domenica 24 aprile 2016
Comune di Linguaglossa e Autorità garante.
Comune di Linguaglossa e Autorità Garante.
Parafrasando un noto slogan, mi viene da dire: “ Meno male
che Lo dico a La Sicilia c’è”- Una rubrica che permette al lettore di
lamentarsi, di gioire, di criticare, di proporre. Avventurandoci in
quest’impresa non può passare inosservata
Comune di Linguaglossa e Autorità Garante.
Con determina n.82 del 18.03.2016 del Comune di Linguaglossa,
con la quale si affida incarico a studio legale di predisporre una serie di
atti, compresa l’assistenza all’audizione dinanzi all’Autorità Garante, per la
nota vicenda riguardante il bando di gara per le escursioni estive a Piano
Provenzana. Nella determina si definisce il’servizio legale’ come atto
‘precontenzioso’, facendo così intendere la possibilità di un’eventuale lite
giudiziaria tra le autorità in oggetto. La determina comporta un impegno di spesa di
euro 4056.40. I fatti. L’Autorità Garante con la nota 1647 del 10.02.2016 aveva
invitato il Comune a rassegnare le proprie deduzioni sui rilievi esposti nella
nota citata, cosa che il Comune avrebbe potuto fare senza scomodare legali di
chiara fama, affidandone la risposta al ’funzionario’ competente, che, poiché
tale, ha o dovrebbe avere la ‘funzione’ di sopperire a queste esigenze. Risposta
peraltro che si sarebbe potuta dare con due semplice parole: “Condividiamo,
provvederemo”. Perché i rilievi dell’Autorità Garante a proposito dei bandi di
gara rientravano e rientrano tra le norme di buon senso e legalità. Invece si è
voluta percorrere la strada temeraria del’precontenzioso’, oberando le magre
casse comunale di un impegno di spesa inutile. Ha ragione allora il comune
cittadino quando strimpella ‘ai quattro canti’: “ Il Comune spende quattromila
euro per consulenze inutili e poi dice che non ha i soldi per cambiare la
lampada fulminata nel palo del mio quartiere’. Certamente sono tante le
difficoltà che devono superare gli amministratori, ma spesso,purtroppo, ci aggiungiamo
del nostro. Saro Pafumi.FB 24.03.2016
Come portare la propria croce
Anziché portarla, la croce
va brandita come un’arma.
Un tizio vedendo un uomo trascinare una croce legata a una
corda, lo riprese dicendogli: “ A cussì porti a cruci”? Questi sentendosi
rimproverare si mise la croce sotto le ascelle. “, A cussì porti a cruci” lo
riprese di nuovo Tizio. L’uomo cercando di porre rimedio all’osservazione,
questa volta si caricò la croce sulle spalle. “ A cussì porti a cruci?” lo
riprese nuovamente Tizio. “Insomma, come devo portare la croce?” interloquì
l’uomo che portava la croce. “Tenendola con le braccia alzate e a testa alta,
perché chi tiene la croce, non deve vergognarsi di portarla, ma farsene una
ragione” proseguì Tizio. Portare la propria croce, significa vivere il proprio
calvario e nessuno sa meglio di noi siciliani cosa significhi portare la
propria croce, fatta di mancato sviluppo, di promesse tradite, di risorse
rubate, di politici corrotti o ignavi. Se fossimo orgogliosi di sentirci
siciliani, la nostra croce dovremmo portarla a testa alta. Purtroppo siamo
rappresentati da politici locali che ci fanno vergognare di portare la nostra
croce e nessuno di noi ha imparato come portarla. Anzi per certi versi ci
nascondiamo dietro la croce, dichiarandoci vittime ora di questo, ora di quel
potere, che ci opprime o deprime. Forse è giunto il momento anziché di portare
la croce, di brandirla come un’arma, per sconfiggere la nostra indifferenza, la
nostra apatia, il nostro atavico vittimismo, in una parola di affermare il
nostro diritto di esistere entro i confini di una nazione in cui la Sicilia non
sia considerata un’isola, un’appendice geografica, ma parte integrante di una
società e con pari dignità. La nostra atavica sonnolenza e indolenza a costruire il nostro destino, ci
fanno apparire inerti o rassegnati, ma nessuno si chiede di sapere il peso
della croce che portiamo sulle spalle, che non
è lieve o irrilevante, perché c’è di mezzo la nostra dignità. Le
apparenze spesso ingannano, perché come recita un vecchio adagio: “Cu ti pari
ca dormi e si ripusa (non fa niente), porta a cruci chiù lausa”. L’importante,
pertanto, non è abituarsi a portare la croce, come, da secoli, facciamo noi
siciliani, ma imparare a farsene una ragione. Saro pafumi. Pubblicata su La
Sicilia oggi 02.08.2015 FB 02.08.2015
la politica vista da un " quisque de populo"
La politica
vista da un “ quisque de populo”.
Siamo
talmente abituati a vedere l’Italia divisa in venti Regioni, di cui cinque a
Statuto speciale, che immaginarne una diversa è quasi impossibile,
principalmente perché ciascuno di noi si sente legato al suo territorio
d’origine, che, per certi versi, è la sua identità e quella dei suoi avi. Vista
la cosa dal punto di vista “dell’appartenenza” ogni ipotesi di cambiamento è
impossibile. L’Italia politica è come un pollaio (mi scuso per il paragone
irriverente), dentro il quale ci sono alcuni galli e molti pulcini, con il
pigolio di quest’ultimi inascoltato, secondo l’antico detto: “ lassau dittu u
puddicinu nta nassa, quannu maggiuri c’è, minuri cessa”. Del resto la storia
d’Italia, dalla fondazione della Repubblica, fino ai nostri giorni, è stata un
susseguirsi di messaggi inascoltati delle regioni piccole o politicamente
insignificanti. “ La questione meridionale di antica memoria, tuttora
irrisolta, docet! Un altro paragone, altrettanto irriguardoso, può definire
l’Italia geografica, un grande condominio, nel quale chi è portatore di una
manciata di millesimi conta poco o niente. La questione si potrebbe aggiustare
se le venti regioni oggi esistenti si
riducessero a tre: Sud, Centro, Nord, senza privilegi o statuti
speciali, ma ciascuna identica
all’altra, al nastro di partenza e non un raggruppamento di persone, che si
riconoscono per la loro appartenenza territoriale, polverizzata e
inconcludente. Oggi l’attuale situazione frammentata fa certamente comodo a
qualcuno, ma si dimostra palesemente deleteria per altri, col paradosso che
sono i pochi a imporre le scelte ai molti, col risultato che è sotto gli occhi
di tutti. I Romani dicevano: “Divide et impera” Un motto sempre attuale, che la
nascita della Repubblica, così com’è, ha accentuato e che i numerosi politici
meridionali o meridionalisti non hanno mai saputo affrontare e risolvere. Saro
pafumi. FB 11.12.2015
Come cambiano i tempi
Come
cambiano i tempi
Con le
bisacce ricolme su asini dalle froge
sbuffanti arrivavano, ogni giorno, di prima mattina, gli ortolani che dalla
valle d’Alcantara si spingevano fino a Linguaglossa per vendere il frutto della
loro quotidiana fatica. Ansiose massaie li attendevano sull’uscio di casa per
risparmiare poche lire, ma anche per gustare la freschezza degli ortaggi, che,
mani callose avevano strappato alla terra poche ore prima. Il segnale del loro
arrivo era annunziato dal familiare strillonaggio delle loro primizie. Ogni
massaia riconosceva il suo ortolano di fiducia dalla cantilena con la quale
annunziava il suo arrivo. “Pipi e…..mulinciani…….. l’agghiu virdi aiu. Pigghiativilli”, annunziava la voce squillante di don Giuvanni,
attento a modulare la voce. La massaia apriva l’uscio annodandosi “ u fantale” sui fianchi e, dandosi una sistemata al fazzoletto che gli copriva la
testa, Iniziava la contrattazione sfibrante, ripetitiva, monotona. “ A quantu
mi passati i mulanciani?”. “Cincu, deci liri” . “U sapiti ca siti caraviogghiaru”
era la risposta della massaia, che doveva tirare sul prezzo. “Frischi, frischi e beddi russi sunu i pummadoru, cugghiuti stammatina; na pennula cincu liri”,
continuava don Giuvanni, in attesa che altre massaie s’affacciassero sull’uscio
di casa a dargli manforte. Intanto mercanteggiando con le massaie che
circondavano l’asino, era passato un buon quarto d’ora e don Giuvanni cedeva
sul prezzo per avere il tempo di fare il giro del paese per finire di vendere
la sua mercanzia. Più indietro Don
Sarbaturi, consapevole dei limiti della sua voce rauca, aveva scelto un altro
mezzo di trasporto, il carrettino, ed era il suo asino ricco di sonagli a dare
la sveglia e fare da richiamo. Egli non entrava in competizione col collega che
lo precedeva. Altra era la sua mercanzia: lattughe, finocchi e smuzzaturi. Tri
fasci, cincu liri.Don Sarbaturi tornando a casa non si trovava mai con i conti.
Detraendo i fasci che regalava a donna Pippina, per la quale nutriva un debole,
gli mancava sempre qualcosa. Lo scoprì col tempo, quando si accorse che nella
ressa che circondava il carretto, donna Maria allungava le mani, nascondendo
qualche fascio sotto il fantale. Ora tutto è cambiato. Gli ortolani sono
scomparsi. C’è sempre qualcuno che offre per strada la sua mercanzia senza
strillonaggi o sonagli: sono gli spacciatori che con l’antica arte della
rappresentazione mimica negli angoli reconditi delle strade, complice un
lampione spento o l’ombra della sera o più sfacciatamente alla luce del giorno
dispensano la loro merce di morte. Una dose venti euro, due quindici. Non si
curano della pancia come gli ortolani,
vogliono l’anima di chi è sprofondato nell’abisso del male. Cambiano le
mercanzie, ma anche il linguaggio, da suadente e accattivante, a cinico e
sprezzante. Di morte. Saro Pafumi FB
09.04.2015
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