Il
compleanno. (da: Collana di racconti).
Don Concetto aveva preparato tutto per il suo
cinquantesimo compleanno. Era stufo di mangiare tutti i giorni pane e olive, pane
e cipolla, o dissodando la terra, pane e lumache, che infilzava con la punta
del coltello, arrostendole sulla brace,
o pane e formaggio, quel poco che riusciva a
racimolare dal pecoraio, facendo finta d non vedere, quando questi portava a
pascolo, a contratto scaduto, le sue pecore nelle terre del padrone. Stanco del
solito mangiare, aveva portato alla moglie due chili di stocco, che aveva ordinato
a don Maru, raccomandandogli che fosse della qualità San Giovanni, perché lo cucinasse
alla messinese, come sapeva fare lei. Donna Rosa, cercando tra le poche derrate
alimentari, che teneva in casa, si era accorta che mancava quasi tutto per
preparare lo stocco, che piaceva al marito. Don Giovanni non era passato, come
ogni mattina col suo carrettino, ricco di ortaggi e l’olio era poco, perché
donna Rosa aveva saltato, per mancanza di soldi, il giro settimanale di
donn’Affiu, l’ugghiularu, aiutandosi nella frittura con la più economica sugna.
In quanto all’olio, pensava di chiederlo a comare Lucia, la vicina di casa,
perché non tutte erano disposte a regalarlo, prezioso e costoso qual era. Per
rimediare tutti gli ingredienti necessari a cucinare lo stocco doveva farsi il
giro del quartiere, perciò si diede con le mani una sistemata ai capelli, si
snodò il grembiule che indossava per le faccende domestiche, avviandosi per fare
la questua. Si accorse che aveva ai piedi ancora le ciabatte, per cui tornò
indietro per aprire l’armoire, dove teneva conservate le uniche paia di scarpe
che usava la domenica, andando a messa e si avviò, chiudendo l’uscio alle
spalle. Trovare ciò che le mancava non era difficile, perché, a quel tempo, tra
le donne del quartiere la solidarietà era di casa, a partire dal lievito per il
pane, che passava di mano in mano. Quando riuscì a rimediare il necessario, fece
ritorno a casa, mettendo sul fuoco il tegame, perché tutto fosse pronto al
rientro del marito, avendo cura di cucinarlo prima, perché riposasse, per
esaltarne il sapore. A quell’epoca quando le donne avevano finito le faccende domestiche,
si riunivano. di solito presso qualche
comare, sedute con le spalle al sole, per rammendare, cucire, spettegolare, in
attesa che i mariti facessero ritorno dal lavoro. Don Turi era il primo che
arrivava e l’ultimo ad avviarsi al lavoro, sfaticato com’era ritenuto nel
quartiere. Le comari vendendolo rientrare, fischiettando, con la zappa in mano
e lo zaino sulle spalle,guardavano divertite donna Mena,come per dirle : “Tu
pigghiasti, ora tu cianci” Don Turi, in verità, se era sfaticato, aveva un
pregio: amava sua moglie, e da lei era corrisposto. Ogni qualvolta tornava dal
lavoro le portava sempre un pensierino: una manciata di fragole di bosco,
avvolte in pampini di vite,un mazzetto di ciclamini, che donna Mena metteva
sotto il naso delle comari,che invidiose erano, anche se preferivano nasconderlo.
Poi era la volta degli altri mariti, che alla spicciolata facevano ritorno. Era
il momento in cui il sole s’imbucava all’orizzonte,ognuna si riportava la sedia
a casa e il raduno delle comari terminava, per dedicarsi al marito. All’epoca i
compleanni si festeggiavano solo tra familiari, per le ristrettezze economiche,
che non consentivano inviti. Donna Rosa per festeggiare il marito aveva pensato
anche ai dolci: una resta di fichi secchi e una manciata di ‘scattioli’, scelti tra le
castagne infornate,assieme al vino che profumava di ginestra, quella che
fioriva,rigogliosa, in contrada Borrigliona, dove don Concetto coltivava le sue
poche viti.
Oggi di quella società contadina e solidale
non rimane nulla. Si è trasformata in una savana,dove le persone, tristi e
inappagate, grugniscono e sbuffano come ippopotami o come coccodrilli sono in
agguato pronti a versare finte lacrime per i mali altrui. I campi, un tempo
rigogliosi, ora sono, abbandonati e coperti da sterco di pecora, dove
germogliano solo ciuffi di finocchietto selvatico e le strade sono piene di
rovi. Qua e là si vedono vaste zone
bruciate, che hanno divorato gialli cespugli di odorosa ginestra. Anche martore,
donnole e conigli selvatici hanno abbandonato le loro tane per rifugiarsi in
buchi profondi più dell’inferno. Si sentono solo i neri corvi pennuti
gracchiare canti dì’imprecazione contro chi la sua anima ha abbandonato tra stoppie
e rovi fumanti. Non ci sono più le comari, che sedute, con le spalle al sole,
davanti all’uscio di casa, divoravano il tempo che non passava mai. Oggi in
quelle case abbandonate danzano le porte sospinte dal vento, per attirare
l’attenzione di chi passa, per invitarlo a entrare e risentire l’antico calore
di chi prima le abitava. La società ha subito profondi cambiamenti, l’ultimo
dovuto al covid, che ha allentato qualsiasi rapporto. Non ci riconosciamo più
come vicini gli uni all’altro, accomunati dallo stesso destino, dove la
solidarietà era la base di ogni rapporto umano. Lontano il tempo in cui donna
Rosa chiedeva alla vicina di casa il lievito per il pane o se per caso avesse
una cipolla, perché non aveva avuto tempo di andare a far la spesa, né quella
mattina, come sperava, era passato don Giovanni col suo carrettino. E’ scomparsa
pure la comparanza, servita a stringere un nuovo patto di amicizia in caso di
matrimoni, battesimi e cresime, ridotti ai minimi termini per cause diverse. Un
vincolo quella della comparanza che talvolta superava quello del sangue.
Non c’è più don Turi che torna a casa
fischiettando, né donna Mena ad aspettarlo. Oggi i pettegolezzi si ascoltano
alla TV, le comari di una volta si guardano in cagnesco e la solidarietà si
trova solo tra i cani randagi, costretti a frugare tra i resti di un lauto
pranzo. Fuori dalle abitazioni, a posto delle sedie, che ospitavano le comari,
file di macchine posteggiate, che sembrano millepiedi, arti rubati agli uomini
che hanno smesso di camminare, forse nell’illusione di tornare bambini e farsi
cullare.
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