Andata e ritorno dal ventre materno della nostra montagna, l’Etna.
Non capita tutti i giorni vivere un’esperienza speciale, ma se capita,
comprendi cos’è l’uomo rispetto alla natura: l’infinitesimale.
Ho raggiunto, a bordo di un fuoristrada condotto dall’amico Santino,
dopo infinite sterzate su soffici, scivolose budella di sabbia nera, che si
contorcono, rabbiose, su scoscesi sentieri
di valli e anfratti, il ventre
dell’Etna, un palmo sotto la vetta, che maestosa e altera par si congiunga al
cielo. Non un’escursione, né una gita, ma un viaggio a ritroso nel ventre di
mia madre, m’è parso, da cui, molti anni fa, tra grida e sofferenze Lei mi
sputò. A quelle altitudini l’aria è una lieve placenta che accarezza il corpo,
che pare avere, qui, perduto il suo peso.
Magia della natura che si trasforma
in amore? Ti chiedi.
L’anima tace, intenta ad ascoltare, a quelle
alture, il silenzio che è preghiera.
Sulla vetta, che ciondola nell’aria, i punti
cardinali si beffano
di me, divertendosi a danzare
in girotondo in un orizzonte senza confine, dove le nuvole, in questo
mondo immobile da sempre, sono le uniche a indicarti l’alto e il basso. Qui
l’alba e il tramonto sono le uniche presenze che s’inseguono da sempre, in un
gioco che si chiama eternità. Immerso tra tanta magica grandezza, mi scopro
embrione, ma non so se diventerò un uomo tra un secolo o un secondo.
Il tempo sta più giù, sulla terra che ho lasciato, dove, mio malgrado
dovrò tornare, alla fine di questa magica esperienza destinata a finire.
Nulla ho sotto i piedi, solo sabbia, dove ho paura di sprofondare
assieme alla mia anima.
Più in là rari verdi cuscini d’erba affiorano dalla profondità, segno
che sotto due metri di sabbia, la vita non rinunzia a mostrarsi.
Mistero o miracolo? Vita!
I colori che qui si donano sono il nero del la sabbia, ruggine, giallo
che escono dal ferro e dallo zolfo che sputa la montagna e il verde delle
rare piante che hanno scelto questo paradiso. Il resto dei colori è
immaginazione dell’uomo. Quando, immerso
in questa solitudine da sogno, mi giro e
scorgo solo il mio amico, non mi pare di vederlo come “un altro”.
Un fratello, un gemello, penso. No!
Qualcosa di più: la mia immagine riflessa sul suo volto, come dovrebbe
vedersi, ogni giorno, l’intera umanità. Un miracolo d’amore e fratellanza che
solo nella solitudine di queste altitudini è possibile provare, quando gli
egoismi s’infrangono, senza fare rumore, come questo mio vento che inutilmente tento
di afferrare con le mani, per saziarmi d’amore. Dopo avere assaporato
questo sorso d’eternità, lentamente scendiamo dalla montagna, scivolando
sulla soffice sabbia che rende superflui i freni.
Mentre la tristezza sui nostri volti ha i colori della sera, in
lontananza si scorgono le prime luci del paese che sta a valle.
Sembrano mille occhi di lupi che là abitano, dopo che hanno lasciato i
monti per diventare uomini.
Nessun commento:
Posta un commento