Linguaglossa, il mio paese.
Chissà quante volte un tema con
questo titolo è stato assegnato agli alunni delle scuole elementari.
M’immagino, bambino, seduto sul banchetto a spremermi le meningi in cerca di
qualche idea. Ora che il banchetto delle elementari l’ho lasciato da un pezzo,
voglio riprovarci a svolgere un tema del genere, possibilmente con lo stesso
stile di un bambino, ma col disincanto di un adulto.
Il proprio paese è il territorio in
cui si vive ed insieme la moltitudine di persone che ci abita. Soffermiamoci a
ragionare su quest’ultime, perché il territorio, è fuor di dubbio, si ama, se
non altro perché si è nati. Le persone: diverse e strane, cordiali e
sospettose, individualiste, ma socievoli, aperte alle innovazioni e insieme
conservatrici, lavoratrici, ma con moderazione. Ospitali. Criticone e pettegole
come in tutti i paesi. L’iniziativa altrui è guardata con sospetto, valutata
con attenzione, oggetto di dispute e dibattiti, ma prontamente imitata in caso
di successo. La caratteristica del linguaglossese è usare gli altri come
apripista, il cui operato può avere solo due sbocchi: “Lo dicevo io che
l’iniziativa non poteva avere
successo” oppure, in caso d’iniziativa
proficua, pronto a collocare, accanto all’esercizio di successo, il proprio.
L’apertura di un nuovo locale pubblico attraversa tre fasi:
infatuazione (in quel locale si
mangia benissimo, si paga poco e l’igiene è ottima);
indifferenza (si mangia bene, ma i
prezzi sono aumentati e sull’igiene non mi pronunzio);
disfattismo (si mangia male, si paga
troppo e l’igiene è pessima).
L’aspetto curioso della vicenda è che questi
tre giudizi, profondamente diversi, si formano e si modificano nell’arco di un
lanmpo brevissimo, il che ci caratterizza per un’altra qualità: la volubilità.
Il linguaglossese ha con il proprio
paese un rapporto amore-odio. Lo critica, ne esalta più i difetti che i pregi,
lo calpesta, l’oltraggia, non
fa nulla per migliorarlo, salvo a difenderlo, se a criticarlo è chi non
del luogo. Una specie di patriottismo “bellico” L’auto, l’abbigliamento sono la
cartina di tornasole per giudicare gli altri. Per non dare negli occhi basta
indossare un paio di “causi strazzati” o “made in China” altrimenti ogni
stravaganza è fonte di strali.
Farsi i fatti propri è vietato. Si
guarda più la spesa nel carrello degli altri, che in quella propria. Se un
forestiero chiede di sapere dove abita una persona, si fornisce il suo
curriculum completo, con la richiesta di rito: “Scusi, ma perché lo cerca?”. La
privacy? Come si fa a
rispettarla,
se ognuno la mattina inizia la giornata raccontando i fatti propri e quelli
degli altri? Le case sono verande di vetro attraverso cui è possibile vedere e
qual che non si vede, s’immagina.
Più
che un paese, un palcoscenico su cui ognuno “recita, a soggetto”, il proprio
ruolo quotidiano, vestendo ora i panni del protagonista ora quelli dello
spettatore. Un paese, dunque, come tanti altri? No! E ’il migliore, perché è il
mio paese.