Isammu! L’ordine impartito col tono di un comandante d’armata che il capo rivolgeva ai “ cuffari”, che l’uva trasportavano a spalla al palmento. Una ciurma di disperati che al tempo della vendemmia trasmigrava, come transumanza umana, dai paesi peloritani alle pendici dell’Etna, un tempo verdeggianti di vigneti. Giovani che nelle braccia avevano la forza e nel cuore la disperazione. A Linguaglossa, ricordo, sostavano nella piazza principale del paese, dove la notte avevano il pavimento per giaciglio, la coffa come cuscino e pochi panni per ripararsi dal freddo che nel mese di ottobre le ossa penetrava, pungente.
All’alba il Capo radunava la ciurma che, a piedi, come formiche in fila, raggiungeva le alture dove la vendemmia aspettava che il rito della fatica si consumasse.
Non un solo chicco d’uva doveva andare perduto e se qualche grappolo si sgranellava, i chicchi bisognava raccoglierli uno a uno sotto lo sguardo vigile e minaccioso del massaro, Quando le coffe erano colme il capo ciurma gridava;: “ Isammu!” e la fila d’uomini, carica d’uva, si snodava lentamente, come un millepiedi, fino al palmento, dove l’uva era rovesciata ai piedi de“ i pistaturi” che attendevano. Su una verga di castagno il capo ciurma, intanto, incideva col coltello una tacca per ogni viaggio.
A colazione, per “cumpanaggiu”, due sarde salate che ognuno disponeva sopra una fetta di pane casereccio, dopo averle liberate dal sale, ma non dalle lische, chè alimento anch’esse erano. Giusto il tempo di riposarsi, ché cibo quello non era e, “coffa in spalla” di nuovo nel vigneto.
A mezzo giorno la ciurma si radunava nel baglio per il pasto principale: un peperone arrostito appeso al suo gambo come un impiccato passava dalle mani del massaru a quelle del cuffaru che doveva farlo bastare. Olio per condirlo? Nemmeno l’ombra, ma sale a volontà per renderlo meno insipido.
Alla fine della giornata se la ciurma trovava ricovero nell’azienda “pani schittu” per cena, Ma era il suono della fisarmonica che riempiva lo stomaco, accompagnato dalle nenie di chi ancora aveva fiato da sprecare. Se il padrone era generoso, il massaro offriva ai cuffari un’Alfa, il cui aroma si confondeva con l’aria impastata del dolce odore del mosto.
Quando i mozziconi uno dopo l’altro si spegnevano, passata la notte su di un giaciglio di paglia, una nuova fatica li attendeva il giorno dopo e un’unica certezza: ritrovare due sarde salate e un peperone arrostito per “cumpanaggiu”. Saro Pafumi
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