La fame si tagliava col coltello
Quando a dodici anni sentivo un mio compagno di giochi dirmi: “dumani non putemmu iucari, picchì a iri ccu mo matri a rubari ligna” era come ricevere un pugno nello stomaco.
Nel dopoguerra in certe famiglie linguaglossesi, più che il pane si tagliava la fame col coltello.
Un ceppo e un po’ di fascina accesi con la “deda” tra due pietre, con sopra una traballante pentola di annerito alluminio attendeva fumante quattro pugni di pasta, che la madre scolava limacciosa per aumentarne il volume.
Era il pasto, condito con niente, che sfamava
una famiglia di quattro persone, che i più giovani ingoiavano con gli occhi, mentre bolliva.
Poi, più affamati di prima s’inerpicavano, con la pioggia o col sole, per i pendii montuosi che circondavano il paese, alla ricerca della frutta che si trovasse nelle campagne “du zu stranu”, per attenuare gli ululati del loro giovane stomaco.
Divoravano tutto, come cavallette affamate, e sazi si “riempivano “a pitturina” di tutto, memori che a casa qualcuno era rimasto affamato.
Un fascio di legna furtivamente sottratto era, assieme alla frutta rubata, l’altro bottino di un giorno, pagato col sacrificio di un gioco perduto.
Quale pasto sarebbe stato preparato il giorno seguente nessuno lo sapeva.
Importante era assicurasi un fascio di legna con cui l’indomani potere accendere la speranza.
Il locale attrezzato per la cottura dei cibi solo più avanti si chiamerà cucina.
Allora era un unico ambiente annerito, in terra battuta, che il fumo aveva reso come un girone dell’inferno, dove quanto bolliva nell’unica pentola a stento s’intravedeva al bagliore del fuoco.
Gli abiti di questi “disgraziati” non avevano il privilegio dell’odore dei loro corpi, perché la legna, che ardeva fumosa, arrossava gli occhi, impregnando la pelle.
L’unico lume a petrolio passava di mano in mano alla ricerca dell’oggetto che interessava e il riscaldamento di quel tugurio-tana, ”sutta canali”, era la brace di quell’unico tizzone coperta di cenere per durare più a lungo.
Di quel mondo nulla è rimasto, salvo l’odore nelle narici di quegli indumenti impregnati di fumo o il ricordo di quelle mani vogliose che strappavano dagli alberi fichi anche immaturi, pur di sedare la fame.
Non c’è traccia, oggi, di tutto questo, ben potendo dire che quegli sfortunati, abbandonati e umani relitti d’un tempo, nemmeno tanto remoto, sono usciti dal loro pertugio a recitar in coro, per dirla con Dante: “…e quindi uscimmo a riveder le stelle”.
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