domenica 22 maggio 2011

Il parto di una cava di pietra


Si fa presto a dire: io lavoro. Ma quando nel passato questo verbo era messo in bocca a chi di mestiere faceva il cavatore di pietra, assumeva un altro significato. Il rischio che questa fatica comportava era un’altalena tra la vita e la morte. Ne sa qualcosa chi, solitario, scavava sotto un banco di basalto lavico, in cui il terriccio che gli cadeva in testa era la carezza della morte in agguato. Eppure, egli lavorava, faticava e scavava col pensiero della morte appresso, dove il silenzio era preghiera, consapevole che laggiù non si è un uomo, ma il niente. Quando la voce del basalto non è più un lieve scricchiolio che accarezza, ma diventa persistente e minaccioso è il segnale di smettere, perché inizia “il travaglio” della cava. Si dice che la cava “ scattìa”, quando gli scricchiolii, brevi, ma persistenti sono simili alle grida di una partoriente che soffre e gode, attende e spera che il travaglio sia finalmente quell’atto liberatorio il cui frutto è amore o fatica. Chi ha avuto la rara fortuna di assistere all’abbattaggio di una cava è come trovarsi in sala parto, dove l’attesa è speranza e vita e le voci hanno il suono del dolore, ma il colore della gioia. La cava “in travaglio” diventa creatura dolente che regala la sua voce, colonna sonora di una sofferenza che stupisce e affascina. Lo scroscio della pioggia, lo stormire delle foglie, lo scorrere di un ruscello o il canto del vento nulla hanno di umano come l’abbattaggio di una cava. E’ questo un fenomeno naturale, un parto, in cui la natura col suo lamentoso, lento, sonoro slamare ci svela che anch’essa ha un’anima che geme. E’ un’esperienza di vita in cui s’impara che anche le pietre hanno una loro voce che canto è.
Pubblicato su La Sicilia il 23.05.2011 Saro Pafumi

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