lunedì 30 maggio 2011

Carusi, 'nsignativi u 'nglisi

Sono laureato, ma in sostanza analfabeta. Mi manca la conoscenza della lingua inglese che, oggi, è il necessario viatico per procedere in ogni campo. Mi sento un analfabeta quando leggo il giornale, perché spesso si fa ricorso a termini inglesi, per cui il vocabolario diventa un necessario mezzo per capire. Accendo il computer e per andare avanti devo superare una serie di ostacoli scritti in inglese. Incontro un turista e la prima domanda che mi sento rivolgere è: “ You speak english? ”. Preferirei ricevere un pugno nello stomaco o essere sordomuto, anziché rimediare la figura di chi non capisce o non sa rispondere. Viaggio in aereo e l’inglese si spreca. Acquisto un attrezzo e le modalità d’uso sono scritte in inglese, Oggi si parla tanto di introdurre lo studio della lingua siciliana nelle scuole. Ci serve, si sostiene, per comprendere chi siamo e da dove veniamo, che è come conoscere i nostri genitori e le loro abitudini. Una necessità, non c’è dubbio, anzi per essere più precisi serve conoscere anche il latino, il greco, l’arabo, il francese e lo spagnolo, chè di queste lingue è impastata la nostra. Ci servirà ammirare le foto sbiadite del nostro passato o ci serve andare avanti?: Personalmente sarei disposto a studiare il sancrito o il tamil se servissero, ma poiché la realtà è l’inglese o ti adegui o soccombi. Lo studio delle nostre origini serve, ma i mezzi per andare avanti sono indispensabili. Noi siciliani, poi, con la nostra lingua abbiamo un rapporto incompiuto: la parliamo ma non la sappiamo né scrivere, né leggere. E poi di quale siciliano stiamo parlando, se molti vocaboli sono difformi da un luogo all’altro? Diremo: vaddari o taliari, suggiri o susirisi, lucertula o sguna, fasola o truiaca, scursuni o ancistra? E via discorrendo….La cultura è come la libertà: quanti delitti si commettono in tuo nome! “Carusi, sintiti a mmia: u siciiianu parrammulu ntra nuiatri: ‘nsignativi nveci u ’inglisi e futtitivinni ddu sicilianu. V’assicura un pezzu ‘i pani. ‘Nda sta mala staciuni, criditimi, ogni ficutu ‘i musca è sustanza.
Pubblicata su La Sicilia il 30.05.2011 Saro Pafumi

mercoledì 25 maggio 2011

Nella lingua siciliana manca il futuro, come nella realtà.

Nella lingua siciliana manca il tempo futuro dei verbi. Infatti, per esprimere un’azione futura si ricorre a qualche locuzione, per cui dovendo dire: “ andrò in campagna”, si dice: “Dumani vaiu ‘ncampagna”, oppure si ricorre al verbo “dovere”: “Aiu a gghiri ncampagna”. Che nella lingua siciliana manchi il futuro non è una circostanza occasionale. Una ragione deve pur esserci. In Sicilia, infatti, il futuro non ha ragion d’essere. Perché il divenire da noi non esiste. Non da ora, da sempre. Esempio: Si è lottato tanto per la conquista dell’Autonomia che avrebbe dovuto rappresentare il futuro dell’isola, ossia il mezzo col quale sarebbe dovuta essere amministrata la vita dei siciliani e invece…….E invece si è rimasti ancorati al passato, come se questa conquista non fosse stata mai realizzata. In Sicilia il passato è realtà, il presente è possibilità, il futuro non esiste. Qui siamo tutti discepoli di Orazio che amava dire “ carpe diem”. Altro esempio: “ Ni videmu ‘e cincu”. Il verbo è al presente, ma poiché non rispettiamo l’appuntamento, il presente diventa passato. Quando in una lingua manca il futuro è come se manchi la speranza, ossia l’attesa che si realizzi qualcosa. Dal calice della speranza abbiamo bevuto l’ultima goccia; ci rimane la sete con la quale conviviamo in perfetta armonia. L’assenza del futuro come verbo, ma anche come attesa è una caratteristica che ci rende “unici”, Una specialità, la nostra, solo apparentemente negativa, perché ci consente persino di aggirare i divieti che considerati, come proibizione di fare qualcosa proiettata nel futuro, esulano dai nostri compiti. Un’ultima annotazione che dimostra il nostro modo d’essere ispirato a questa filosofia. Noi siciliani usiamo dire: “ Sto tonando” per indicare di “andare e ritornare entro breve tempo”. E’ la dimostrazione che siamo capaci di annullare il futuro, di fare diventare attuale il divenire. E’ scienza, è calcolo, è rassegnazione, è filosofia tutto questo? E’ semplicemente “sicilianità”.
Pubblicato su La Sicilia il 25.05.2011. Saro Pafumi

domenica 22 maggio 2011

Il parto di una cava di pietra


Si fa presto a dire: io lavoro. Ma quando nel passato questo verbo era messo in bocca a chi di mestiere faceva il cavatore di pietra, assumeva un altro significato. Il rischio che questa fatica comportava era un’altalena tra la vita e la morte. Ne sa qualcosa chi, solitario, scavava sotto un banco di basalto lavico, in cui il terriccio che gli cadeva in testa era la carezza della morte in agguato. Eppure, egli lavorava, faticava e scavava col pensiero della morte appresso, dove il silenzio era preghiera, consapevole che laggiù non si è un uomo, ma il niente. Quando la voce del basalto non è più un lieve scricchiolio che accarezza, ma diventa persistente e minaccioso è il segnale di smettere, perché inizia “il travaglio” della cava. Si dice che la cava “ scattìa”, quando gli scricchiolii, brevi, ma persistenti sono simili alle grida di una partoriente che soffre e gode, attende e spera che il travaglio sia finalmente quell’atto liberatorio il cui frutto è amore o fatica. Chi ha avuto la rara fortuna di assistere all’abbattaggio di una cava è come trovarsi in sala parto, dove l’attesa è speranza e vita e le voci hanno il suono del dolore, ma il colore della gioia. La cava “in travaglio” diventa creatura dolente che regala la sua voce, colonna sonora di una sofferenza che stupisce e affascina. Lo scroscio della pioggia, lo stormire delle foglie, lo scorrere di un ruscello o il canto del vento nulla hanno di umano come l’abbattaggio di una cava. E’ questo un fenomeno naturale, un parto, in cui la natura col suo lamentoso, lento, sonoro slamare ci svela che anch’essa ha un’anima che geme. E’ un’esperienza di vita in cui s’impara che anche le pietre hanno una loro voce che canto è.
Pubblicato su La Sicilia il 23.05.2011 Saro Pafumi

lunedì 16 maggio 2011

Le cantilene dei vecchi carrettieri


Quando nel dopoguerra le auto non raggiungevano la diffusione di oggi, il trasporto delle merci avveniva con i carri e di notte era frequente ascoltare per le polverose, solitarie strade le cantilene dei carrettieri che si accompagnavano allo zoccolio dei cavalli. Io che a Linguaglossa abitavo nella piazza principale del paese ascoltavo volentieri da bambino le cantilene dei carrettieri di passaggio. Un canto, prima lontano e lieve che aumentava di tono all’avvicinarsi, fino a mescolarsi con lo zoccolare del cavallo e lo sferragliare cadenzato del carro, per poi dissolversi in lontananza, fino a spegnersi nella tristezza della notte. Spesso mi alzavo per vedere nell’oscurità della notte il carro che giungeva, appena rischiarato dalla fioca luce di un’oscillante lampada a petrolio e porgevo attento il mio orecchio per afferrare quei pochi versi che mi tingevano il cuore di mestizia. “ Tira cavaddu miu, tira e camina/. L’ura è tarda e la strada è luntana/. Lu suli mi cuddau arreri ‘na spina/’ ‘ndu straduni di la nostra chiana/. Ci curpa cu sunau l’Avimmaria/, ca ancora menzannotti è/. Lu scrusciu di la rota e la catina/ cumpagni sunu di sta vuci paisana”/. Quando nella lontananza la cantilena lentamente si spegneva e la luce della lampada diventava una tremante fiammella, quel canto trascinava seco la mia anima sul carro di quel “disgraziato” che della notte era compagno, mentre anch’io ripetevo tra le calde e comode lenzuola del mio letto: “ Tira cavaddu miu, tira e camina…..” Poi mi scioglievo nel sonno, ma quel canto struggente e lamentoso, accompagnato talvolta dallo sbuffare iroso del cavallo, continuava a riempire l’oscurità di altre strade fino all’alba, quando il sonno del carrettiere, stemperato dal canto, faceva largo ad altra fatica giornaliera.
Pubblicata su La Sicilia il 17.05.2011 Saro Pafumi

venerdì 13 maggio 2011

Un concorso a premi per chi paga le tasse

Le recenti statistiche annoverano l’Italia tra i Paesi col più alto indice di giocatori d’azzardo. Le ragioni di tanto accanimento, forse, sono da ricercare nella disperazione che attanaglia gli individui che cercano nel gioco quello che non hanno dalla vita: lavoro, fortuna e benessere. Così, nell’illusoria speranza di far quadrare i conti, ciascuno sperpera quel poco che ha di proprio e quando questo non basta, ricorre ai familiari: moglie, mariti, genitori. Lo Stato ha capito questa debolezza umana e in nome di una sua morale laica, anziché combattere questi istinti irrazionali, li favorisce solo ed esclusivamente per far cassa, se è vero che questi giochi costituiscono il 3,7 del Pil. L’ha capito per primo il Ministro delle Finanze che agevola le società che si occupano di giochi, a condizione, com’è ovvio, che abbiano sede in Italia, dove si pagano le tasse. Poiché gli Italiani sono sensibili alla Dea bendata, alla quale non disdegnano di consegnare il portafogli, ecco che prolifica in ogni dove tutta una serie d’iniziative a sfruttare questa debolezza italica: concorsi a premi, raccolta punti, risposte a domande e mille altre quotidiane insidie tutte rivolte a raggranellare quei pochi spiccioli che sono rimasti in tasca agli italiani. Poiché questa sfrenata corsa al “borseggio” non accenna a diminuire, anzi col tempo e con le nuove tecnologie è destinata ad aumentare, forse sarebbe il caso che il Ministero delle Finanze introducesse un concorso a premi per chi paga le tasse. E’ risaputo, infatti, che il contribuente è riluttante a farsi carico di pagare le tasse, anzi quando può ne fa volentieri a meno. Basterebbe sorteggiare tra i tanti contribuenti che puntualmente pagano le tasse un premio in denaro o il rimborso di quanto dovuto e il miracolo di vedere diminuire l’evasione fiscale sarà un gioco. Un jackpot settimanale che vedrà incollati milioni d’Italia alla Tv, come avviene con l’estrazione del lotto alle Otto. Se il contribuente non vince, ci riproverà la prossima settimana a costo d’inventarsi una tassa da pagare. Statene certi.
Pubblicata su La Sicilia il 13.05.2011 Saro Pafumi

giovedì 12 maggio 2011

Se ci facessimo i fatti nostri

Se ognuno di noi, a cominciare dagli Stati, ci facessimo i fatti nostri, il mondo sarebbe un altro. L’esperienza del resto lo insegna e i proverbi che su di essa si basano, lo confermano. Il problema è che le nostre azioni sono spesse guidate dall’egoismo, dalla sopraffazione, dalla menzogna, dal bisogno di primeggiare o dettate sempre e spesso da sentimenti deteriori che finiscono col coinvolgere gli altri, peggiorando la nostra e l’altrui esistenza. Si giustifica, per esempio, un nostro comportamento camuffandolo col desiderio di portare pace tra due persone, ma spesso guidato da un interesse personale; si giustifica un intervento armato col bisogno di esportare la democrazia, ma col segreto intento di ricavare un profitto economico; si coltiva un’alleanza tra due Stati per condizionare quella degli altri e si potrebbe continuare. La storia lo insegna e la pace, ove questo bene attecchisce, si chiami nazione o animo, spesso è sulla neutralità che si fonda. Qualcosa su questo fronte lo insegnano la Svezia e la Svizzera, solitamente neutrali e/o in genere i paesi nordici assai riluttanti ad essere coinvolti in dispute internazionali.
Purtroppo nella vita degli individui singoli come in quella degli Stati prevalgono ragioni di convenienza che fanno dimenticare il principio cristiano: "Non fare agli altri quello che non vuoi sia fatto a te”, stravolgendo, talvolta con la propria condotta egoistica e prevaricatrice o falsamente benefattrice il destino proprio e quello degli altri. La guerra in Iraq, in Libia e ovunque questo male attecchisce altro non è che la conseguenza dell’ingerenza nei fatti altrui. Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti e i risultati che si ottengono da questa sconsiderata condotta, singola o collettiva spesso non ripagano dei sacrifici spesi. Spesso, analizzando queste condotte umane è legittimo il dubbio: ” E’ Dio che ci ha creato a sua immagine e somiglianza o siamo noi a pensarLo a nostra immagine e somiglianza?”. L’esperienza sembrerebbe propendere per la seconda ipotesi.
Saro Pafumi

lunedì 9 maggio 2011

I rifiuti a Roma e Londra dopo due eventi mediatici

Qualcuno dopo avere letto questa lettera, potrebbe esclamare: “ Ma guarda un po’ quale particolare va ad osservare “ questo qui”, anziché soffermarsi e gioire sul grado di partecipazione pubblica, commozione e fede nei due eventi nediatici del momento: le nozze di William e Kate e la beatificazione di Giovanni Paolo II. Il particolare si riferisce, infatti, ai cumuli d’immondizia visti nelle strade di Roma in occasione della Beatificazione e quelli apparentemente inesistenti per le strade di Londra, entrambe affollatissime. Qualsiasi armento lungo il suo cammino lascia tracce non sempre piacevoli del suo passaggio, per cui non c’è da meravigliarsi se anche l’uomo si comporta parimenti. Ma mentre a Roma i rifiuti erano ben visibili dall’occhio indiscreto delle telecamere, a Londra dei rifiuti nemmeno l’ombra. Poiché, conoscendo l’uso e l’abuso che della birra fanno gli inglesi, non è pensabile che non fossero presenti tonnellate di lattine sparse qua e là, viene da pensare che le televisioni inglesi hanno consapevolmente omesso di metterle in evidenza, cosa che irresponsabilmente non è avvenuto in Italia. Anche se da un punto di vista pratico se i rifiuti ci sono e camminarci sopra non fa alcuna differenza, in mondovisione farli o non farli vedere fa una certa differenza. Possibile che le nostre emittenti non hanno la furbizia di nascondere agli occhi di chi sta lontano certe oscenità, anzi, quasi gongolano nell’ evidenziarle?
Pubblicata su La Sicilia il 10.05.2011 Saro Pafumi

venerdì 6 maggio 2011

Bin Laden da morto

Pare che il corpo di Bin Laden, dopo i funerali celebrati col rito islamico, sia stato gettato in mare. Speriamo che gli Americani abbiano calcolato l’esatta zavorra, perché se il corpo dovesse riaffiorare e trasportato dalle correnti approdare a Lampedusa, luogo ideale per lo sbarco degli extracomunitari, l’Italia si troverebbe in un bel guaio. Intanto, perché non lo si può rigettare in mare, dovendo rispondere in questo caso, secondo le leggi italiane, di vilipendio di cadavere, in secondo luogo perché nascerebbe il problema di come liberarsene. La Lega, com’è sua abitudine, direbbe che è un problema europeo, sbarrando tutti i cimiteri del Nord Italia. Il problema approderebbe perciò in Parlamento, dove le posizioni andrebbero in ordine sparso. Le sinistre, per fare un torto all’America, sosterrebbero di celebrare un degno funerale, seguito da un'altrettanta degna sepoltura, il terzo polo presenterebbe una mozione per il riconoscimento del cadavere da parte dei parenti, che però non possono farlo perché ricercati dall’Interpol fino alla settima generazione, L’Italia dei valori lo affiderebbe ai PM milanesi per processarlo, ed infine le forze di maggioranza, per non fare un torto alla Lega e in attesa che sulla vicenda si pronunzi la Commissione europea per i diritti dei rifugiati- morti, opterebbe per il congelamento del corpo. La vicenda naturalmente avrà la solita conclusione all’italiana. Qualcuno rapirà il cadavere. Come al solito si chiameranno in ballo i servizi segreti deviati e Bin Laden ritornerà ad essere il più ricercato morto del mondo. Intanto, per i musulmani, Bin Laden se la spassa in paradiso circondato da settantadue vergini, mentre in vita se l’è goduta con soldi, mogli, figli e potere. Quasi, quasi ci sarebbe da invidiarlo: è persino entrato nella storia. Cosa vorrebbe di più dalla vita e dalla morte? Potrebbe essere la trama per un film giallo. SARO PAFUMI.

giovedì 5 maggio 2011

V Comandamento: non uccidere

V Comandamento: Non uccidere.
La soppressione di Bin Laden voluta e ordinata dal Presidente degli Stati Uniti come si concilia col quinto comandamento: non uccidere”? La religione cattolica come si pone nei confronti di colui che coscientemente ordina e fa eseguire l’uccisione di una persona? Lo assolve, lo condanna o lo giustifica? In altre parole può un delitto commesso per ragion di Stato prevedere l’assoluzione del suo autore o mandante? La legge divina che vieta l’omicidio ha, infatti, valenza universale, obbliga tutti e ciascuno, sempre e dappertutto. Una domanda che mi pongo come cattolico, perché come cittadino non posso che condividere la decisione della soppressione di Bin Laden. La guerra con le sue inevitabili morti, sotto certi aspetti, si può giustificare, se non altro per la parte che la subisce, ma un delitto pianificato, perseguito e compiuto, con fredda determinazione, anche se portato a termine per evitare ulteriori più gravi conseguenze, può trovare giustificazione secondo la morale cristiana? Nell’immediatezza del fatto delittuoso, se alla difesa si accompagna l’uccisione del carnefice, siamo nel campo dell’autodifesa, ma trascorso un certo tempo si sconfina nella vendetta. Siamo nel caso in specie nell’ambito di un comportamento “cattolicamente lecito” che esula dall’osservanza del quinto comandamento? E ancora: un Capo di Sato (cattolico) che dovesse confessare questo suo “delitto” senza alcun pentimento potrebbe aspirare all’assoluzione dal suo Dio? Una domanda che mi pongo come cattolico, che riguarda l’inosservanza del quinto comandamento da parte di un cattolico, ovviamente.Pubblicata su La Sicilia il 06.05.2011 Saro Pafumi

martedì 3 maggio 2011

Dio salvi la Regina

Nell’anno duemilaundici mi chiedo come sia possibile la permanenza della monarchia in alcuni stati europei, con particolare riferimento a quello anglosassone che, tra i tanti, gode di privilegi fuori d’ogni logica contemporanea, per nulla scalfiti dal concetto d’uguaglianza introdotto dalla Rivoluzione francese. Si può obiettare che la monarchia inglese rappresenta il simbolo d’unita nazionale, come avviene da noi per l’elezione del Presidente della Repubblica che, se anche non è pura espressione della volontà popolare, almeno ha i crismi di democraticità nella rappresentanza parlamentare. Ma le differenze sono molte e sostanziali a cominciare dal diritto di discendenza e assegnazione dei titoli nobiliari che in Inghilterra nulla hanno di democratico, prescindendo persino dai meriti personali. Questa riflessione nasce dalla notizia che la Regina d’Inghilterra dopo le nozze nominerà William e Kate duca e duchessa di Cambridge che rappresenta il titolo più alto della nobiltà inglese e poi, come se ciò non bastasse sempre la Regina nominerà Villiam Conte di Stratheeam e Barone di Carrickferguse e Kate contessa di Stratheam e Baronessa di Carrickfergus. Poteri al cui cospetto impallidisce quello riconosciuto al nostro Presidente della Repubblica di nominare Cavalieri e Commentatori che in Inghilterra non potrebbero ambire neanche a ricoprire ruoli di maggiordomo a Casa reale. Ora, immaginiamo, in un simile contesto, la possibilità di nominare Carlo e Camilla, re e regina d’Inghilterra o Vittorio Emanuele quarto Re d’Italia, se da noi ci fosse stata la monarchia. I primi potrebbero ambire, al massimo a fare i rappresentanti di Tampax e il secondo a gestire una sala per slot machine. Ecco perché mi viene spontaneo pronunziare l’augurio: ” Dio salvi la Regina (e le monarchie) dal vilipendio del concetto d’uguaglianza”.
Pubblicata su La Sicilia il 03.05.2011
Saro Pafumi