Monti da Pechino: “ Aumenti fiscali rozzi, ma meglio della Grecia”
Aggiungo io: “ Avi ragiuni Monti. A megghiu morti è chidda subitania”
Saro Pafumi
sabato 31 marzo 2012
giovedì 29 marzo 2012
Perchè il prezzo dei carburanti non può diminuire
I carburanti? Un’utopia sperare in un abbassamento dei prezzi. Spiego il perché. Sul prezzo incidono tre fattori: la materia prima, l’imposta di fabbricazione, l’iva. Queste due ultime voci incidono per circa il settanta per cento sul prezzo finale. L’imposta di fabbricazione, più esattamente definita “accisa”, è un’imposta che grava sulla quantità del prodotto, mentre l’Iva grava sul valore dello stesso. Attraverso un triplice salto mortale interpretativo, l’accisa concorre a formare il valore del prodotto, rendendo in tal modo possibile l’applicazione dell’Iva anche sulla stessa accisa. In parole povere significa che aggiungendo alla materia prima (combustibile) un’imposta (accisa) essa miracolosamente si trasforma in combustile stesso, entrambi gravati dall’Iva. C’è di più. Le aliquote dell’imposta di fabbricazione (accisa) variano, secondo le necessità straordinarie dello Stato: guerre, calamità naturali, eventi straordinari e in genere ogni tipo di fabbisogno per far fronte a ogni emergenza. Logica vuole che superata l’emergenza l’’aliquota dell’accisa ritorni al livello precedente. In pratica avviene l’esatto opposto: le emergenze si sommano, cosicché, per fare un esempio, paghiamo le spese per la guerra in Abissinia di mussoliniana memoria e le altre emergenze sopravvenute. Purtroppo non c’è uno straccio di Autorità (magistratura contabile o ordinaria) che pone fine a quest’autentico scippo fiscale. Un’imposta motivata da cause inesistenti o cessate, in uno Stato di diritto, sarebbe considerata nulla. A pensarci bene, anzi, si potrebbero ravvisare diversi illeciti: indebito oggettivo, appropriazione indebita, arricchimento senza causa. Poiché il soggetto coinvolto è lo Stato, ovviamente non se ne fa nulla, anzi chi è preposto al controllo delle sue leggi si rende suo complice. Resta il trenta per cento su cui operare, ma su questo fronte i poteri forti (Compagnie petrolifere) rappresentano la parte maggioritaria che opera in regime di libero mercato, il che significa che il prezzo del carburante è determinato dalla domanda e dall’offerta. Restano i benzinai, col tre per cento di utile lordo, ossia i cassieri delle imposte, sui quali gravano il costo dell’acquisto dei carburanti, le spese di esercizio, i rischi connaturati al settore (rapine, interessi bancari usurari, ecc.). In un mercato così rigido in cui la parte del leone è rappresentata dallo Stato-ladro ogni speranza è vana. Non ci resta che attendere il punto di saturazione del consumatore, ossia il grado di assorbimento del prezzo dei carburanti in costante, periodico aumento. Ormai l’automobilista è esso stesso un motore a scoppio caratterizzato da quattro fasi: acquista, paga, sopporta, scoppia. Per il momento siamo alla terza fase. A quando la quarta?
Pubblicata su La Sicilia il 30.03.2012 Saro Pafumi
Pubblicata su La Sicilia il 30.03.2012 Saro Pafumi
domenica 25 marzo 2012
L'assenza di lavoro rende l'uomo randagio
Avete mai notato una colonna di formiche fare la spola tra la ricerca del cibo e la tana dove accumularlo? C’è un ordine quasi maniacale nei compiti di ciascuno, dove l’individualità esiste in funzione di una collettività operosa. Cosa rende perfetta questa minuscola laboriosa società? Principalmente due requisiti: Il lavoro e le regole di comportamento. Non bisogna attingere alte vette per capire che il lavoro è il più potente rimedio educativo per impegnare l’uomo a realizzarsi e socializzare. La maggior parte dei mali che affliggono la società è la mancanza assoluta di lavoro. La delinquenza, le cattive abitudini, i comportamenti malavitosi sono conseguenza di questa carenza lavorativa. Le autorità sono consapevoli di quest’esigenza, ma anziché concentrarsi sui diritti dei lavoratori dovrebbero assolvere il compito di produrre lavoro. Il diritto è la norma che disciplina i comportamenti, ma se manca il rapporto (lavorativo) l’esercizio del diritto è una scatola vuota, un principio astratto. Il diritto al lavoro non deve essere una facoltà lasciata al singolo o una condizione occasionale. Il lavoro è o dovrebbe essere un obbligo sancito dalla Costituzione. Ciascuno nell’ambito delle sue competenze deve potere essere chiamato a svolgere una funzione sociale sia remunerata o in mancanza “forzatamente” volontaria. Qualcuno potrebbe obiettare che in tal modo si vivrebbe in uno Stato illiberale. Può essere. Sarebbe uno Stato infinitamente meno illiberale di uno Stato in cui la sicurezza è un optional, il lavoro una chimera, i diritti un’astrazione. L’ozio, si dice, è il padre dei vizi. Nell’antica Roma l’ozio era impiegato per lo studio, oggi è fonte di danno. L’ozioso ha in sé il germe latente del male e come tale va periodicamente osservato, “costretto” a fare, perché l’attività fisica e/o mentale deterge la mente, rende se stesso utile e lo sottrae dalla condizione di “randagismo” in cui l’assenza di lavoro lo relega.
Pubblicata su La Sicilia il 26.03.2012. Saro Pafumi
Pubblicata su La Sicilia il 26.03.2012. Saro Pafumi
sabato 24 marzo 2012
Tutto bene, madame la marchesa
La posizione del Prof. Monti è invidiabile, non tanto per quanto guadagna, frutto del suo alto ingegno e preparazione, quanto per la posizione privilegiata di cui gode. Mi spiego. Qualsiasi cittadino a fronte di difficoltà economiche non sa a quale Santo rivolgersi se non contare sulle proprie forze e/o affidarsi alla fortuna. Il prof. Monti invece, difronte all’incalzare del debito pubblico ha per così dire una via di scampo: stampare carta moneta o emettere Bot e CCT il che in termini economici significa finanziare se stessi con nuovo debito. Se una volta tanto chi ci governa si calasse nei panni del cittadino comprenderebbe che le esigenze dello Stato sono, con le debite proporzioni, quelle di tutti i cittadini, con la differenza che a questi ultimi non è consentito stampare carta moneta, né accedere a forme di credito, poiché su questo fronte le porte sono chiuse. Eppure a sentire gli esponenti del governo, tutto va bene. Questa fandonia mi ricorda quel vecchio modo di dire: “ Tutto bene madame la marchesa” che vale la pena di raccontare. E’ la frase del servitore che riferisce alla marchesa di ritorno da un viaggio che tutto va bene, “salvo un piccolo imprevisto”. L’imprevisto era la morte di una ragazza per avere mangiato la carne del cavallo morto di fatica per avere trasportato secchi d’acqua, serviti per spegnere l’incendio della casa, a seguito del suicidio del marito. Se in Italia non siamo a tanto, poco ci manca, ma imperterriti si continua a ripetere: “Tutto bene madame la marchesa”. E il popolo? Abbocca.
Pubblicata su La Sicilia il 24.03.2012 Saro Pafumi
Pubblicata su La Sicilia il 24.03.2012 Saro Pafumi
sabato 17 marzo 2012
Consumismo tecnologico
“Il “pezzo” che dovrò sostituire durerà al massimo tre mesi” mi disse con tono divertito e gaudente l’operatore che avevo chiamato per la riparazione della lavatrice. La ragione, aggiunse, è dovuta alla politica delle case costruttrici sempre più orientate, per ragioni produttive, a dimezzare la durata dell’elettrodomestico prodotto, favorendo uno sfrenato consumismo tecnologico. La “confessione” dell’operatore aveva un profondo senso di verità, confermata dagli innumerevoli relitti di utensili casalinghi, quasi nuovi, disinvoltamente abbandonati per le strade. Mia madre, buonanima, usò lo stesso frigorifero per quasi cinquant’anni. Anche quando, per vetustà, si ruppe la maniglia, pur di non disfarsene, preferì aprirlo a ginocchiate. Un esempio di rara fedeltà affettiva all’elettrodomestico e di risparmio familiare. Erano diversi i tempi e le persone. La vera “lavatrice” era, però, una certa “ Gnurangela” che faceva il bucato a mano, a casa di mia nonna, col sapone solido a pezzi, anch’esso fatto in casa. Allora non esisteva Coccolino, Vernel, Omino bianco, si usavano le mani con i calli, il sole che sbiancava faceva il resto, aiutato dal vento di tramontana. Il profumo della biancheria non era compito di Nuncas, da aggiungere al risciacquo, ma un mazzetto di lavanda profumata, riposta assieme alla biancheria nel cassettone della nonna. Oggi tutto è affidato alla centrifuga della lavatrice, che, di notte, col suo monotono tremore cinetico sembra quasi ricordarti, impietosa, che esiste il morbo di Parkinson, all’indispensabile, costosa, energia elettrica e ai liquidi corrosivi che la terra inghiotte, per restituirceli in alimenti. Le strade sono cimiteri di elettrodomestici: la tv ancora ”nuova”, con “impresso” il volto sfigurato di quello che fu l’ultimo presentatore, si accompagna al freezer con ristagni di cibi congelati, la lavatrice con l’oblò aperto, suo ultimo respiro, prima di essere sepolta da un materasso permaflex, più avanti un paio di scarpe slacciate con la suola scollata, come la lingua di un impiccato. Qualcuno su tutto ha deposto un mazzo di fiori secchi, non si sa per disfarsene o per commemorare quei relitti, avanzi di una civiltà consumistica che muore prima di nascere.
Pubblicata su La Sicilia il 16.03.2012. Saro Pafumi.
Pubblicata su La Sicilia il 16.03.2012. Saro Pafumi.
venerdì 16 marzo 2012
Ancora sulla cremazione
Cito a memoria un aforisma del filosofo svizzero H. F. Amiel: “ Capire è difficilissimo; farsi capire è una smisurata ambizione”. Scrivendo su questa rubrica a proposito dell’uso della cremazione, chiedevo prima a me stesso e poi ai lettori di conoscere quali sarebbero potute essere le ragioni che spingono alcune persone a fare ricorso a tale pratica. Non le ragioni di carattere religioso, bensì quelle semplicemente umane e sociali. Ho letto affermazioni generiche ( è stata la volontà del defunto) o motivate da ragioni di spazio ( i prossimi miliardi di morti dove li mettiamo?) o particolarmente irritate ( ognuno è libero di fare le scelte che vuole). Le mie considerazioni erano rivolte a sostenere, opinione personalissima, che la cremazione è un atto di violenza sui resti del povero defunto e spiegavo le sommesse ragioni che m’inducevano a definire “violenza” l’atto della cremazione. Che il corpo dopo la morte si decomponga nessuno lo mette in dubbio. Ma una cosa è la decomposizione del corpo per cause naturali, ben altra cosa lo è “artificiosamente”. Poiché viviamo in un’epoca in cui ciascuno è o vuole essere padrone del proprio destino perché non pensare oltre alla cremazione anche al “compostaggio?” Se si potesse scegliere cosa fare del proprio corpo dopo la morte propenderei per “il compostaggio”. Un processo biologico aerobico che trasforma la materia in concime organico. Ognuno potrebbe scegliere il fiore o la pianta da fertilizzare. Si avrebbe, almeno, la certezza di rinascere secondo le sembianze scelte: rosa, cactus, ulivo, sequoia o perché no un bel cavolo che mangiato si riconverte in concime, secondo il principio che in natura nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma. Il rispetto delle salme si è formato del resto con quel processo evolutivo che ha condotto alla formazione dell’Homo sapiens. Se si vuole fare un passo indietro basta eliminare i cimiteri e con essi la memoria stessa dei defunti o diventare cinesi ( già lo siamo nel mangiare, nel vestire e nel camminare) che nell’arco di vent’anni’ vogliono abolire tutti i cimiteri.
Pubblicata su La Sicilia il 16.03.2012 Saro Pafumi
Pubblicata su La Sicilia il 16.03.2012 Saro Pafumi
martedì 13 marzo 2012
Nuovi posti di lavoro, un miracolo
I politici usano la bocca esclusivamente per svolgere due funzioni: per mangiare e per parlare. La prima funzione sono in molti a usarla in modo spropositato, la seconda in modo logorroico e le bolle d’aria sono la parte preponderante che fuoriesce dalla sua cavità. I titoli dei giornali sono pieni di frasi retoriche e roboanti pronunziate dai politici. I discorsi più gettonati: occupazione, ripresa, lavoro, sviluppo. “Parole, parole, parole” recita una nota canzone. Un refrain trito e ritrito i cui effetti tardano a vedersi. Molti i cantieri promessi, ma nessuno di fatto aperto. Ogni progetto necessita di tempi di attesa, ma in tema di lavoro e occupazione, quando l’attesa è lunga si corre il pericolo che arrivi fuori tempo massimo. Recita un vecchio proverbio: “ Mentre il medico studia, l’ammalato se ne va”. Anche se in questo caso non di morte fisica si tratta ma di forza morale. Finora Monti delle quattro operazione aritmetiche tradizionali ne ha messe in campo solo tre. Addizione: tasse, tariffe e tributi; sottrazione: potere d’acquisto delle famiglie e delle imprese; divisione: mancato sviluppo equamente ripartito tra i poteri dello Stato (Regioni, province, comuni). La moltiplicazione dei posti di lavoro è rimasto un miraggio. Secondo i Vangeli di Matteo e Marco solo a Gesù riuscì la moltiplicazione dei pani. Vuoi vedere che per vedere moltiplicati i posti di lavoro dobbiamo credere nei miracoli?
Pubblicata su La Sicilia il 13.03.2012. Saro Pafumi
Pubblicata su La Sicilia il 13.03.2012. Saro Pafumi
domenica 11 marzo 2012
Cremazione, quali ragioni?
In Italia, stando alle statistiche, il rito della cremazione dei morti è richiesto nel dieci per cento dei casi, ma tale pratica col tempo è destinata ad aumentare, fino a diventare, ahimè, una moda. Non sono note le ragioni dei molti che, all’inumazione, preferiscono la cremazione, se si escludono quelle di carattere religioso, estranee al credo cattolico. Tale pratica, fino a poco tempo fa, disattesa dalla religione cattolica, da poco è stata riconosciuta, sia pure a certe condizioni. La cremazione è una vera violenza contro il corpo del defunto che, se non suffragata da profonde ragioni religiose, secondo il culto d’appartenenza, è un’ulteriore offesa alla persona umana. Basti pensare che la cremazione non incenerisce le ossa, ma esse hanno bisogno di essere sminuzzate fino a essere ridotte in cenere, il che comprova un ulteriore “atto di violenza” sui poveri resti mortali. Il culto dei morti ha da noi origini e usanze nobili, prova ne sia che i nostri cimiteri sono pieni di tombe, sulle quali ciascuno piange i propri cari. Nell’immaginario collettivo ciascuno pensa il proprio defunto rinchiuso nella tomba, immerso nel pacifico sonno del riposo e assai verosimilmente lo immagina così come lo ha visto, in carne e ossa, nell’ultimo giorno di vita. Un ricordo che aiuta a credere il proprio caro come presenza costante, che ci accompagna per l’intera vita. Un’urna contenente le ceneri del proprio caro cancella il ricordo della persona viva, perché nella mente s’imprime l’atto finale della cremazione, un processo distruttivo che trasforma il corpo in cenere, che inesorabilmente finisce col sovrapporsi all’ultimo fotogramma del proprio caro vivente. Un’immagine, quest’ultima, che ci protegge e ci accompagna per tutta la vita, che il fuoco della cremazione impietosamente ci ruberebbe. Non solo, ma non sarebbero esistite opere di rara, potente espressività artistica, come quelle di Raffaelo, del Caravaggio, del Perugino in cui il Corpo di Cristo (e di ogni defunto in genere), rappresenta la massima spiritualità dalla morte. Pubblicata su La Sicilia 11.03.2012. Saro Pafumi
giovedì 8 marzo 2012
I vecchi, espropriati del diritto di amare
Mi chiedo cosa sarebbe dei nostri vecchi se non ci fossero le badanti straniere a prendersi cura di loro. Vedere questi vecchietti, da un lato appoggiati al bastone e dall’altro sorretti da avvenenti signore, incuriosisce, intristisce e insieme fa riflettere. Intristisce perché un’assistenza prezzolata non può mai sostituirne una fondata sull’affetto Le esigenze familiari connesse agli impegni lavorativi, la scarsa affettuosità in qualche caso, e non ultima una certa moda da contagio invalsa in questi ultimi tempi fa sì che le badanti si sono rese insostituibili. Oggi si preferisce delegare ad altri l’assistenza agli anziani, anziché ritenerla un obbligo personale o familiare. Un fenomeno reso possibile perché l’anziano ha una pensione che permette quest’assistenza “indiretta”. Oggi il costo di una badante, se messa in regola, si aggira, nel meridione, intorno a mille euro al mese. Questo costo, in un’economia familiare in regressione non è cosa da poco e il frutto di questo lavoro va a finire in massima parte all’estero. L’usanza fa riflettere, perché al di là dell’aspetto economico è quello psicologico che entra in gioco. L’assistenza delegata a elementi estranei alla famiglia, per lingua, mentalità e tradizioni mentre priva il vecchio del suo patrimonio culturale, impedendogli quel dialogo con gli altri che lo rende vivo e palpitante di ricordi, priva i familiari, figli e nipoti dell’esperienza e saggezza che la vecchiaia trascina con se. Questo tipo di assistenza costituisce un impoverimento affettivo e un imbarbarimento dei costumi, oltre a costituire un regalo alla morte, qual’ è ogni attimo sottratto alla compagnia dei propri genitori. Purtroppo come diceva Terenzio “ Senectus ipsa morbus” e come tale un peso da evitare o delegare ad altri. Ma a quale prezzo? Un vecchio curato da una badante è come un bambino adottato che da adulto scopre che i suoi genitori naturali sono altri. Un trauma che da giovane si può metabolizzare, ma da vecchio si porta nella tomba. Ecco perché in molti vecchi così assistiti è visibile la tristezza nei loro occhi. Qualcosa si è spenta per sempre nella loro anima: la gioia di specchiarsi nel viso dei propri figli e nipoti, ossia l’espropriazione del diritto di amare. Saro Pafumi
Pubblicata su La Sicilia 08.03.2012
Pubblicata su La Sicilia 08.03.2012
lunedì 5 marzo 2012
L'occasione fa gli uomini ladri
C’è un vecchio modo dire che recita: “L’occasione fa l’uomo ladro”. Nessuno nasce ladro, talvolta, senza volerlo, si diventa per le circostanze della vita, per bisogno, per l’ambiente in cui si cresce, per cattivo insegnamento e così via. L’occasione è la scintilla che fa scoccare l’istinto a rubare. Un comportamento individuale condannato dalla società, ma ancor prima dal settimo comandamento. Oggi questo vecchio modo di dire va aggiornato: “L’occasione fa gli uomini ladri”. Il singolare è diventato plurale Non è più la condotta singola, ma quella più in generale che deve essere giudicata, perché il fabbisogno di rubare si è come dire globalizzato. Non è assurdo pensare che forse l’istinto a rubare sia il vero peccato originale dell’uomo, perché esteso all’intero genere umano. Le modalità sono cambiate: dal furto di “un qualcosa” si è passati al furto di “qualsiasi cosa”. Anche qui il plurale è d’obbligo. Dal genere di consumo, ai servizi, dai tributi, ai canoni, alla stessa vita, persino il tempo è stato rubato (ai pensionandi, ai lavoratori in cassa integrazione, ai precari, ai disoccupati, ai creditori, alle vittime delle ingiustizie terrene ecc.), per non parlare del diritto a sperare soffocato da promesse non mantenute o vittima d’illusioni coltivate. Il peggio è che gli autori dei furti quotidiani non sono i disagiati, gli emarginati, i bisognosi. I malavitosi, ma società quotate in borsa, banche, assicurazioni, partiti politici, burocrati, c.d. “colletti bianchi” e via via salendo fino ai più alti gradini della vita sociale. Il furto elevato a sistema, dove l’autore è insieme complice e giudice di se stesso. La vittima? Un relitto che l’onda perfida del malcostume, della prepotenza, dello strapotere emargina, sospinge soffocato nel mare dell’indifferenza. Da questa disamina, perversa, realistica e impietosa esce quasi riabilitato il piccolo ladro, chi quotidianamente sottrae qualcosa per sopravvivere o per far quadrare i conti. Il furto un tempo “ artigianato”, è diventato Industria, Società per Azione, Capitale. Saro Pafumi Pubblicata su La Sicilia il 05.03.2012.
sabato 3 marzo 2012
Spira aria di pessimismo
Provate a incontrare un amico o a telefonare a qualcuno che non vedete da diverso tempo, azzardando la domanda di rito: “ Come stai?” E’ un piagnisteo generale, pensionato, lavoratore, giovane o vecchio che sia. Pare che siamo affetti tutti dallo stesso morbo: l’insoddisfazione. Chi per la salute, chi per mancanza di lavoro, chi per la pensione, chi per troppo lavoro, pagato male. Sarà così? Stando alle statistiche non c’è da stare allegri, né il futuro ci riserva tempi migliori. La crisi che riguarda un po’ tutti gioca un ruolo essenziale in questo pessimismo diffuso, ma non è solo l’economia, individuale o collettiva il veicolo che diffonde quest’ondata di pessimismo. Lo è di più il contesto sociale, la convinzione che tutti o quasi ci troviamo sulla stessa barca, il che aggrava la sensazione di sconforto. E’ come se tutti ci trovassimo sulla Costa Concordia che sta per affondare o visitassimo le corsie di un grande ospedale. La sensazione è di tristezza. Lo stesso ruolo gioca il pessimismo che quand’è diffuso diventa collettivo. I tecnici che attualmente ci governano, oltre alle solite, retoriche frasi di rito, non solo non diffondono ottimismo, anzi con le loro tristi facce non invitano a sperare e così tra uno spread e l’altro, la borsa che oscilla e i prezzi che aumentano il pessimismo aumenta. Si avverte la sensazione di abitare una terra non nostra, di sentirci estranei persino a casa nostra, precari a vita, perché quando manca il lavoro e difettano le certezze, rimane il vuoto. Questo governo da persone ci ha trasformato in prede. C’è chi sente abbandonato, chi defraudato, chi ricercato, chi tartassato, chi suddito. La politica è diventata uno spot. Chi amministra pensa sempre a “salvare” qualcosa. In questo fuggi-fuggi generale gridando “al ladro! al ladro! (burocrate, politico, amministratore, evasore che sia) al cittadino non resta che “salvare” se stesso, nella più assoluta solitudine. Pubblicata su La Sicilia 03.03.2012.Saro Pafumi
venerdì 2 marzo 2012
Un ricordo del nostro amato arciprete parroco
Quando un vicino di casa muore, sono brandelli di vita, tessere di un mosaico costruite assieme che la morte si porta via. Quest’oggi a Linguaglossa è toccato a un vicino di casa “speciale”, Don Vincenzo, emerito arciprete-parroco “tuttofare”, perché Don Vincenzo, da solo, nel suo ministero, abbracciava quasi tutte le chiese del paese. Si diceva che avesse il dono dell’ubiquità, perché dopo averlo lasciato a celebrare nella Chiesa Madre, lo ritrovavi nel Centro Sociale, che fortissimamente volle come centro di aggregazione giovanile, o nella Chiesa di San. Francesco o dell’Annunziata, assieme alle sue parrocchiane per promuovere iniziative sociali o di carità, una virtù teologale, questa, di cui Don Vincenzo era apostolo di fede. La sua casa, a piano terra, francescana nell’arredamento, lo era anche nell’accoglienza di quei molti che quotidianamente bussavano alla sua porta in cerca di un obolo che generosamente donava, camuffandolo con una stretta di mano. Quelle poche volte che mi è capitato di “toccare”, come vicino di casa, la sua carità con mano, i nostri sguardi s’incrociavano in un imbarazzato silenzio, perché Don Vincenzo non gradiva si scoprisse il suo animo samaritano. Lo conobbi, io giovinetto, per la prima volta, a casa sua, dove mi ero recato per farmi aiutare nell’elaborazione di un tema di religione che il mio insegnante, Padre Bottino, domenicano, mi aveva assegnato come compito a casa. A quattordici anni da buon cristiano gli unici elementi di religione a me noti erano “u ruzzuleddu" e "u stuffu” con i quali trascorrevo la giornata dopo lo studio. La teologia era materia di preti e Don Vincenzo, giovane prete, andava al caso mio. Il tema, com’è ovvio, lo scrisse Don Vincenzo da capo a piedi e quando il mio insegnante lo lesse, dandomi una pacca sulla spalla mi disse: “ Se lo hai fatto interamente tu, sento che la tua vocazione sarà quella di fare il prete”. Per qualche giorno ci pensai pure. Poi a distogliermi da quell’idea ci pensarono “u ruzzuleddu e u stuffu”. E meno male, mi sarebbe toccato di fare lo spretato. Solo Don Vincenzo, il nostro amato arciprete-parroco poteva fare il prete. Lui c’era nato. Chissà se da Lassù, leggendo questo mio scritto, si ricordi di quel nostro lontano incontro e mi regali un sorriso. Saro Pafumi
Iscriviti a:
Post (Atom)