Il grado di civiltà di un popolo si misura con l’efficienza della giustizia e con il modo con cui essa è amministrata. In Italia su questo fronte siamo messi decisamente male. L’impiego della carcerazione preventiva, per esempio, dovrebbe essere previsto come eccezione e limitato a casi particolari. Al contrario se ne fa un uso decisamente distorto, facendo diventare regola l’eccezione. L’uso delle manette andrebbe fatto in presenza di persone particolarmente pericolose o violente, mai nelle aule giudiziarie nelle quali occorre smantellare quelle orribili gabbie che racchiudono gli imputati in attesa di giudizio. Non sono trasformazioni intese come premio per chi si è macchiato di delitti, ma come segno di rispetto verso noi stessi e la condizione umana. Carcerazione preventiva, manette e gabbie sono i tre principali segni tangibili e manifesti di una cultura medievale della pena. Quanto poi alle condizioni delle carceri andrebbe introdotto il principio della “colpa da custodia“ a carico dello Stato nel caso in cui le condizioni del carcerato oltrepassano i canoni della “giusta detenzione”. Si mobilita l’opinione pubblica perché le galline ovaiole non rimangano ristrette in gabbie anguste; perché l’amico dell’uomo” abbia il suo giusto ruolo, attribuendogli persino il diritto di ereditare; perché gli animali siano banditi, a ragione, dai circhi equestri. Poi inspiegabilmente quest’ondata di sana umanità si arena difronte all’uomo, alla sua sofferenza, alle sue colpe. Che cosa costringe l’uomo a essere più inflessibile con se stesso? La vendetta, la paura, l’autodifesa o l’insieme di questi elementi? E la ragione che spazio occupa in questa corsa al massacro di noi stessi? La pena è la giusta sanzione per una colpa commessa e riconosciuta tale, ciò che si aggiunge è il metro con cui si giudica la civiltà di un popolo. Sotto quest’aspetto, nel nostro Paese c’è da vergognarsi.
Pubblicata su La Sicilia il 16.01.2012. Saro Pafumi
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