lunedì 28 febbraio 2011

Se a volte la vita umana vale meno di quattro latrati

Tutte le mattine quando esco da casa per recarmi al lavoro la prudenza m’impone di guardarmi attorno prima di fare il primo passo. Stesso rituale la sera prima di mettere la chiave nella toppa, perchè le sorprese o meglio gli agguati sono all’ordine del giorno.
Un atteggiamento di circospezione non determinato da chissà quali interessi da difendere, ma più semplicemente dalla paura assai diffusa d’imbattersi nel solito balordo che anche per pochi centesimi mette a repentaglio la vita degli altri.
L’insicurezza che vive la società dell’oggi è scandita dalle cronache giornaliere, dai messaggi dei media non sempre tranquillizzanti, dai casi allarmanti che accadono in ogni angolo del nostro Bel Paese, purtroppo a qualsiasi ora del giorno e della notte.
All’insicurezza s’aggiunge l’inerzia della legge che, nove volte su dieci, lascia irrisolto il caso denunziato, cosicché chi l’ha fatta franca ci riprova a tutto danno delle prossime incolpevoli vittime.
Una volta la violenza era figlia della povertà e dell’ignoranza, tant’è che lo stesso codice penale prevedeva l’esimente della non colpevolezza, se il fatto fosse stato commesso in stato di necessità. Oggi al contrario i reati patrimoniali quasi sempre sono consumati per soddisfare bisogni secondari o voluttuari. La legge non viene in soccorso di questo stato d’animo assai diffuso, anzi in certi casi lo aggrava, talché l’ansia si trasforma in vera fobia.
Questa forma di lassismo giudiziario generalizzato che finisce col trascurare la microcriminalità per concentrarsi su reati più gravi è percepito dall’uomo della strada, che di questi reati minori è la vittima primaria, come segno d’arresa. E così si finisce col non denunziare fatti criminosi nella consapevolezza dell’inutilità dell’atto.
Certe sentenze, poi, non fanno altro che accrescere il disgusto del cittadino, come nel caso d’incidenti stradali ad opera d’alcolizzati e/o drogati che anche nel caso di più vittime corrono al massimo il rischio degli arresti domiciliari.
Se a questo si aggiunge che la Cassazione di recente ha stabilito che chi possiede un cane che abbaia rischia due mesi di carcere senza condizionale, non c’è che da rimanere allibiti. La vita umana a volte vale meno di quattro latrati. C’è da inorridire.
Pubblicata su La Sicilia 01/03/2011
Saro Pafumi

sabato 26 febbraio 2011

La famiglia,oggi.

La famiglia tradizionale, quella per intenderci con i nonni in casa e la mamma casalinga esiste solo nelle foto color seppia che qualcuno custodisce gelosamente sul comò di casa.
Oggi le case sono vuote già alle prime ore mattutine, perchè chi ha un lavoro è già sul posto e coloro che non ne hanno sono alla ricerca.
A casa è rimasta la Tv in stand by e la lavatrice col suo roteare ritmico ed intermittente. Solo il gatto sonnecchia sul divano, unica presenza viva tra pareti sulle quali sbiaditi raggi di sole stampano ombre di fantasmi.
I bambini sono parcheggiati da “ape maia” e quelli più grandetti, a tempo pieno attendono di consumare il rancio giornaliero, prima di ritorno a casa.
All’imbrunire lo sferragliare della serranda del garage segnala che qualcuno è arrivato. Nessuno che t’aspetti. Solo il gatto che ha sentito girare la chiave nella toppa abbandona la sua comoda lettiera per avere la sua lattina di carne e tonno Whiscas,
Col cappotto ancora sulle spalle la padrona accende la Tv. Risse, vocii, battibecchi riempiono di frastuono le stanze dove anche le suppellettili sembrano far parte della stessa bolgia.
Più tardi il pulmino comunale si ferma sotto casa svuotandosi poco alla volta della presenza dei più piccini. Un fugace bacio alla mamma che prepara per la sera, uno zainetto che vola sul sofà più vicino e di corsa al computer per trastullarsi con Nintendo, Wii, Mac, xbox o Internet e Facebook per i più grandi.
La Tv. diffonde notizie che nessuno ascolta, interrotta dai miagolii del gatto che gironzola solitario tra le stanze implorando che qualcuno l’ascolti.
Nessuno che parli, tutti intenti a smanettare sui tasti del computer o tra i fornelli della cucina. Quando il campanile della chiesa più vicina batte venti colpi è la volta del padre che fa ritorno a casa. Sprofonda sul divano, borbottando, afferra di scatto il telecomando, mentre il TG della sera trasmette le immagini dell’ennesimo corteo che tamburi in testa grida slogan contro il padrone di turno.
Attorno al desco familiare il silenzio è d’oro: ha inizio lo spettacolo della sera, intramezzato dal leggero tintinnio dei bicchieri o dal timido rumore delle posate sui piatti il cui contenuto nessuno guarda. Poi qualcuno alla chetichella lascia il suo posto a tavola per imboscarsi nel suo mondo virtuale. Anche il gatto, stanco di miagolare, ha ripreso a sonnecchiare sul suo divano preferito, segno che è finito un altro giorno.
Pubblicata su La Sicilia il 26.02.2011
Saro Pafumi

venerdì 25 febbraio 2011

La Libia,l'Italia e le solite sterili polemiche

Quanto sta accadendo in Libia procura a molti moralisti il mal di pancia. Si condanna il massacro di cittadini in rivolta e si accusa il governo e con esso il solito Berlusconi di aver intrattenuto relazioni più che cordiali con Gheddafi che si sta scoprendo essere un feroce dittatore. Come al solito si fa la solita confusione tra “ragion di Stato” e “ragion del cuore”. A chi non fa comodo il petrolio libico, investire miliardi di dollari sul quel territorio, esportare colà tecnologie e materie prime, raggiungere accordi di cooperazione per frenare l’immigrazione di clandestini. Se tutto ciò fosse proseguito in pace e cooperazione nessuno si sarebbe meravigliato. Oggi invece si grida allo scandalo per i rapporti intrattenuti con la Libia.
Coerenza impone che le stesse considerazione andrebbero fatte per la Cina ed in genere per tutti quei paesi stranieri a vocazione non propriamente democratica con i quali intratteniamo rapporti commerciali. Se questo metodo di valutazione dovesse trovare pratica applicazione non so con quale Nazione si potrebbe cooperare a cominciare dagli Stati Uniti che in medio oriente si stanno comportando peggio di Gheddafi, a men che non si dica che i morti non sono tutti uguali.
Di porcherie è pieno il mondo, basti pensare alle industrie belliche, alla coltivazione della droga, alle vendite di sigarette, alla corruzione dilagante ed endemica agli Stati stessi. Ecco, se indignazione deve esserci che sia preventiva e purificatrice, non partigiana o interessata, né bigotta o viscerale. I rapporti commerciali, purtroppo esulano da tutte queste considerazioni, perché come dicevano i Romani : pecunia non olet.
La stessa Chiesa non è immune da questa contaminazione. E allora ? Condanniamo pure
questi genocidi, ma soprattutto quando avvengono, facciamo in modo che si arrestino, ma per carità non ergiamoci a censori, perché la nostra storia è piena di questi nefasti episodi e di “Gheddafi “ è pieno il mondo.
Pubblicato su La Sicilia il 26/02/2011
Saro Pafumi

giovedì 24 febbraio 2011

Solidarietà ovvero unni mangiunu quattru, mangiunu cincu

La solidarietà intesa come condivisione delle necessità altrui, in quest’epoca di migrazioni forzate, è un sentimento attuale che spinge le nazioni, in particolare l’Italia, ad aprire le frontiere per l’accoglimento di questi disperati. Un sentimento nobile che deve essere coltivato dagli Stati, ma sostenuto anche da noi cittadini. Per realizzare la solidarietà c’è bisogno, però, che chi la mette in atto deve trovarsi nelle condizioni economiche e di spirito di porla in essere, perché tale sentimento finisce con il coinvolgere economicamente il soggetto attivo. In Italia la crisi in atto non ci permette d’essere solidali e generosi oltre misura, ma nello stesso tempo le contingenze temporali, aggiunte alla nostra posizione geografica, non ci consentono di tirarci indietro.
Quel che suscita stupore è, però, la motivazione con la quale L’Unione Europea suggerisce di accogliere queste schiere di disperati: “ Una Nazione di 60 milioni d’abitanti ben può tollerare l’arrivo di qualche migliaio d’emigranti”.
Tale considerazione mi fa venire in mente un’antica espressione popolare: “ Unni mangiunu quattro, mangiunu cincu ”. Mio nonno nel commentare questo modo di pensare, aggiungeva saggiamente: “Vorrei tanto conoscere chi ha coniato quest’espressione, in modo da trasferire, uno alla volta, la mia famiglia presso l’abitazione di questo grande, illuminato benefattore”.
Pubblicato su La Sicilia il 24.02.2011
Saro Pafumi

mercoledì 23 febbraio 2011

Le preoccupazioni di don Sarvaturi Sciarmenta



“Un vecchio che vive in un piccolo centro abitato lontano dai grandi ospedali”, mi faceva notare don Sarvaturi Sciarmenta, contadino doc, noto per la sua proverbiale saggezza, “quando pensa alla morte lo fa in modo pessimistico per due ordini di ragioni: in primo luogo perché la morte, sentendola vicina, la considera un affare serio, come altrettanto serio è immaginare come morire. “Vediamo quello che mi può capitare” aggiungeva don Sarvaturi Sciarmenta “se mi dovessi sentire male. Il primo pensiero dei miei parenti è di accompagnarmi al pronto soccorso che è il posto più vicino. Poiché in genere nei pronti soccorsi di paese se cerchi la fiala non trovi la siringa e se hai la siringa non trovi la fiala, il medico di turno si limiterebbe a darmi una sbirciatina e abbozzando l’espressione di chi intende dire: "Ma a mia ccu mi ci porta nta ci centu missi” consiglia i miei parenti di ricoverarmi nell’’ospedale più vicino, senza nemmeno aggiungere se ho il tempo d’arrivarci. Con questa prima tappa in pratica si è dichiarati “idonei e arruolati”, come quando si passa la prima visita di leva.
A sirena spiegata si parte per l’ospedale indicato, ma se le condizioni sono serie o richiedono interventi specialistici anche questa seconda tappa si rivela inutile o meglio si è assegnati al corpo specialistico: alpini, genio, marina? Nient’affatto: unità coronarica, terapia intensiva, chirurgia d’urgenza, …quella del capoluogo, per intenderci, che è dovrebbe essere l’approdo finale. Ma attenzione: al traguardo non si può arrivare fuori tempo massimo, pena l’esclusione dalla gara, che è la vita.
In questa corse a tappe il percorso di chi abita in provincia è più lungo degli altri comuni mortali perciò giustizia imporrebbe un abbuono temporale, ma pare che la giustizia divina non contempli quest’ipotesi
Le soluzioni non sono molte: si potrebbero abolire le due tappe intermedie, quasi sempre inutili, guadagnando tempo prezioso; si potrebbe confidare nella Divina Provvidenza, sperando una volta tanto nell’abbuono temporale o rassegnarsi al destino. In fondo morire mentre si corre verso l’ospedale è come scegliersi una morte sportiva e in questo caso, scongiuri permettendo, mi dovrebbe essere assegnata la maglia rosa alla memoria”.
Quella di don Sarvaturi Sciarmenta, come al solito, è ironia e amara saggezza: è la paura di ciò che può avvenire, fatti i debiti scongiuri, vivendo lontano dai grandi ospedali.
Come dargli torto Saro Pafumi

giovedì 17 febbraio 2011

Cooperazione impossibile e l'uva che marcisce

Nonno, guarda: San Crispino! San Crispino! Il nonno: “ E’ il nostro Vino!”. “Nostro?” risponde un viticultore,. “siamo 4 mila” Un messaggio pubblicitario semplice ed efficace che al di là della bontà del prodotto reclamizzato mette in luce un aspetto più importante: la cooperazione.
Nel meridione, la cooperazione è impossibile e così avviene che un viticultore faccia marcire 20 mila kg. di pregiatissima uva, non trovando acquirenti interessati al prodotto.
Un’ amara realtà che capita tutti i giorni, in ogni settore dell’agricoltura, perché da noi manca del tutto la cultura di unirsi.
Eppure, alcune realtà presenti in altre parti del nostro territorio ci dimostrano tutti i giorni come solo dalla cooperazione può nascere la forza propulsiva, fonte di sviluppo e di successo. Perché da noi è impossibile? Perché ci ostiniamo a combattere da soli le nostre battaglie quotidiane, pur sapendo che l’insuccesso è la conclusione scontata. Non ci serve l’esperienza degli altri, l’ineluttabilità degli eventi, la storia dei nostri insuccessi, la constatazione delle nostre quotidiane difficoltà ed imperterriti ci ostiniamo a percorrere strade senza sbocco.
Quando si dice che la forza dei pregiudizi è più forte della ragione. E noi ne siamo vittime consapevoli e masochiste.
Pubblicato su La Sicilia il 17/02/2011 Saro Pafumi

martedì 15 febbraio 2011

Dimmi come ridi e ti dirò chi sei

Dimmi come ridi e ti dirò chi sei

Ridono in “A” le persone allegre

Ridono in “E” le persone stupide

Ridono in “I” le persone timide

Ridono in “O” le persone generose

Ridono in ”U” le persone scontrose

lunedì 14 febbraio 2011

Ex combattente, pensione di 50 centesimi al mese

Sono Francesco Barone, nato a Linguaglossa, classe 1922, marinaio, matricola 85486 ex combattente imbarcato sull’incrociatore Garibaldi, impegnato in diverse missioni di guerra durante la seconda guerra mondiale, Lo Stato nella mia qualità d’ex combattente mi corrisponde una pensione di 50 centesimi al mese aggiunti alla mia pensione di lavoratore che, fatti i conti, corrisponde a 33 lire al giorno. Faccio riferimento al vecchia moneta per far diventare più sostanzioso l’emolumento concessomi. Con 33 lire al giorno non mi posso comprare nemmeno La Sicilia di cui sono assiduo lettore, al massimo, se ne ho voglia, posso vergognarmi di essere a carico dello Stato., nonostante la mia veneranda età..
Mio padre, “sant’arma”, quando percepiva la sua misera paga giornaliera consegnandola all’altra “sant’arma” di mia madre diceva: “ Ogni ficutu ‘i musca è sustanza”. Ed è con questa filosofia di vita che i miei genitori hanno cresciuto ed educato i loro figli, me compreso. Non mi lamento perciò più di tanto, abituato come sono ai sacrifici.
Quando, però, ritiro la pensione sento una voce dal di dentro che mi ripete: “Hai servito la Patria com’è dovere d’ogni cittadino, sei stato fortunato che non ci hai lasciato la pelle, lo Stato ti regala 50 centesimi al mese, che vuoi di più dalla vita?” Potrei rispondere: “ un amaro lucano”, ma non me lo posso permettere, lo dovrei pagare a rate mensili. Invece, mi sento di dare un consiglio allo Stato: “ Non potrebbe tagliare la spesa di pagare questi 50 centesimi agli ex combattenti ancora in vita e in tal modo ridurre il debito pubblico? Ogni ficutu ‘i musca è sustanza” diceva mio padre.
Pubblicato su La Sicilia il 13.02.2011

BARONE FRNCESCO
Via Manzoni,80.
Linguaglossa

sabato 12 febbraio 2011

La cera, la fede, i rom

Vorrei che si facesse una riflessione su due articoli riportati nella prima pagina della cronaca cittadina del 10.02: “ La pulizia della cera costata oltre centomila euro” e “ L’abbraccio di Catania per i piccoli rom senza diritti”.
Con centomila euro spesi per la rimozione della cera dalle strade cittadine non si poteva sistemare degnamente una famiglia rom?
Sono convinto che S, Agata, se potesse, manifesterebbe la sua indignazione per l’uso della cera e lo spreco di denaro per rimuoverla: un’offesa alla miseria.
La fede quando non è seguita da atti concreti e finalizzati ad opere di bene, è un sospiro infecondo.
Pubblicato su La Sicilia 13.02.2011
Saro Pafumi

sabato 5 febbraio 2011

ADDIO AD UNA SECOLARE QUERCIA


ADDIO AD UNA SECOLARE QUERCIA

Tu che da sempre, a Linguaglossa, secolare tuo compagno il convento dei Cappuccini, spiegavi al vento le tue verdi chiome, o quercia,

ci hai lasciato.

Per età, per stanchezza, forse per delusione hai mutato il tuo letargo invernale in sonno eterno, come si addice ad un comune mortale e hai preso commiato senza regalarci il piacevole frastuono del tuo ultimo stormire.
Non eri un albero come tanti, non ti nutrivi dell’umile humus che tocca ai tuoi simili per vivere.
Il tuo alimento erano le lamentose litanie che, alla tua ombra, gli uomini, da tempo immemorabile, ti raccontavano: un rosario fatto con grani d’ansie, di pensieri, di sogni, di sospiri, che, tu, in silenzio ascoltando, lenivi con generosa frescura.

Ci hai lasciato.

Tu che eri un monumento all’eternità, una sfida al tempo,
tu che sembravi immortale non hai più quell’alito di vita che, dopo il riposo dell’inverno, si rigenerava a primavera: un appuntamento d’amore che regalavi ai tanti umani compagni che ti hanno preceduto nella sorte.

Ci hai lasciato.

Ecco perché vorrei che nessuno toccasse la tua maestosità appassita,
che nessuno dubitasse che, anche nella secchezza della morte, la tua muta presenza ci accompagnerà.
Il tempo non cancellerà facilmente le tue vigorose forme.
Ora che non sei più, la natura ti ha trasformato in monumento, una sorte che a comuni mortali non tocca.
E gli uomini, in questa tua triste metamorfosi, continueranno a tenerti compagnia.
Non ti chiederanno di donargli l’amica ombra che non puoi, t’imploreranno perché continui ad ascoltare le loro ansie, a sentire le loro preghiere.
Regalaci la speranza che la tua presenza, immobile, pur sempre altera, si trasformi nell’illusione di accompagnarti a noi.
Così com’ eri e resterai: non una quercia, ma una compagna di vita, anche dopo la tua morte.
Saro Pafumi

martedì 1 febbraio 2011

NON E' L'ABITO CHE FA IL MONACO

“ Non è l’abito che fa il monaco”. Quanti non commettiamo l’errore di disattendere l’insegnamento di quest’antico proverbio, soffermandoci sulle apparenze anziché sulla sostanza?
I nostri occhi vedono ciò che vogliono osservare. Vedere, per esempio, un frate cappuccino adornarsi di un cerchio metallico all’orecchio non è un’occasione che capita tutti i giorni. L’orecchino, si sa, di solito è un monile usato dalle donne, vederlo ad un uomo, in particolare ad un cappuccino fa un certo effetto, abituati come si è alle tradizioni e ai costumi.
Nella vita di tutti i giorni capita anche questo. Presentarsi in un certo modo con un atteggiamento notevolmente contro corrente non è da tutti comprensibile, specie se “l’avvenimento” accade in un piccolo centro. Il problema è che l’apparenza soverchia nei nostri giudizi la sostanza, convinti come siamo che la forma superi la seconda. Attratti da quest’aspetto estetico poco usuale, tralasciamo di approfondire la nostra analisi, per esempio dimenticando di valutare se il detto religioso è solito camminare con sandali e piedi nudi che per l’epoca in cui viviamo è un atteggiamento ancora più insolito dell’uso dell’orecchino. Come dimentichiamo di valutare altresì l’esempio di probità, semplicità e povertà cui il religioso s’ispira nella sua condotta quotidiana.
Eppure i nostri occhi si concentrano su quel monile, come se la sostanza umana fosse rappresentata tutta da quell’insignificante anellino di metallo.
Se oggi Gesù facesse la sua comparsa in groppa ad un asinello, probabilmente sarebbe accolto da risate e sberleffi, perché ogni epoca si esprime con forme ed apparenze diverse. Eppure, anche in groppa all’asinello Gesù resta un profeta di verità e un messaggero di pace.
Certi pregiudizi sono duri a morire, perché ciò che ha registrato la mente degli uomini per secoli diventa quasi immutabile e l’intelligenza a volte non ci viene in aiuto.
Se non ci piace imitare il religioso nell’uso dell’orecchino, imitiamolo nelle sue virtù, che è la parte più difficile da seguire.
Pubblicato su La Sicilia 01.02.2011
Saro Pafumi