La legge è uguale per
tutti. Ipocrisie istituzionali.
Se si entra in un’aula di giustizia, la prima cosa che colpisce è lo scritto che si pavoneggia dietro lo scranno della presidenza: la legge è uguale per tutti. Non si potrebbe immaginare un’affermazione autoreferenziale più ipocrita ed espropriativa dell’animo popolare. Se non fosse per l’aria lugubre che aleggia nell’aula, a quella scritta si reagirebbe con una sonora risata. Niente di tutto questo. Nasce spontanea, invece, la reazione che comporta quella scritta, accompagnata da una serie di riflessioni. Primi fra tutti certi intrighi o intrallazzi, che accompagnano molte sentenze, che vestite con l’abito del bene supremo, tradiscono la ricerca della verità, seppellita da interessi, compromessi e talvolta persino corruzione. In tutti questi casi, la scritta è sempre là, a ricordarci che la legge è uguale per tutti o almeno per gli ingenui o i credenti timorati del potere. Altra stupefacente sfacciata ipocrisia, quella contenuta all’inizio delle sentenze, dove in testa al foglio campeggia lo scritto “ In nome del popolo italiano” Forse sarebbe il caso che quest’inutile, quanto medievale preambolo fosse rimosso, perché non c’è affermazione più autoreferenziale, farisea ed espropriativa dell’animo popolare, che di molte sentenze non condivide il contenuto. Forse sarebbe il caso che le sentenze iniziassero con solo: “In nome della legge.” Anche in questo caso si chiederebbe: in nome di quale legge, quella di primo grado che condanna un imputato o quella d’appello che lo assolve? O quelle della cassazione, talvolta discordanti, salvo quando espresse a SS. UU? Forse sarebbe il caso che le sentenze iniziassero senza preambolo alcuno, col solo riferimento al Collegio o Corte che le ha espresse. Ogni sentenza, infatti, è frutto dell’interpretazione che ne danno i giudici sottoposti alla legge, ma influenzati dalle proprie opinioni, credi, umori, strategie sociali e/o politiche, che influenzano il verdetto. Per un individuo è una vera calamità imbattersi nel giudizio di un proprio simile, che talvolta è peggiore di lui, con o senza toga. Pubblicata oggi 19.09.2024 su La Sicilia
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