La casa d’argento
Quando arrivai davanti alla porta d’ingresso, una dozzina di vasi, ben disposti, ospitava variopinte azalee, che, da sole, annunziavano lo stile di quella dimora: un elegante benvenuto al gradito visitatore. Conoscendo il costume di vita dei miei ospiti, già immaginavo le antiche, raffinate pregevolezze che avrei trovato all’interno, ma mai un ambiente cosi cristallizzato nel tempo, come se avessi varcato la soglia di una casa, dove tutto si era fermato, proiettandomi indietro di un secolo. Le stanze erano diversamente pavimentate, con mattonelle di cemento, racchiuse da una cornice dello stesso stile e disegno, con temi floreali o geometrici, secondo i gusti dei padroni. Su numerosi tavolinetti, coperti da preziose tovaglie di trine e dentro credenze, con alzata e ante in vetro, trovavano posto servizi in argenteria dai temi più vari: oviere, portagrissini, servizi da the o caffè, piatti da portata o centro tavola, vasi, set di utensili da ventiquattro pezzi, posacenere, portasigari e decine di bomboniere di varia forgia in argento. Una vasta esposizione di preziosi oggetti, accompagnati da porcellane varie, tra cui spiccavano, per bellezza e fattura, quelle artistiche di Capodimonte. Alle pareti, rivestite da carta da parato in stile francese, antiche cornici ovali contenevano le foto di tre generazioni, negli abiti del tempo, che quella dimora avevano abitato e numerosi quadri raffiguranti Santi,paesaggi o fiori Completavano l’arredamento i lampadari in vetro di Murano, a otto luci, lavorato a mano, arricchito con fiori e foglie.
In un angolo un pianoforte, emblema del romanticismo ottocentesco, faceva bella mostra di sé, sormontato da due candelabri a bracci, in argento, che un tempo dovevano servire a rischiarare di luce la stanza destinata agli ospiti. Sul tavolo, collocato al centro, alcuni libri di scrittori russi, anticipavano l’interesse alla cultura che doveva respirarsi in quella casa, un’abitudine che caratterizzava quelle siciliane del tempo.
Trovai posto su di un divano in noce intarsiata, in jacquard damascato a fiori, nello stile che fu caro a Luigi Filippo. La gentile ospite che mi accompagnava si deliziava a descrivermi la sua vita di tutti i giorni, fatta di lettura e ricordi e si compiaceva di un’antica comune parentela, tramite mia nonna paterna, con quella grazia umile che contraddistingue chi in quell’ambiente è nato e cresciuto e saputo conservare, grazie agli insegnamenti ricevuti, la modestia, vera ricchezza dell’anima. Con la fantasia immaginavo la vita di un tempo, vissuta in quella dimora. Già vedevo aprirsi la porta e fare ingresso la domestica di turno, in abito nero e grembiulino candido e raviolo in testa, farmi la domanda di rito: “Gelsomino o bergamotto?” I gusti del rosolio del tempo e ritornare con in mano un vassoio d’argento sormontato da un decanter con tappo in vetro tagliato.
Se fosse stato in vita il padrone di casa, lo immaginavo vestito di tutto punto, come si addiceva a un uomo di rango, intento a deliziarmi dell’ultimo romanzo letto: ”Il mastino dei baskerville” di Arhur Conan Doyle, un giallo ambientato, nei pressi della Londra del 1889, nella contea del Devonshire. Quello del commento dell’ultimo libro letto era il passatempo delle visite conviviali, in cui ciascuno faceva sfoggio della propria cultura, quando non si dissertava sulle opere liriche in cartellone al teatro Bellini. Con l’abbassamento della temperatura esterna, che non dava tregua, la gentile ospite consigliò di trasferirci in terrazza, dove fu servito, con la grazia del cerimoniale che accompagnava questo rito, un gradito sorbetto. Nella terrazza, esposta a occidente, con vista dell’Etna, che superba svettava all’orizzonte, un pergolato, ricoperto di vite nostrana, regalava la sua fresca ombra. Un ambiente ispirato, probabilmente, al quadro di Silvestro Lega, che il padrone di casa aveva cercato di riprodurre: una scena di vita quotidiana e l’importanza conviviale del momento. Un lavoro di perseveranza e amore, se si pensa che quella vite, intrecciata in volute e spire, piantata nel sottostante giardino, giungeva al piano, rendendo la scena dal forte sapore bucolico e romantico. Non mi fu facile all’ora del commiato, varcando la soglia del tempo, spogliarmi dell’abito di scena che anch’io avevo indossato, per ritornare alla vita reale. Mi ricordai che anch’io, sia pure per poco tempo, avevo sfiorato quell’epoca, vivendo in una casa, arredata alla ‘belle epoque’, con tradizioni ormai perdute: la mostarda e la cotognata che mia madre preparava finita la vendemmia, messa ad asciugare, in terrazza, sulle colonne di pietra bianca, in appositi contenitori, che tenevano lontane mosche e api; l’odore del pane casereccio appena sfornato; l’attesa mattutina del latte cremoso e caldo, appena munto sotto casa; le castagne che la domestica infornava, delizia delle cene invernali; i ‘mignani’ dove mio nonno coltivava le erbe aromatiche e l’immancabile rucola, che adorava; l’albero di araucaria, trapiantato in terrazza in un tino di legno, col quale mi divertivo a osservare, da bambino, la crescita dei nuovi germogli, indizio del novello anno o il sorbo piantato nell’orto di casa, i cui frutti, abbondanti e prelibati, dopo la raccolta, erano legati a grappoli a forma di “pinnula”, per essere appesi e consumati maturi dopo i pasti. Lasciata quella dimora, fu un dramma squarciare il diaframma che mi conduceva alla vita di oggi: riabituarmi allo sguardo assente delle persone; alla superficialità e vacuità delle conversazioni; al distaccato impegno nelle relazioni sociali; alla trascurata ricercatezza nel vestire. La ritrovata realtà aveva dimenticato l’atmosfera e il bon ton che caratterizzava la vita di un tempo. Aveva il sapore amaro della polvere di strada, frammista al gas tossico di scarico delle auto, che, con il loro contenuto umano, veloci, sfrecciavano, senza un perché, dimentichi del passato, sfuggevoli del presente, ignari del futuro e prigionieri della propria solitudine.
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