simili disfatti e pretendendo nel caso di alti porporati le loro dimissioni. Personalmente mi sarei aspettato un po’ di più. Avrei chiamato i personaggi coinvolti, gli avrei “strappato” di dosso i loro abiti talari, riducendoli allo stato laico, consegnandoli quindi alla giustizia laica per essere giudicati, ammantandoli poscia del perdono cristiano secondo i dettami della dottrina cattolica. Un’azione questa che sarebbe stata capita e condivisa dal mondo laico, perché errare umanum est, con le conseguenze, però, che l’errore comporta sul piano etico e penale. Nulla di tutto questo secondo la teoria del più alto rappresentante della Chiesa, secondo il quale sono altri i metodi con i quali questi casi sono giudicati dalla Chiesa. Poiché però la Chiesa è comunità di cristiani in carne ed ossa e la morale deve essere unica e universalmente applicata, personalmente non condivido questo punto di vista e sono tra coloro che dinanzi a questi fatti sono “capiti” se si allontanano dalla Chiesa, come in una recente dichiarazione ha dovuto ammettere lo stesso Papa. Nonostante siano passati oltre duemila anni dalla venuta di Cristo, trovo affascinante, realistica, giusta e attuale la massima: “ ……perché con il giudizio con il quale giudicate, sarete giudicati”. E rigorosamente mi attengo ad essa, nonostante tutti i possibili “se” e “ma” che la Chiesa vorrebbe introdurre nella sua interpretazione.Pubblicata su La Sicilia il 12.10.2011 Saro Pafumi

lunedì 26 settembre 2011

Pubblicazione elenco gay. Tanto rumore per nulla

Secondo una certa corrente di pensiero, che condivido, l’essere gay non rappresenta sul piano squisitamente umano nulla da rimproverare a chi questa condizione riveste. Semmai non sono da condividersi alcune esternazioni pubbliche della “condizione gay”, vere carnevalate in senso assoluto. Ma anche sotto certi aspetti questi eccessi folkloristici si possono comprendere perché rientrano nell’ambito di una legittima provocazione contro chi questa condizione non riconosce o detesta. Detto ciò, non si comprende la polemica sorta attorno alla pubblicazione di un elenco di presunti uomini gay che ha scatenato la reazione indignata degli interessati e di una certa opinione pubblica. S’invoca la privacy violata e il diritto alla riservatezza. Se la condizione gay è da ritenersi pefetttamment5e normale, perché nulla toglie alla condizione dell’essere “persona” in senso umano, c’è da stupirsi delle reazioni scomposte, a meno che quel che si dice e si predica in pubblico non si pensa nel privato, facendo ricorso a quell’odioso esercizio delle riserve mentali, con le quali si dice una cosa e si pensa l’esattamente l’opposto secondo quel pensamento ipocrita al quale facciamo ricorso per trarci d’imbarazzo in certe situazioni scottanti. Se così fosse non è la condizione gay di cui vergognarsi, ma di questa nostra condizione mentale ondivaga e bivalente, autentica, vera nefandezza del pensiero umano.
Pubblicato su La Sicilia il 27.09.2011. Saro Pafumi

Piano Provenzana Cinque domande che attendono risposta

Ci sono eventi naturali incontrollabili: terremoti, inondazioni, eruzioni vulcaniche come quella che nl 2002 ha distrutto Piano Provenzana. Eventi di per sé imprevedibili e ingovernabili, Ci sono poi gli eventi causati dall’egoismo o dall’incuria dell’uomo: guerre, devastazione della natura, solo per fare alcuni esempi. Ci sono però eventi umani causati da fatti o atti omissivi altrettanto calamitosi che si aggiungono ai primi contribuendo a rendere la realtà più torbida. Sono questi ultimi i più pericolosi perché ripetitivi, scientemente perpetrati e per nulla giustificabili. E’ su quest’ultimo tipo di calamità che vorrei formulare cinque domande a chi si occupa di rilancio turistico dell’Etna Nord. Chiedo ai Sindaci del comprensorio, alle autorità preposte alla tutela, vigilanza e sviluppo del territorio, agli operatori turistici:
Primo: Per quale motivo dopo nove anni dall’eruzione del 2002 che ha distrutto la quasi totalità delle strutture recettive ancor oggi non c’è la benché minima traccia di insediamenti turistici?
Secondo: Le aree edificabili sono state assegnate agli operatori interessati alla loro realizzazione?
Terzo: Il ritardo è imputabile a cause naturali o a comportamenti omissivi?
Quarto: Le autorità preposte alla vigilanza hanno messo in mora i concessionari, ricorrendo alla revoca delle concessioni, in caso di ritardi immotivati?
Quinto: Cosa s’intende attuare per uscire da questo immobilismo produttivo e labirinto burocratico?
Pubblicata su La Sicilia il 26.09.2011. Saro Pafumi

sabato 17 settembre 2011

Dottore si diventa, ma talvolta può essere una scelta sbagliata

La lettera di E.Torrisi “Sono stanca” pubblicata su questo quotidiano (14.09 pg.31) è un condensato di delusioni che non risparmia niente e nessuno. Eppure, non aggiunge nulla di nuovo alle note amarezze di chi è alla ricerca di lavoro. Amarezze con le quali i giovani condiscono giornalmente le preghiere mattutine, quasi fossero altrettante suppliche rivolte alla Divinità che li ascolta. Problemi e ansie che accompagnano da molto, troppo tempo, non solamente i giovani, ma chi è alla ricerca d’un posto di lavoro. Da più parti quando si parla di lavoro, s’invoca l’art. 1 della Costituzione. “ L’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro” sul falso presupposto che il testo consideri il lavoro un “diritto”, mentre il termine è da intendersi come “valore”. Da questa errata interpretazione, l’amarezza di chi non trovando lavoro, lo considera la negazione di un diritto. Il lavoro è come il cibo: ciascuno deve trovare il modo di procurarselo. La difficoltà nasce non dalla mancanza di offerta, ma dalla domanda che è unica e quando si è in molti a volere la stessa cosa, la ricerca diviene affannosa e/oi inutile. Se in mille vogliamo andare al cinema e i posti a sedere sono cinquecento, è ineluttabile che la metà rimanga fuori, anche se teoricamente ciascuno ha il diritto di entrare. Viviamo in un' epoca in cui la regola, anche in tema di libertà, è il paradosso. Esempio: S’invoca il diritto di fare entrare i cani nei ristoranti. Se un ristorante ha 1oo tavoli che moltiplicati per quattro posti a sedere, può contenere quattrocento commensali e ciascuno porta con sé il proprio cane troveremo quattrocento commensali e altrettanti cani. Il diritto mi consente di portarmi appresso il cane, ma la logica non lo consente e la realtà ancor di più. Ciò significa che anche la libertà ha un suo limite e il lavoro non fa eccezione. Si può essere stanchi per mille ragioni, ma di solito si è stanchi per avere sbagliato in qualcosa: a volere considerare la laurea, per esempio, un diritto a ottenere il lavoro e non un investimento su e per se stessi. La stanchezza è un indebolimento delle proprie forze, ma fortunatamente non è irreversibile. Non comprendo la tragedia di chi l’espatrio lo considera una punizione. Ho conosciuto amici napoletani convintissimi di non lasciare Napoli nemmeno a cannonate, e altri amici che, emigrati, non vorrebbero fare ritorno nemmeno a cannonate. La stanchezza è una condizione di debolezza psicologica. Nessuno nasce dottore, avvocato o insegnante Si diventa e la scelta talvolta può essere sbagliata. Nel secolo scorso i nostri progenitori hanno fatto la scelta, costretti dalla “pancia”, di andare via dal Bel Paese. Oggi che il problema “pancia” non esiste la scelta diventa più traumatica. Da qui la tragedia di molti giovani che non vogliono tagliare il cordone ombelicale che li collega al proprio territorio o ai propri affetti. Un buco nero dal quale occorre uscire per non esserne inghiottiti e la riuscita dipende dall’uso che ciascuno fa della propria intelligenza. Lo studio serve a questo.
Pubblicata su La Sicilia il 17.09.2011 Saro Pafumi

venerdì 16 settembre 2011

Il triste destino della cassetta della posta

Cara cassetta (della posta),
in metallo, legno, ghisa che tu sia, quanto impegno nello sceglierti e curarti che, appesa al portone di casa il mio nome ben inciso portavi, fiera, sul tuo ombelico. La sera, al mio rientro a casa, il mio primo pensiero era d’esplorare nel tuo ventre alla ricerca di lettere o cartoline d’amici che rinfrancassero la mia mente o sollevassero il mio spirito. Tu, statica e muta, scrutando, furtiva, il mio volto, capivi se la missiva che custodivi era per me di gioia o di dolore. Ospitale com’eri, non rifiutavi nessun foglio, segretaria discreta, lettere o tasse che fossero. Oggi, purtroppo, quando apro il tuo ventre, non trovo più messaggi scritti di amici, parenti o conoscenti, che altre aride vie informatiche hanno scelto per notiziarmi (sms. i.mail. fax), ma depliants, brochures, avvisi pubblicitari che farciscono il tuo ventre, fino a soffocarti, chè lingua di carte attorcigliate mostri fuor dalla bocca, come d’impiccata. Da amica, che eri, confidente e riservata, sei ritornata a essere solo una cassetta inanimata in metallo, in legno o in ghisa che tu sia. Il mio nome che, sbiadito, porti ancora scritto sull’ombelico è solo ricordo di un’amicizia finita, d’un vincolo d’amore passato. Da custode e messaggera di notizie, sei diventata semplicemente una cassetta in legno, in metallo, in ghisa, inanimata, qual ’eri, come ti ho conosciuto, confusa e mescolata tra mille disordinate ferramenta impolverate. Pubblicata su La Sicilia il 14.09.2011. Saro P

domenica 11 settembre 2011

Quando il latte veniva munto sotto casa



“ Se mi volete fornire due litri di latte al giorno. caldo dev’essere, senza schiuma e alle sette di mattina” disse don Piipinu “spaventu” che abitava a due passi dalla chiesa madre. Pronuziò quelle poche parole con tono risoluto, rivolgendosi col “voi”, per stabilire le distanze, al capraio che conduceva in pascolo le sue terre. U Zu Giddiu che di mestiere faceva il capraio a domicilio, quell’ordine aveva dovuto subirlo senza batter ciglia. “ Senza schiuma”, come lo pretendeva don Pippinu, “ca scumazza” come voleva fornirlo u zu Giddio, la differenza non era trascurabile, perché scumazza oggi, scumazza domani, zu Giddio, “sodu, sodu”, s’’era costruita mezza casa A fine mese quando zu Giddiu presentava il conto a scumazza c’entrava e come, perché don Pippinu non era tipo da farsi infinocchiare. Le grida si sentivano in tutto il quartiere, perché è vero ca scumazza c’era ma non nella percentuale che don Pippinu calcolava. Il nomignolo “ spaventu” a don Peppino gli era stato affibbiato dagli amici del circolo dei civili, perché non c’era discorso che don Pippinu iniziasse o finisse, senza quel sostantivo: “spaventu! aumentanu i tassi”, spaventu! calau u prezzu du vinu; non se ne può più, chi spaventu!…..” U zu Giddio ca viddanu era, ma di cervello fino, aveva trovato il modo di vendicarsi con don Pippinu che secondo lui voleva “sparagnari troppo supra a peddi ‘i puvireddi”. A quel tempo le capre circolavano per il paese, munte sotto il portone di casa dei signorotti che il latte pretendevano, caldo e cremoso. Poiché le capre come tutti gli esseri umani fanno i loro bisogni, u zu Giddiu faceva in modo che defecassero proprio sotto il portone di don Pippinu, lasciandovi un tappeto d’escrementi che ogni mattina la serva si scomodava di rimuovere tra le imprecazioni del padrone che gridava: spaventu! nun si nni po’ cchiù di stu zimmuru di capraru!”. Se u zu Giddiu aveva perso “la battaglia da scumazza”, don Pippinu non era stato vittorioso sull’altro fronte, perché quando u zu Giddiu passò a miglior vita, davanti al portone di don Pippinu le cose mutarono radicalmente. Non c’era più, è vero, quel tappeto d’escrementi che tanto faceva infuriare don Pippinu, ma nemmeno quel latte, caldo cremoso, con o senza schiuma, che don Pippinu adorava. La morte s’era portato via u zu Ggiddiu insieme al suo latte che per don Pippinu, nato signorotto, a sentir lui, aveva un sapore speciale, perché, sosteneva, proveniva dal pascolo delle sue terre ch’erano “roba sua” come “roba sua” era anche il latte che producevano le capre. Saro Pafumi

giovedì 8 settembre 2011

Quando con poco grano seminato si sfamava la famiglia


Don Carru “malaspisa”, da suoi genitori aveva ereditato solo lo scomodo di fargli i funerali, “poviru ‘ncanna” era. Quelle due o tre salme di terreno che possedeva se l’era dovute sudare per averle in gabella da un signorotto del paese che, cu travagghiu di don Carru, ci mangiava anche lui. Quel terreno solo lui se l’era potuto caricare in groppa: argilloso e collinoso, com’era, non faceva gola a nessuno. Don Carru, però, che il cervello fino del padre aveva ereditato, quello sì, aveva capito che con quelle poche salme ci poteva sfamare l’intera famiglia, coltivandole a grano. In un’epoca in cui per acquistare un chilogrammo di pane bisognava piegare la schiena dall’alba “a basciura” fino a morirci di stanchezza, la fatica non consentiva di raccontarla agli altri, perché a sera di fiato rimaneva solo quello per respirare. Don Carru trascorreva la sua vita tra aratura, semina e mietitura e quando “ a gialla” o “ a niura” non gli distruggevano il raccolto poteva finalmente raccogliere quello che il suo sudore aveva seminato. La fatica di don Carru non finiva con la semina, “ u lueri” doveva pagare e con gli uccelli, quando il grano s’indorava, era giornalmente in guerra, dall’alba al tramonto, perché oltre a don Carru erano in troppi ad avere fame: la moglie, gli otto figli e migliaia di uccelli che quel grano volevano più e meglio di don Carru che l’aveva seminato. Passiri, cardiddi, virduni, carannuli un incubo per don Carru. Col campanaccio in mano e sotto un sole che gli arrostiva la pelle e gli cuoceva i polmoni don Carru se ne stava accovacciato, nascosto tra le spighe, a scampanare di continuo , accompagnando il frastuono con un grugnire stridulo come di maiale in procinto d’ essere scannato, più che per dissuadere gli uccelli, per implorarli, ché figli aveva anche lui da sfamare. Poi a sera quando gli uccelli avevano, per stanchezza o pietà, smesso di rubargli quel po’ di grano, don Carru abbandonava i panni del campanaro e si affidava agli spaventapasseri che sparsi in lungo in largo in mezzo al campo, vestiti dei suoi panni a don Carru in croce somigliavano. Quando la luna si affacciava, sorniona, tra i rami di un’alta quercia, arrostito dal sole, don Carru, In groppa al suo asino, anch’esso stordito dal monotono, sordo scampanare faceva ritorno a casa, ma col pensiero rimaneva accovacciato in mezzo alle sue spighe, che la mattina successiva contava una a una, come i sospiri che mandava al Cielo tutte le volte che un uccello cacciava dal suo grano. Saro Pafumi

domenica 28 agosto 2011

La cacca dei piccioni garantita dalla legge


V i ricordate tanti anni fa quando i contadini coltivavano a grano ogni fazzoletto di terra, per sfamarsi? Nelle assolate giornate estive col campanaccio in mano, il contadino seguiva il volteggiare dei passeri che a migliaia aggredivano le spighe del “suo” grano, perché il problema della fame li riguardava come e più degli uomini. Quando stanco di scampanare e di arrostirsi al sole il contadino faceva ritorno a casa “la guerra tra poveri” continuava con lo spavetapasseri che le sembianze di un Cristo in croce aveva, perché sofferenza, fatica, ingiustizie nel segno della carne trafitta hanno il loro simbolo. Oggi quest’impari lotta tra gli uccelli e l’uomo si è trasferita nelle citta, dove migliaia di piccioni scorrazzano indisturbati col campanaccio tra gli artigli, perché sono loro, a parti invertite, ad allontanare l’uomo dal loro habitat naturale, in ciò amorevolmente protetti dalla legge A simiglianza di ogni valore che capovolto s’è in quest’epoca di morali mollezze, non è più l’uomo al centro dell’universo, ma altre creature per troppo tempo “cacciate” o trascurate Quell’uomo di cui ci siamo terribilmente dimenticati, animale tra gli animali, offeso, calpestato oltraggiato financo “bombardato”, tutte le volte che è di ostacolo a determinati interessi economici (petrolio in prima linea). Se un desiderio ci accomuna in quest’epoca di improvvide certezze è di vestire le penne di un piccione qualsiasi con i suoi diritti, difese e prerogative, negati all’uomo. Ove ciò fosse di troppo, la certezza, almeno, di non essere bombardato a casa propria, dove l’interesse petrolifero, vale più di migliaia di vite umane, mentre da noi la cacca d’un piccione è costituzionalmente garantita meglio e più di qualsiasi diritto umano ( La Sicilia 25.08 pag.36).
Pubblicata su La Sicilia il 28.08.2011. Saro Pafumi

venerdì 26 agosto 2011

Come individualmente si può combattere la mafia

Cosa sia la mafia e i danni che procura alla società intera ci sono stati spiegati in tutte le salse. Individualmente operiamo in modo da portare il nostro personale contributo quest’annosa, difficile lotta? Ritengo di no, per le ragioni che cercherò di esporre brevemente. Quante volte ci capita di sentir dire: “quell’esercizio è nelle mani della mafia (o della criminalità organizzata) ", intendendo per “esercizio” una pizzeria, un ristorante, un bar, un supermercato, un centro commerciale, per fare alcuni esempi. Nulla che comprovi ufficialmente tale appartenenza, s’intende, giacché, in caso di prove inconfutabili, i rigori della legge entrerebbero in funzione. Se anche le prove mancano, ciò che percepisce l’opinione pubblica a volte è più scontato che mille sentenze, perché se c’è un detto che in ogni epoca e a tutte le latitudini non ha subito mai smentite è: "vox populi, vox dei”. Quale l’atteggiamento che abbiamo a fronte di simili illazioni-certezze?: l’indifferenza. Continuiamo a consumare la pizza in quel dato esercizio, o a riunirci festosi in quel dato ristorante o a fare la spesa nel supermercato “segnato”. Anziché isolare chi è “in odor di mafia” con i nostri comportamenti, indifferenti e superficiali, contribuiamo a foraggiarne l’attività. Si potrà obiettare che questo tipo di cultura non è degno di un paese civile, perché antepone alle certezze il sospetto. Può darsi. Poiché non siamo in campo giuridico, dove vige la regola della non colpevolezza fino a prova contraria, in casi sospetti sarebbe opportuno mettere in essere “la strategia dell’attenzione dubitativa”, evitando ogni rapporto d’affari. Una forma di puritanesimo, molto in voga nei paesi d’ispirazione anglosassone, dove in certi campi e per certe materie vige un moralismo intransigente: una dottrina essenzialmente calvinista, che, in certi casi, non solo è opportuna, ma necessaria. Anche così sii combatte la mafia, ma da noi questa cultura è lontana anni luce.
Pubblicata su La Sicilia il 26.08.2011 Grazie. Saro Pafumi

giovedì 25 agosto 2011

Un fiore al giorno:daucus carota


Ogni giorno inavvertitamente ci capita di calpestare una miriade di fiori selvatici, mentre disattenti camminiamo per le strade. Passiamo oltre senza degnarli di uno sguardo, non sapendo quello che perdiamo della loro bellezza, sol che ci fermassimo a osservarli. Da maggio a dicembre lungo le nostre strade cigli polverosi ospitano numerosi e inosservati fiori di “daucus carota”, detta volgarmente “vastunaca ”o carota selvatica.
Non mi dilungo a descrivere il fiore, che, chiunque. digitando il nome su internet. può trovare, ammirandolo, ricavandone descrizione e impieghi ecc. Mi preme piuttosto sottolinearne la bellezza ignorata: un ricamo fatto di minuscoli, delicati fiori, ai quali forse si sono ispirati i creatori dei fuochi pirotecnici, i pittori che si deliziano di miniature o le nostre nonne impegnate a lavorare di uncinetto ai quali il fiore incredibilmente somiglia. Una particolarità curiosa che non sfugge all’attento osservatore è quel suo minuto fiore centrale rosso scuro quasi fuori posto, che, unico, “esplode” solitario ed esttroso tra il candore che lo circonda. La natura talvolta sembra divertirsi a essere originale, col suo estro creativo unico e impareggiabile che l’uomo si affanna a imitare. Spesso la bellezza non è rappresentata solo dai fiori coltivati, noti e profumati, ma si nasconde tra le pieghe della natura selvaggia, quella appunto che ci mettiamo sotto i piedi tutti i giorni, senza sapere cogliere il fascino umile, misterioso e mistico che inutilmente essa ci trasmette. Se vi capita d’incontrare “ a vastunaca”, che fiorisce ignorata solitaria, altera e abbondante lungo i cigli stradali del nostro territorio, fermativi, coglietela e osservatela: scoprirete un autentico tesoro, ai più sconosciuto, che la natura generosamente ci regala, senza chiederci nemmeno un sorso d’acqua, seppur assetata di rispetto. Osservare la natura è un modo per aiutarci ad amarla.
Saro Pafumi

domenica 21 agosto 2011

Rendere pubblica la tabella degli onorari

“Scusi, quanto le devo?” è la domanda d’obbligo che il cliente rivolge al professionista dopo il consulto o parere. Se il cliente non è adeguatamente “preparato”, spesso si può rendere necessario il suo ricovero al pronto soccorso, difronte all’esosità di certe richieste. Nono sarebbe “cosa buona e giusta” per evitate spiacevoli sorprese, che il professionista, rendesse pubblica la tabella degli onorari, necessariamente obbligatoria in qualsiasi operazione di scambio prestazione-prezzo? E giacché ci siamo, non sarebbe auspicabile la “rintracciabilità” del consulto o parere, mediante una prenotazione necessariamente scritta, anche al fine di evitare la risposta del professionista che alla domanda: “Quanto le devo?” debba aggiungere: “ con fattura o senza?” (nel qual caso si risparmia l’Iva e conseguentemente si evadono le tasse). Poiché in Italia il buon senso non è di casa, speriamo che ci pensi l’Unione Europea, sempre pronta a ricordarci i nostri limiti e i nostri obblighi.
Pubblicata su La Sicilia il 21.08.2011. Saro Pafumi.

mercoledì 17 agosto 2011

Troppo facile lamentarsi

In questa rubrica scriviamo spesso lamentele, segnalazioni, inviti, proteste quasi tutti rivolti alle autorità perché provvedano a eliminare, alleviare, risolvere questo o quel problema. Un compito, quello del lettore, facile ed agevole, in sintonia col detto: “ u cumannari è megghiu du….”. E così si denunzia l’amministrazione che non elimina le buche nelle strade: che la spazzatura incombe nelle vie; che l’illuminazione è scarsa o mancante; che la circolazione è caotica e si potrebbe proseguire all’infinito, come infinite sono le lamentele che in definitiva parole sono, spesso, ahimè, non accompagnare da comportamenti concludenti da cui quegli inconvenienti fioriscono come malapiante. Chi amministra, salvo casi di azioni inconcludenti o colposamente dilatorie è in genere ispirato da sani propositi che nella realtà, il più delle volte, si scontrano con mille ostacoli,: difficoltà di bilancio, leggi da osservare, lungaggini burocratiche, veti vari e naturalmente, poiché siamo in democrazia, la ricerca del consenso a tutti i costi che spesso determina immobilismo e/o soluzioni rabberciate. Quanti di questi problemi non potrebbero trovare soluzione sol che noi cittadini ci facessimo carico dei nostri obblighi e di tanto in tanto ci facessimo un esame di coscienza? A patto che i nostri difetti non trovino l’assoluzione come i peccati confessati, ma il fermo proposito di essere diversi. La “spazzatura” prima di chiedere che sia rimossa dalle strade, incominciamo a rimuoverla dalle nostre coscienze ed il mondo sarà più pulito. Vogliamo lavoro? il problema dei problemi. Incominciamo a cercarlo, magari non sotto casa o ad inventarlo, rassegnandoci a svolgerne qualcuno non perfettamente in sintonia col nostro carattere o le nostre aspirazioni. L’autoconvincimento, accompagnato da un serio esame di coscienza, condito da ironia, è la migliore ricetta per credere in se stessi e progredire. Ho un amico che ha iniziato a lavare piatti, adesso li fabbrica. A volte le idee più geniali sono come i fiori di loto che nascono nel fango.
Pubblicata su La Sicilia il 18.08.2011. Saro Pafumi

venerdì 12 agosto 2011

Le feste:abbasta ca gira a grana

Oggi le feste di paese si celebrano con i riti e le tradizioni di cinquant’anni fa: “i bummi, a banna, a prucissioni e naturalmente …..a solita mangiata”. Non sono contro le tradizioni che rappresentano le memorie e le testimonianze che ci hanno lasciato coloro che ci hanno preceduto, ma un minimo di conoscenza storica sul personaggio o santo da celebrare e un certo revisionismo sul modi di celebrarli vanno auspicati. Prendiamo ad esempio le feste religiose S. Egidio e San Rocco che si celebrano a Linguaglossa, per parlare dei fatti nostri, ma il discorso investe gli altri. Se chiedete in giro chi fosse Sant’Egidio, tutt’al più vi sentite rispondere: “chiddu ca ci desi u bastuni a vecchia ca firmau a lava”. Se fosse turco, greco o cipriota pochi lo sanno e il resto della sua vita per i più, è molto indefinito. Per San Rocco, raffigurato con accanto un cane con in bocca una pagnotta, le conoscenze sono più particolareggiate, ma quello che più colpisce sentendo parlare, in giro, di questo Santo, più che la sua vita, sacrificata per curare gli appestati, è la storia di quel cane che lo accompagna, come se fosse più importante la seconda rispetto alla prima. Conoscendo poco o niente del Santo da celebrare, la ricorrenza, mi si perdoni il tono che può sembrar blasfemo, diviene un semplice rito propiziatorio abituale, quanto insignificante. Per fare un esempio è come se, invitati al matrimonio di una coppia, non conoscessimo i protagonisti della cerimonia. A meno che la festa o ricorrenza non sia l’occasione , l’ennesima, per addentrarci nel solito consumismo irragionevole e sfrenato, al quale in definitiva si riducono molte celebrazioni: “abbasta ca gira a grana” si sente infatti dire tra una festa e l’altra. Agnosticismo, dissacrazione, tutto questo? Forse. Certamente brutale realismo.
Pubblicata su La Sicilia il 12.08/2011. Saro Pafumi

sabato 6 agosto 2011

I giovani tra illusioni, speranze e delusioni

Gratta e vinci, Lotto alle otto, casinò vari, concorsi a premi, estrazioni di notte e di giorno, Grande Fratello, L’Isola dei famosi e via discorrendo sono figli del nostro tempo. Una volta i nostri antenati, nell’affannosa ricerca d’assicurarsi il cibo per sopravvivere, aguzzavano il cervello inventando modi e sistemi sempre nuovi per rendere più facile la ricerca del cibo o la vita più comoda. Attraverso questo ricerca spasmodica l’uomo ha inventato la freccia per andare a caccia o l’amo per pescare ed anche la ruota per rendere agevole il suo cammino. Oggi che tutto o quasi è stato inventato, non ci resta che inventare il lavoro, che, come il cibo per i nostri antenati, scarseggia o manca del tutto. Gratta e vinci, Lotto alle otto, Grande fratello e L’isola dei famosi son le invenzioni moderne, ossia i mezzi per sbarcare il lunario quando le esigenze aumentano e le risorse per soddisfarle difettano. La differenza tra i nostri antenati e noi moderni è che con i primi il mondo andava avanti, nel senso che le invenzioni, frutto dell’intelligenza umana, facevano progredire gli esseri umani, oggi invece si assiste alla loro regressione, perché tutte queste “diavolerie” moderne c’insegnano che per fare l’attore non occorre andare alla scuola d’arte drammatica, e per assicurarsi una rendita di seimila euro mensili basta affidarsi alla fortuna. Quando la realtà spegne le nostre speranze, si accendono i sogni e i giovani più di tutti si affidano ad essi. Mentre il sogno è l’attività psichica che si svolge durante il sonno, quello dei giovani è la speranza che si vive di giorno “ in mille, in fila, al sole, per un posto nella casa del Grande Fratello”. Speriamo che per molti, tanti questo sogno non sia una bolla di sapone che esplode sotto il naso o il vento trascina via.
Pubblicata su La Sicilia il 02.08.2011.Saro Pafumi

martedì 26 luglio 2011

Personaggi di paese tra realtà e leggenda

Spesso nei racconti delle persone anziane si richiamano alla mente personaggi rimasti memorabili: per la bravura nei mestieri esercitati, per certe loro stravaganze, per le imprese portate a termine, per le caratteristiche fisiche o di carattere o più semplicemente per la carica di simpatia che li ha distinti. Sono piccole storie personali che ciascuno a volte condisce esaltandone il lato umoristico o quello umano. Di questi ricordi vive l’anziano, aggrappato più al suo passato che al presente. A Linguaglossa, nei racconti di “ personaggi e storie” sono pieni i ricordi.
Don Pippinu “cosci ‘i viulinu”, per le sue gambe arcuate, lunghe e sottili aveva un incedere molleggiato come se a posto delle ginocchia avesse due ammortizzatori. Egli è stato l’antesignano del lavoratore precario, alternando alla finta ricerca del lavoro la voglia di non trovarlo… Egli, per certi versi, è stato il vero interprete del sillogismo napoletano:: “il lavoro è una fatica, la fatica fa male, il male fa morire, perciò non lavoro”.
Don Pippinu “mazzola”, provetto barbiere, non usava le forbici, ma la macchinetta tosatrice, perché, ai suoi tempi, ll “pediculus humanus capitis”, volgarmente chiamato pidocchio della testa, si annidava spesso tra i capelli dei giovani. Poiché la macchinetta era quella che gli aveva lasciato in dote il padre, più che tagliare i capelli li strappava, tra le grida dei giovani che si servivano della sua maestria. Memorabile la sua prima notte di nozze con “ a ‘gna Santa carru-carru” Al momento di “consumare”, si racconta, si fece il segno della croce, recitando: “In nome di Dio e ‘ da ‘gna Santa” e la moglie di rimando: “ trentanove e tu quaranta”. Personaggio di rilievo per bravura nei calcoli don Giuvanni “ u liprinu”. Se gli dicevi di essere nato, per esempio, il 24 novembre del 1937, ti dava il tempo di contare fino a tre ed ecco la risposta: quel giorno, era un mercoledì. Memorabile la scommessa tra don Saru e don Matteu. Il secondo sosteneva di essere in grado di mangiare fino a cento arancini. Ad ottanta, buttò la spugna, ma ottanta arancini, a pensarci, sono “una montagna”.
Don Marianu “u scaricaturi” trasportava i barili di vino, a spalla, dalla cantina al piano di carico. Contava i bicchieri di vino che tracannava per ogni barile trasportato. A fine giornata chiuse il conto a 320. Donna Nina “a paparuni” stava accovacciata davanti all’uscio del suo ballatoio sia d’estate che d’inverno, Don Angiulu “ u carritteri”, un prete naturale e genuino come lo aveva fatto sua madre. Quando in groppa al suo asino andava in campagna era seguito da una frotta di giovani manigoldi che gli cantavano in coro: “ Patri donn’ Angiulu carritteri, orbu davanti e sciancatu d’arreri”. Seguiva da parte del malcapitato una giaculatoria di male parole da fare impallidire l’uomo più blasfeno. E poi ancora don Ninu “ sputracavaddi”, Peppi “ u piru”, donna Francisca “nicchi-nacchi”, Enna “ a babba” Carmina “a ciunca”, Peppi “ u surci”, “Babbi ‘i ciccia”, donna Rosa “a pisciara”, “a matarazara”, Turi “ menza cajella”, Ninu lapollu “ u vanniaturi” e tanti altri che ricordare riempirebbero quest’intera rubrica. Simpatici, indimenticabili personaggi di paese, ciascuno con la propria storia sulle spalle, tra realtà e leggenda, vivi ancora oggi nei ricordi.Saro Pafumi

martedì 12 luglio 2011

Lettera a un figlio

Quanto accade nella società di oggi, ti confesso, mi lascia amareggiato, perché ciò che la mia mente quotidianamente registra non lascia presagire nulla di buono, né la mia età mi consente di assistere al suo evolversi. Non voglio trasmetterti, perciò, il pessimismo che mi attanaglia, perché non trovo giusto lasciare questo messaggio a te che, pieno d’entusiasmo, come lo ero alla tua età, hai il mondo davanti. Nell’espressione del tuo volto, però, colgo giornalmente la mia stessa amarezza, ma mentre il peso dei miei anni la rende insopportabile, la tua affonda nella speranza. Se così non fosse, ne soffrirei, perché un’incolpevole gioventù “bruciata” è come una vecchiaia sofferente. Noi adulti, ebbene che tu lo sappia, abbiamo vissuto una stagione di colpevole sprovvedutezza, se in qualche caso, per fare un esempio, a soli quarant’anni ci è stato riconosciuto il diritto alla quiescenza. La nostra spensieratezza, giova ammetterlo, l’abbiamo in parte costruito sul futuro di voi giovani, se il mondo che vi lasciamo in eredità è irto di affanni e difficoltà. Un vecchio proverbio recita: “ u patri ca spenni e spanni lassa ‘e so figghi guai e malanni”. Una massima di saggezza che abbiamo dimenticato per un cinquantennio sollazzandoci tra spensieratezza e irresponsabilità. Qualcuno ci rimprovera che la nostra pensione finisce nelle vostre mani, dimenticando di ammettere ch’essa ci è stata da voi anticipata. Per fortuna non è sempre così, perché tanti di voi giovani hanno la dignità di non chiedere, preferendo affrontare sacrifici e/o privazioni, ma se anche ciò non fosse, altro non è che restituirvi a rate quanto vi abbiamo anticipatamente tolto Un paese non è in guerra solo quando è contro altri belligerante, ma anche quando il suo popolo combatte la sua quotidiana battaglia per sopravvivere. E’ questo il mondo di macerie matreriali e morali che avete ereditato e di ciò dovremmo chiedervi perdono. Alea iacta est!, putroppo. Non mi resta che spronarti alla speranza, ma constato ch’essa, per fortuna, fa parte del tuo patrimonio. Mi consola l’averti trasmesso, almeno, una parte di me: l’ottimismo, che a me non serve più. Saro Pafumi

martedì 5 luglio 2011

"I putii" di frutta e verdura a Linguaglossa negli anni cinquanta

Linguaglossa intorno agli anni cinquanta “i putii” di frutta e verdura erano “zone franche” sottratte ad ogni forma di controllo igienico e fiscale. “ A Matarazzara”, Donna Francisca “a lampiunara”, donna Rosa “mazzavinti” si contendevano “ a matrici”, “ e quattrucanti”, “ a Nunziata” il primato delle vendite. L’igiene era sconosciuta e la concorrenza anziché sui prezzi verteva sulla grammatica. Chi entrava ‘nda putia di donna Francisca “a lampiunara”, doveva fare vere acrobazie lessicali per individuare il prodotto: cavofioli, aragi, pesica, sbergi, fica niuri, pumadori, erano i cartelli più gettonati, scritti per lo più in dialetto o tradotti in italiano volgare appesi ai rispettivi contenitori con “gnacchi di lignu” che la sera servivano, all’interno, per appendere la biancheria ad sciugare. Oggi alle venditrici sono richiesti grembiule e copricapo, mentre a quei tempi u fantali era d’obbligo non per igiene, quanto per evitare di sporcare la veste “ripizzata”, chè risparmiare si doveva il sapone” a pezzu” fatto in casa con la liscivia e la fatica di lavare a mano. A Donna Francisca i mutandoni apparivano sotto alla veste che a furia di lavarla, si era abbondantemente accorciata. A matarazzara, d’inverno, teneva sotto le gambe “ a conca” col carbone al quale non aveva dato il tempo di maturare, cosicché l’odore acre dell’ossido si mescolava con quello della frutta marcia. Tale abitudine le aveva fatto rimediare fastidiose “ rociule” ai piedi e “ vistose “ crapriole”alle gambe, talché in paese era un esempio da non imitare. Per cassa si usava una “cufina” dove erano conservate le poche lire incassate. Le “ova frischi” come si leggeva sul cartello, esposte nel paniere con la paglia erano vendute, per esaltarne la genuinità, ancora sporche come quando erano uscite dal loro buco naturale. Chi non si serviva “de’ putii” aspettava che di buon mattino arrivassero in paese con i loro asini gli ortolani “ francavigghioti”, che dentro “le bertule” portavano la freschezza dei loro campi. I prezzi erano più bassi e la qualità migliore, ma tutto, legato all’orario e alla quantità che si esauriva in mattinata. L’incubo di questi ambulanti era però una giardia municipale che usava acquistare esibendo una banconota da diecimila, pretendendo il resto per due “mazzi” di lattughe. Qualcuno furbescamente aveva annotato il numero di serie e giura che la banconota fosse sempre la stessa. Oggi si compra con l’indicazione geografica, la frutta di stagione si trova tutto l’anno, l’aglio cinese ha soppiantato quello di Sant’Alfio, ma nessuno ci puo’ fare ritrovare “i pira don santu”, “i pruna regina” ,”i fichi de’ terri ianchi”, “i pumma cola”, “i pira paradisu”, “i pira faccibedda” vere delizie e dolcezze rubate al nostro palato. Saro Pafumi.

domenica 26 giugno 2011

Un tempo i divertimenti erano a costo zero

Quando tempo addietro i punti di ritrovo erano le bettole, non era infrequente incontrare la sera ubriachi per strada. A Linguaglossa le bettole che si contendevano i clienti erano due: quella di “turi tutella”e l’altra di “donn’Austinu coddu curtu”. La concorrenza tra i due non era rappresentata dal prezzo, ma dalla qualità, ché dovendo soddisfare palati avvezzi alla quantità, più che alla qualità si contendevano il primato di chi mescesse vino con più alta acidità. A quei tempi trovare cibo era come vincere un terno al lotto, per cui era d’uopo accompagnare le bevute spiluccando due generi assai in voga e a buon mercato: cacucciuliddi e lupini. I primi della famiglia dei cardi erano raccolti ai margini di campi incolti, i secondi rappresentavano per l’uomo quello che “ a favedda” era il foraggio per gli animali; Entrambi magistralmente bolliti e salati esaltavano la sete, per cui i bicchieri tracannati non si contavano. Gli effetti si vedevano la sera, quando questi bevitori per mestiere dovevano far ritorno a casa. Era il momento in cui entravano in azione “ i buoni samaritani”, squadre di giovani che si proponevano il “caritatevole” compito di accompagnare a casa chi era impedito dai fumi dell’alcol. La strategia era sempre la stessa: accompagnare “il bisognoso” nel posto più lontano dalla sua abitazione, bussare a una porta scelta a caso e nascosti dietro l’angolo osservare la reazione di chi aprendo l’uscio doveva convincere l’ubriaco che quella non era casa sua. Una serata così organizzata per certi giovani di allora era una ragione di vita, perché di giorno la loro unica occupazione era come rimediare il cibo. Su ciò le idee erano chiare: questi perenni affamati conoscevano le mappe di tutte le proprietà, la coltivazione dei frutti, il periodo di maturazione e la qualità. Una sola cosa non gli importava conoscere: chi fossero i proprietari. La sera, poi, lunga e noiosa, doveva pur avere uno sbocco ludico che di solito era “rompere le palle” agli altri. Le occasioni non mancavano come per esempio spiare di notte una coppia di novelli sposi che avevano la sfortuna di abitare nei piani bassi. Il giorno dopo della coppia si conoscevano il colore delle mutande e naturalmente i particolari del resto… Il divertimento, si sa, serve a sollevare l’animo dalle fatiche e quando è a costo zero genera le migliori soddisfazioni. Oggi, invece, il divertimento ha un costo e genera fatica anziché alleviarla. Forse oggi di divertimenti ce ne sono troppi e come l’eccesso di cibo genera obesità, così i troppi divertimenti generano noia e assuefazione, perché in quest’ambito manca l’essenziale: l’inventiva personale o di gruppo, abituati come siamo a trovare tutto pronto, programmato e naturalmente ….a pagamento. Saro Pafumi

venerdì 24 giugno 2011

Vite arate dalla fatica


“U fazzulettu” legato dietro la nuca, “ u fantali” annodato ai fianchi, sopra una gonna lunga fino alle caviglie, il costume con cui vestivano le giornaliere di campagna, che, un tempo, le mani avevano callose più degli uomini. Così ’nfrasciamate” si recavano quotidianamente al lavoro nei campi, sacrificando alla fatica la loro femminilità, che solo ai mariti riservavano, nei rari momenti di riposo, tra le disadorne mura domestiche, tinte a calce. Già allora, u travagghiu” nei campi le aveva parificate agli uomini, perché quando si lavora “di mani” la fatica non conosce sesso e condizione. Donnapeppa, a ‘Ngnurangiula, Cummarirosa, giornaliere di campagna, ma anche mogli e madri, vite arate dalla fatica, avevano lo zolfo nei polmoni, quello che il controvento non riusciva a smaltire, e gli occhi rosso fuoco, quando, a sera, avevano finito di “’nzolfare” il vigneto. Quando, nella penombra della sera, dalla cisterna il secchio risaliva a fatica trascinato da una carrucola arrugginita e cigolante, era il segnale che la giornata era finita. A circolo, sul collo del pozzo, si snodavano queste donne-uomo “u fazzulettu” intorno al capo intriso di sudore, polvere e zolfo e sparsa la loro chioma al vento, come criniera di cavallo, si sciacquavano il viso, più per rinfrescarsi che per pulirsi, perché la polvere, quella, era finita in fondo all’anima. Dietro un muro di pietra a secco, lontane dagli occhi indiscreti dei compagni di lavoro, anch’essi “cu muccaturi” in testa a quattro nodi, si ricomponevano le vesti, aggiustandosi le brache, ché anch’esse s’erano appesantite dalla stanchezza. Poi, incamminandosi per tortuosi sentieri pietrosi ripercorrevano a ritroso, con un fascio di legna in testa, il lungo tragitto che le conduceva a casa. Qui la fatica ricominciava, perché tra un’impastata di pane e la biancheria messa a mollo per l’alba successiva, il giorno pareva non avesse fine. Anche le parole, quelle che in genere si scambiano marito e moglie nella fase di riposo, stentavano ad uscire, ché per la fatica e l’impegno s’erano asserragliate in bocca, come se quel poco fiato rimasto fosse da risparmiare. Un frugale pasto consumato attorno “a buffetta” rischiarata da una lampada di 15 watt era il regalo del giorno: “U cuzzagnu” del pane, tagliato col coltello “a roncola”, spettava al padrone di casa e qualche cipolla rimediata in campagna era, assieme al poco pane, il companatico per loro e i figli. Quando, d’inverno, lo zufolare del vento nevoso s’incuneava tra le fessure dei coppi, un fascio di “ sciarmenta” tratto dalla limitrofa stalla “avvampava” la stanza e anneriva il bianco della calce, ma portava il dono del calore, quel calore che nella breve notte, sul giaciglio nuziale, le membra affaticate dei padroni di casa cercavano, intrecciandosi in fremiti d’amore, solo quando una mezza dozzina di loro “cuccioli” stanca di fame e con i panni ancora addosso precipitava nel sonno. Pubblicata su La Sicilia il 28.06.2011 Saro Pafumi

martedì 21 giugno 2011

Non manca il lavoro, mancano le scrivanie

“Manca il lavoro!” Una frase ricorrente, ossessiva che si sente ripetere giornalmente Forse sarebbe più esatto dire: mancano le scrivanie, quei tavoli dietro i quali ciascuno sogna di accomodarsi. Oggi il lavoro non è più concepito come “fatica”, ma più semplicemente come occupazione. C’è migliore occupazione di stare seduto dietro una scrivania? Il lavoro manuale? Roba da barbari. Provate a cercare un idraulico, un falegname, un fabbro, un calzolaio, un operario agricolo, quello che una volta si chiamava “ giornaliero di campagna”. Se dopo avere sudato sette camice, trovate qualcuno che appartiene a queste categorie, fatevi il doppio segno della croce, per almeno tre motivi: siete fortunati se il giorno convenuto si presenterà all’appuntamento; chiedete anticipatamente quant’è “ lo scomodo”. per non dovere ricorrere agli usurai; documentatevi sulle capacità professionale per non essere costretti a riparare i danni subiti e, consentitemi un consiglio fraterno: non azzardatevi a chiedere la fattura per le prestazioni eseguite. Farete la figura di un extraterrestre e sarete considerato “nell’ambiente di lavoro” un appestato da evitare. A Napoli, dove ho vissuto per molto tempo, ho conosciuto il Presidente dei Disoccupati Organizzati, un valido pittore (imbianchino) alla cui corte lavorativa si era ammessi dopo una prenotazione di tre mesi, che diventavano quattro o cinque se intervallate dal periodo feriale al quale “il Presidente” con famiglia a seguito non poteva rinunziare per la modica spesa di tre milioni al mese nella bella Ischia. Manca il lavoro? Mancano le scrivanie! Mi diceva un vecchio artigiano, un artista d’altri tempi: “Oggi per vivere bene non c’è bisogno di conoscere il mestiere, basta avere un martello in mano e una tasca piena di chiodi. Un “ratteddu” lo rimedi giornalmente e con esso ci puoi campare con “la coscia a cavallo”. Se tornassi giovane, con i tempi che corrono, non andrei più “ o mastru”, farei u rattiddaru”. Chi è il “rattiddaru”? Un lavoratore tuttofare, camaleontico, invisibile ricercatissimo e naturalmente ….”ghosh” per il fisco, la migliore “assicurazione” per andare avanti.
Pubblicata su La Sicilia il 21.06.2011. Saro Pafumi

mercoledì 15 giugno 2011

Storie di ordinaria amministrazione ovvero l'impiegato solerte e l'utente sensibile

Lo stipendio?” mi diceva un impiegato di quinto livello col quale scambiavo amichevoli confidenze, “è solo un’anticipazione della futura pensione”. “Se dovessi vivere solamente con quello arriverei, a stento, alla terza settimana” “E come fai per la quarta?” gli risposi. “Mi arrangio, nel senso che faccio la cresta su qualunque operazione svolgo. Per esempio, se devo rilasciare un certificato dico all’utente che ci vogliono almeno tre giorni. Poiché andiamo tutti di fretta, i tre giorni diventano “ a vista” se l’utente ha orecchio. Sai, da noi, la burocrazia è la nostra migliore alleata. Gli utenti hanno le scatole piene per mille ragioni e la perdita di tempo è una delle principali cause. La burocrazia non è una malattia incurabile, basta trovare il bravo medico ossia l’impiegato “solerte” e l’utente “disponibile”. Certamente per risolvere problemi complessi occorre accedere ai piani alti, ma anche lì le soluzioni sono a portata di mano, ma, ovviamente, le tariffe cambiano.”. “Certamente non è consolatorio ed edificante, quanto mi dici”, replicai “perché certe prestazioni da parte dell’impiegato sono un dovere”. “Forse non sono stato chiaro: il dovere è sempre salvo, basta saperlo modulare. E’ qui che sta il segreto. Consentimi un’altra confidenza: non bisogna mai esagerare, perché oltre certi limiti si cade “nell’overdose” e quella fa male a chi la pratica e a chi la subisce. “ Se ho ben capito, si tratta di poter superare la quarta settimana” aggiunsi . “Beh! La quarta, la quinta… anche le ferie, quelle costano, sai?”. “Di che ti lamenti, allora?”, aggiunsi. “ Dello stipendio, te l’ho detto. E’ assolutamente inadeguato, per cui bisogna arrangiarsi”. Mentre il mio amico, avviandosi alla cassa faceva finta di pagare un euro e quaranta due caffè consumati, lo precedetti e rivolgendomi al cassiere a voce alta dissi: “ Certo, la vita è cara”. Egli guardandomi con aria strana e un poco spazientito, porgendomi il resto, mi rispose: “ Trova forse esagerati due caffè 1.40 ?”. “Niente affatto”, risposi, “trovo esagerato che a doverli pagare sia chi con lo stipendio non raggiunge la quarta settimana”. Saro Pafumi

venerdì 10 giugno 2011

Indicazione obbligatoria sui prodotti, ma i controlli?

Una recente (si fa per dire) legge ha introdotto l’obbligo di indicare sulla merce posta in vendita un cartello con l’indicazione geografica. Oggi che l’economia è in regime di globalizzazione, il che significa che sulle nostre tavole finiscono prodotti coltivati e raccolti nelle zone più sperdute della terra, tale indicazione è assolutamente necessaria. La presenza di “virus” in qualche alimento straniero rende tale norma assolutamente indispensabile per la difesa della nostra salute. Che cosa avviene nella realtà? Che l’indicazione non è in molti casi veritiera. Ci si trova di tutto. Arance di Francofonte mescolate con quelle di Lentini, Paternò e Scordia o con quelle argentine o brasiliane; le cipolle di Tropea assieme ad altre che di Tropea hanno solo il colore; patate di Giarre, frazione di Bologna e per finire pesce “rigorosamente” pescato nello Ionio (parola di pescatore), come se fosse il mare più pescoso del mondo. Poiché il consumatore non può avere conoscenze così particolari, finisce col comprare quanto gli è offerto, ma con la consapevolezza di portarsi a casa un pout-pourrì, finendo con l’essere “ carnuto e mazziato”. Se ti azzardi a dire, com’è accaduto a un mio amico, che quelle cipolle, vendute per strada, non sono tutte di Tropea, ti senti rispondere: “ Ma picchì lei canusci i cipuddi di Tropea?” Il cliente: “ facciamo una scommessa ? Scelgo quelle che non sono di Tropea e gliele tiro in testa, una a una” Il negoziante: “si nni issi si nni issi, mi facissi travagghiari!”. Spesso avere la coda di paglia non è solo un modo di dire.
Pubblicata su La Sicilia il 11/06/2011 Saro Pafumi

martedì 7 giugno 2011

I corrotti, i soliti paperoni

Fateci caso. Tutte le volte che viene alla luce una corruzione, chi ci trovi come protagonisti? Coloro che hanno stipendi d’oro al punto che vivendo come comuni mortali, non saprebbero nemmeno come spenderli. Sembra che l’ingordigia sia la loro personale caratteristica. Il paradosso è che questi avidi, indegni paperoni una volta scoperti e condannati non rischiano quasi nulla: qualche anno di carcere, per lo più trascorso agli arresti domiciliari e naturalmente, aspetto alquanto scandaloso, una pensione d’oro. Poiché tra i tanti reati che si commettono in Italia quello che riguarda la corruzione è uno dei più indegni in quanto a paternità e conseguenze, logica vorrebbe che nei confronti di costoro si applicassero le stesse regole dei mafiosi: la confisca dei beni e ovviamente, per essere generosi, l’elargizione della pensione sociale. Perché non è applicata per analogia la normativa sui mafiosi? La risposta potrebbe essere ovvia quanto scontata: tra i corrotti spesso ci sono i politici. Avete mai visto o trovato persone disposte a legiferare contro se stessi? E allora, persistendo questa ingloriosa indulgenza ed ambiguità legislativa, sarebbe opportuno per equità proporre che chi è scoperto a rubare un pacco di biscotti o un reggiseno in un supermercato sia nominato “campione di parsimonia”. Naturalmente con adeguamento automatico della pensione.
Pubblicato su La Sicilia il 08/06/2011. Saro Pafumi

domenica 5 giugno 2011

Un personale ricordo di Milluzzo

Ho conosciuto Milluzzo, morto l’altro giorno alla veneranda età di 96 anni, mezzo secolo addietro. Un personaggio che ebbi modo di apprezzare, grazie ad un altro personaggio insolito e straordinario nello scenario di quel tempo: Santo Calì. Era il tempo in cui a Linguaglossa l’amministrazione della sinistra, conquistato il Comune, voleva dare una ventata di novità al paese, grazie anche e soprattutto all’iniziativa di Calì che nel paese e per il paese prodigava ogni suo sforzo di rinnovamento. Tra mio padre ,ex fascista, e Santo Calì, comunista, nacque un originale sodalizio volto a cambiare l’aspetto di una parte del paese che oggi si chiama Piazza Pretura. L’incontro tra i due avversari-amici trovava nel primo, mio padre, l’interesse ad affermare alcune sue iniziative commerciali e nel secondo, Calì. Il desiderio di trasformare in bello una parte del paese. Furono asportati da quel quartiere migliaia di metri cubi di terreno e a loro posto fu costruita un’ampia piazza e una stazione di servizio per carburanti con i colori privati di chi quest’opera a sue spese aveva realizzato. Mancava, com’era necessario, di dare un tocco artistico all’impianto di carburanti e Santo Calì pensò bene di affidarne l’incarico all’estro rivoluzionario di Milluzzo che nell’impianto volle e seppe raffigurare, gratuitamente, una ventata di novità artistica, progettando una serie di casette geometriche che all’epoca, riscossero l’entusiasmo e il plauso non solo della cittadinanza, ma anche di tutti gli operatori commerciali dell’intera provincia e oltre. Ho voluto venerare la memoria di Milluzzo, artista magistrale e poliedrico, con questo semplice ricordo personale, anche per rammentare alla cittadinanza, spesso priva di memoria, che Linguaglossa annovera tra i tanti preziosi capolavori di Milluzzo, rappresentati da alcuni quadri di pittura presenti nella pinacoteca comunale, questa indicativa opera, testé ricordata, frutto dell’inventiva e del fascino artistico e anticipatore di Milluzzo.
Pubblicata su La Sicilia il 06.06.2011 Saro Pafumi

giovedì 2 giugno 2011

I processi mediatici, spettacoli indecorosi

Possibile che non ci sia uno straccio di norma, l’iniziativa di un magistrato, il varo di una legge, l’intervento della Corte Costituzionale o chissà chi per impedire questi processi mediatici su fatti di cronaca nera ancora “fumanti”? Ci si appella da più parti al diritto di cronaca, ma mi chiedo: rientrano nel diritto di cronaca anche le ricerche di prove e indizi, interviste di presunti colpevoli e fiancheggiatori, parenti e testimoni? E il segreto istruttorio che fine ha fatto, se anche taluni magistrati non disdegnano di farsi intervistare fornendo prove, indizi ed interpretazioni sulle istruttorie in corso? Tanto vale che il processo abbandoni le vecchie aule giudiziarie e si celebri negli studi televisivi. Del resto, oggi, i processi seguono due distinte percorsi: quello sostanziale affidato alla legge e quello formale seguito dalla Tv. Un tempo l’Italia rappresentava la culla del diritto, forse in queste condizioni si potrebbe parlare di culla del “rovescio”, L’Inghilterra che del diritto di cronaca ha fatto il suo vangelo, con i processi ha un approccio serio, se è vero che non permette riprese televisive all’interno delle aule giudiziarie, fa trapelare col contagocce notizie al riguardo, tutela la privacy dell’imputato, persino coprendogli il volto (il caso Restivo, docet!) e i giornalisti sono persino diffidati dal comunicare notizie che possano tradire il segreto istruttorio. Questi ultimi casi giudiziari poi, hanno fatto scoprire in Italia le debolezze delle indagini che se non si fondano, com’ è ormai consuetudine, sulle intercettazioni non vanno da nessuna parte. Un’altra considerazione che fa accapponare la pelle, poi, è la facilità con la quale i presunti colpevoli, i testimoni e persino i parenti della vittima concedono interviste ancor prima che sia loro consegnato il corpo della vittima per far celebrare i funerali. Possibile che l’uomo possa metabolizzare tanto dolore in così breve tempo? E mi chiedo ancora: che ne sarebbe della Tv. se non ci fossero Berlusconi con le sue vicende giudiziarie e boccaccesche e questi delitti controversi e misteriosi con cadenza settimanale a impegnare giornalisti e ospiti vari? Qualche ospite di queste trasmissioni –disgusto definisce questi processi-spettacolo “tritacarni mediatici” salvo un minuto dopo aver fatto questa dichiarazione lasciarsi andare in previsioni di colpevolezza, ipotesi di soluzioni, profili psicologici dei protagonisti e via discorrendo. Verrebbe da dire:“ Meno male che Silvio c’è” e ci sono pure questi delitti, altrimenti la Tv. navigherebbe nella melma paludosa di spettacoli del tipo: grande fratello, l’isola dei famosi e cretinate varie.
Pubblicato su La Sicilia il 02.06.2011 Saro Pafumi