Il nostro è un Paese nel quale è difficile riconoscersi. Non c’è settore della vita sociale che non abbia toccato il fondo, dall’economia alla morale, dalla politica alla religione, come se un virus invisibile e letale abbia colpito l’intero tessuto sociale. Forse anche in altre epoche storiche, più o meno remote, si è assistito ad un simile degrado, mai come nell’attuale momento storico. Oggi l’informazione è capillare, i mezzi tecnologici hanno forato le pareti domestiche e ciò che succede nella parte più recondita del mondo è portata a conoscenza con la velocità della luce, giacché la voce, le immagini e i suoni corrono via cavo o attraverso l’etere. Figuriamoci i fatti che avvengono a casa nostra: è come se accadessero tra le mura domestiche. Un martellamento mediatico continuo, persistente che stordisce, deprime, scoraggia anche chi è votato all’ottimismo. Gli avvenimenti sono descritti senza pudore o infingimenti, martellanti, ripetitivi, ossessivi, conditi di particolari macabri, con la crudezza con cui sono stati consumati. L’immagine sostituisce la notizia, l’intervista si trasforma in testimonianza, il processo, in spettacolo. Una recita corale, in cui i protagonisti, spogliandosi dei propri panni vestono quelli degli attori per interpretare una tragedia nazionale che non è finzione ma, purtroppo, realtà.
Il giudice si trasforma in carnefice, il politico in corrotto o di più, il religioso da apostolo a fedifrago. Ciascuno di questi protagonisti-attori scarrucola disinvoltamente dai propri ambiti, senza che ci sia un contrappeso che lo riporti nel suo alveo naturale. Un impazzimento sociale e generazionale che disgrega valori, certezze, affetti e contribuisce a creare quel caos in cui ciascuno perde la propria identità per rifugiarsi in quel mondo virtuale tanto caro ai giovani. E’ il momento in cui l’individualismo si affaccia nella nostra anima, l’egoismo guida le nostre azioni, la sfiducia sconfina nella rassegnazione e talvolta nella disperazione. Chi si appella alla normalità è ”vox clamans in deserto”, che nessuno ode. La Tv. non è più un contenitore di notizie, ma dispensatrice del marcio che ci circonda perchè intrisa essa del pessimismo che dilaga. Le notizie senza garbo e stile, gettati in faccia all’utente come sputi velenosi, annebbiandone pensieri e speranze.
In queste condizioni e con queste premesse, affermare che Il futuro non esiste non è un semplice concetto filosofico, ma lo stato d’animo che vivono migliaia di giovani intossicati dal crudo realismo di cui è intrisa la società tutta, che la Tv. contribuisce, ahimé, a rovesciare senza pudore. Forse per salvarci da questo tsunami che ci travolge non ci resta che guardare i cartoni animati.
Pubblicata su La Sicilia il 31.01.2011
Saro Pafumi
domenica 30 gennaio 2011
sabato 29 gennaio 2011
ETNA TRA NEVE E FUOCO
Nei giorni scorsi è bastato che l’Etna mostrasse il suo temperamento di fuoco con scintillanti cascate e getti incandescenti, perché i giornali nazionali se ne interessassero con articoli, foto e video. Segno evidente che l’Etna quando smette i panni della “montagna” per mostrarsi come “vulcano” l’interesse è generale. La peculiarità dell’Etna è il fuoco che ribolle al suo interno che di tanto in tanto vomita, dando il meglio di sé. Uno spettacolo che attira carovane di turisti, anche quando finisce di borbottare, perché essere stati sul più alto, grande e attivo vulcano d’Europa è un’impresa da raccontare.
Noi forse perché abituati a vivere con la terra che ci trema sotto i piedi e con il nero delle pietre che caratterizza paesaggio, il vulcano lo ignoriamo, preferendo ammirarlo con la sua camicia bianca. E’ sull’aspetto nevoso dell’Etna che la nostra attenzione si concentra, tralasciando la sua potenzialità turistica dal punto di vista paesaggistico e naturale, che non ha confronti col resto d’Europa. Dell’ Etna si parla esclusivamente nei mesi invernali, per denunziare la mancanza di neve o la possibilità di sciare, mentre in estate il disimpegno informativo è totale, Questo strano nostro modo di considerare la peculiarità dell’Etna m’induce a pensare che forse nella nostra Sicilia orientale abbiamo troppo: spiagge, città barocche, bellezze naturali, clima ideale. Del “vulcano”, autentico tesoro e fonte di richiamo se ne può fare a meno.
E’ il caso d’incominciare a pensare e ad organizzarci diversamente, perché se lo sport invernale che si pratica, non sempre possibile, tra cielo, mare e montagna è un’occasione unica, il vulcano, serbatoio di fuoco e palcoscenico di spettacoli suggestivi non ha confronti in tutta Europa.
Pubblicata su La Sicilia il 04/02/2011 Saro Pafumi
Noi forse perché abituati a vivere con la terra che ci trema sotto i piedi e con il nero delle pietre che caratterizza paesaggio, il vulcano lo ignoriamo, preferendo ammirarlo con la sua camicia bianca. E’ sull’aspetto nevoso dell’Etna che la nostra attenzione si concentra, tralasciando la sua potenzialità turistica dal punto di vista paesaggistico e naturale, che non ha confronti col resto d’Europa. Dell’ Etna si parla esclusivamente nei mesi invernali, per denunziare la mancanza di neve o la possibilità di sciare, mentre in estate il disimpegno informativo è totale, Questo strano nostro modo di considerare la peculiarità dell’Etna m’induce a pensare che forse nella nostra Sicilia orientale abbiamo troppo: spiagge, città barocche, bellezze naturali, clima ideale. Del “vulcano”, autentico tesoro e fonte di richiamo se ne può fare a meno.
E’ il caso d’incominciare a pensare e ad organizzarci diversamente, perché se lo sport invernale che si pratica, non sempre possibile, tra cielo, mare e montagna è un’occasione unica, il vulcano, serbatoio di fuoco e palcoscenico di spettacoli suggestivi non ha confronti in tutta Europa.
Pubblicata su La Sicilia il 04/02/2011 Saro Pafumi
sabato 22 gennaio 2011
Una giornata tipo
Ogni giorno sono costretto a svuotare la cassetta della posta, liberandola dai tanti volantini pubblicitari che fanno da tappo a quella normale. Il fenomeno s’intensifica in prossimità delle feste, perché più disposti a spendere. Accanto alla cassetta della posta ho collocato, perciò, un contenitore con su scritto “rifiuti pubblicitari” nella speranza che chi pratica volantinaggio si adegui al messaggio. Ogni mattina, pertanto, sono costretto a fare la raccolta differenziata della posta. Identico “rito liturgico” con la posta E-mail, inondata di messaggi poco graditi Si va dal tentativo di truffa, alle offerte di lavoro più stravaganti, come guadagnare 80 euro l’ora, che di questi tempi sarebbe come offrire una Ferrari a cento euro al mese. Ultimati i lavori mattutini è la volta del telefono, Dall’altro capo una voce rauca e suadente tesse l’elogio della Rivista dei Carabinieri, snocciolando una serie interminabile di successi e statistiche della “Benemerita”. La sottoscrizione dell’abbonamento ( beato chi ha mai visto arrivarne una casa) è la degna conclusione di un interminabile panegirico dell’Arma.
La risposta più scontata all’offerta, in questi casi è: un “vaffa……….” È il primo saluto “riverenziale” con il quale inizia la giornata.
Alle dieci è di scena il venditore di calze: un pacco da sei, mezze lunghe, euro dieci.
L’offerta si conclude, per fortuna, in pochi secondi, pronto come sono ad estrarre dal cassetto un set di calze analoghe acquistate tre anni prima.
All’ora di pranzo “mio cugino” Abdul, una tonnellata di tappeti in spalla, decanta la sua variopinta mercanzia: un maxi tappeto 4x8 “rigorosamente” fatto a mano. L’offerta scende gradatamente da 300 euro a 50 per capo, il che significa che continuando, mi aggiudico il tappeto a prezzo zero. All’insistenza marocchina, interminabile come la sabbia delle dune d’Erg Chebbi, fa da contro altare la fantasia sicula. “Che ne faccio di un tappeto 4x8, se abito in roulotte?" La risposta è un pugno allo stomaco di mio “cugino”Abdul che, mandando a quel paese la parentela si allontana, borbottando in berbero, in aramaico o in chissà che lingua.
Mezza giornata, intanto, è volata via. Domani si ricomincia. A proposito, quello che vende ombrelli ed accendini è un po’ che non lo vedo.
Pubblicata su La Sicilia il 25/01/2011
Saro Pafumi
La risposta più scontata all’offerta, in questi casi è: un “vaffa……….” È il primo saluto “riverenziale” con il quale inizia la giornata.
Alle dieci è di scena il venditore di calze: un pacco da sei, mezze lunghe, euro dieci.
L’offerta si conclude, per fortuna, in pochi secondi, pronto come sono ad estrarre dal cassetto un set di calze analoghe acquistate tre anni prima.
All’ora di pranzo “mio cugino” Abdul, una tonnellata di tappeti in spalla, decanta la sua variopinta mercanzia: un maxi tappeto 4x8 “rigorosamente” fatto a mano. L’offerta scende gradatamente da 300 euro a 50 per capo, il che significa che continuando, mi aggiudico il tappeto a prezzo zero. All’insistenza marocchina, interminabile come la sabbia delle dune d’Erg Chebbi, fa da contro altare la fantasia sicula. “Che ne faccio di un tappeto 4x8, se abito in roulotte?" La risposta è un pugno allo stomaco di mio “cugino”Abdul che, mandando a quel paese la parentela si allontana, borbottando in berbero, in aramaico o in chissà che lingua.
Mezza giornata, intanto, è volata via. Domani si ricomincia. A proposito, quello che vende ombrelli ed accendini è un po’ che non lo vedo.
Pubblicata su La Sicilia il 25/01/2011
Saro Pafumi
mercoledì 19 gennaio 2011
LO SFOGO DI UN PENSIONATO
Mi è capitato di ascoltare lo sfogo di un pensionato condannato a vivere con una pensione di 180 euro mensili. Mi chiedeva, tra l’ironico ed il sarcastico, di spiegargli come fosse possibile che la società, cosi detta civile, s’indignasse per i tagli alla scuola, all’università, alla cultura , alla ricerca, ma non spendesse una parola in favore di famiglie o individui costretti ad inventarsi il cibo per sopravvivere; come fosse possibile che la società, cosi detta civile, provasse pena per un cane randagio, ma non scorgesse le migliaia di clochard costretti a dormire coperti di cartoni; come fosse possibile che la società, così detta civile, si lamentasse del caro vita, le strade stracolte di spazzatura, segno evidente di un consumismo smodato ed irrefrenabile; come fosse possibile che la società, cosi detta civile, provasse fastidio nel vedere un accattone chiedere l’elemosina, ma non si accorgesse delle migliaia frugare furtivamente tra i rifiuti in cerca di qualcosa di commestibile; come fosse possibile che la società, così detta civile, protestasse se la propria pensione aumentasse solo del coefficiente ISTAT mentre al mio interlocutore gli era stata ridotta da 200 a 180 al mese.
Mentre i suoi occhi sollecitavano una risposta che tardava, la mia carità m’impediva di comunicargli il mio pensiero. Prova ad immaginare, gli risposi infine, per consolarlo, come possa vivere un burocrate con millequattrocento euro al giorno; prova ad immaginare quale lavoro usurante debba svolgere un personaggio televisivo che guadagna duecentocinquantamila euro a puntata; prova a pensare la fatica di un parlamentare che deve tenersi occupato cinque anni per avere la pensione. Prova ad immaginare di non pensare per continuare a vivere.
19.01.2011
Saro Pafumi
Mentre i suoi occhi sollecitavano una risposta che tardava, la mia carità m’impediva di comunicargli il mio pensiero. Prova ad immaginare, gli risposi infine, per consolarlo, come possa vivere un burocrate con millequattrocento euro al giorno; prova ad immaginare quale lavoro usurante debba svolgere un personaggio televisivo che guadagna duecentocinquantamila euro a puntata; prova a pensare la fatica di un parlamentare che deve tenersi occupato cinque anni per avere la pensione. Prova ad immaginare di non pensare per continuare a vivere.
19.01.2011
Saro Pafumi
domenica 16 gennaio 2011
DONN'AFFIU tremma-tremma
Ragazzino, mia madre mi mandava a fare la spesa “ ‘nda putia di Donn’Affiu “tremma-tremma”, a pochi passi da casa mia, dove si poteva trovare di tutto, disordine compreso. Cortese, generoso, dalla battuta facile divideva la fatica con la moglie e non trovava difficoltà a vendere, perché quella era l’epoca in cui si comprava a credito. Gli erano bastati pochi anni d’esperienza, però, per capire che vendere “ a cridenza” non era la strada migliore per fare affari, cosicché aveva deciso di eliminare tale pratica. Per reclamizzare il cambio di rotta aveva deciso di affiggere dietro il bancone due foto che ritraevano due differenti personaggi: il primo, un omone grande e grosso, rubicondo e ben vestito sotto la cui immagine si leggeva: io vendo in contanti. Accanto, altro personaggio magro e smunto, malvestito e con la barba incolta e la scritta: io vendevo a credito.
Era un sapiente modo di fare intendere che qualcosa era cambiato nel modo di vendere e i clienti invitati ad adeguarsi. Se, all’epoca, l’espediente avesse sortito effetti pratici non saprei, ma resta comunque la delicatezza espressiva di quel messaggio che sostituiva l’asprezza di certi moderni cartelli con su scritto: non si fa credito a nessuno. La gentilezza di un rifiuto talvolta disarma più di un imperativo, se spiegato nelle forme dovute e quel cartello con i personaggi raffigurati era un esempio di eloquenza espressiva. Donn’Affiu “tremma-tremma”, però, “sotto-sotto”, all’insaputa della moglie, un po’ di credito continuava a praticarlo, generoso com’era, ma badava a scegliere con oculatezza il cliente meritevole. Dopo anni di mestiere aveva capito che le promesse del cliente erano parole al vento, per cui era meglio farsi guidare dal proprio istinto. Per far questo aveva raffinato la sua capacità intuitiva studiando da capo a piedi il candidato meritevole. Convinto che si fosse, allargava generosamente i cordoni della borsa, sicuro di non prendere la “ gatta nel sacco”. A chi gli chiedeva quali fossero i requisiti per ottenere credito donn’Affiu “tremma-tremma” non si sbilanciava più di tanto, riluttante a confessare il suo segreto. Solo alla moglie che gli rimproverava la sua generosità, aveva confessato, per giustificarsi, la formula magica. “Vedi”, le disse un giorno, “devi fare attenzione ai piedi del cliente. Se calza scarponi annodati con la rafia è segno di miseria. E la miseria, ricordati, non va mai a braccetto con la disonestà.” Saggezza d’altri tempi.
Pubblicato su La Sicilia il 24.01.2011
Saro Pafumi
Era un sapiente modo di fare intendere che qualcosa era cambiato nel modo di vendere e i clienti invitati ad adeguarsi. Se, all’epoca, l’espediente avesse sortito effetti pratici non saprei, ma resta comunque la delicatezza espressiva di quel messaggio che sostituiva l’asprezza di certi moderni cartelli con su scritto: non si fa credito a nessuno. La gentilezza di un rifiuto talvolta disarma più di un imperativo, se spiegato nelle forme dovute e quel cartello con i personaggi raffigurati era un esempio di eloquenza espressiva. Donn’Affiu “tremma-tremma”, però, “sotto-sotto”, all’insaputa della moglie, un po’ di credito continuava a praticarlo, generoso com’era, ma badava a scegliere con oculatezza il cliente meritevole. Dopo anni di mestiere aveva capito che le promesse del cliente erano parole al vento, per cui era meglio farsi guidare dal proprio istinto. Per far questo aveva raffinato la sua capacità intuitiva studiando da capo a piedi il candidato meritevole. Convinto che si fosse, allargava generosamente i cordoni della borsa, sicuro di non prendere la “ gatta nel sacco”. A chi gli chiedeva quali fossero i requisiti per ottenere credito donn’Affiu “tremma-tremma” non si sbilanciava più di tanto, riluttante a confessare il suo segreto. Solo alla moglie che gli rimproverava la sua generosità, aveva confessato, per giustificarsi, la formula magica. “Vedi”, le disse un giorno, “devi fare attenzione ai piedi del cliente. Se calza scarponi annodati con la rafia è segno di miseria. E la miseria, ricordati, non va mai a braccetto con la disonestà.” Saggezza d’altri tempi.
Pubblicato su La Sicilia il 24.01.2011
Saro Pafumi
martedì 11 gennaio 2011
I PRESEPI DI INCORPORA
Ho avuto il piacere di visitare la mostra dei presepi di Salvatore Incorpora magistralmente incastonati nella mistica cornice della chiesa di San Francesco Borgia in Via Crociferi. Una piacevole passeggiata tra arte e spiritualità, dove navate, portici e presepi si fondono dando al visitatore la sensazione di sentirsi esso steso pastore tra i tanti scolpiti e colorati dall’Artista. Ogni tentativo di descrivere ciò che l’Artista regala al pubblico fa parte del corredo d’emozioni che ciascuno vive, ammirando le miriadi di personaggi che fanno da cornice a Gesù Bambino o rimanendo affascinato dalle innumerevoli soluzioni originali: pietre, custodie lignee, conchiglie dentro le quali i presepi sono pensati.
C’è una particolare emozione che ho colto leggendo sui vari manifesti murali, sapientemente spiegati qua e là per ricordare la vita virtuosa dell’Artista tra arte, tragedie vissute e quotidianità: il costante riferimento a Linguaglossa che lo ha accolto e fatto figlio della sua terra.
L’accostamento generoso e ripetuto del nome dell’Artista alla “sua” Linguaglossa, vista quest’ultima come motivo ed alimento della sua arte, aggiunge nel visitatore, che ne condivide l’appartenenza, una particolare emozione. Una volta tanto Linguaglossa, grazie all’arte di un suo figlio, riesce a varcare i confini ristretti della sua assonnata provincialità, per immergersi in un’area ben più vasta e sconfinata, quale l’arte riesce a dare.
Un paesino, Linguaglossa, che preso per mano dal Maestro Incorpora esce una volta tanto dall’ombra del suo anonimato.
Ciò che talvolta non sanno o possono dare al proprio paese i figli ivi nati. lo regalano quelli adottati nella cui schiera s’annovera il Maestro Incorpora. Di questo miracolo del destino Linguaglossa è o dovrebbe essere grata.
Pubblicato su La Sicilia il 12.01.2011 Saro Pafumi
C’è una particolare emozione che ho colto leggendo sui vari manifesti murali, sapientemente spiegati qua e là per ricordare la vita virtuosa dell’Artista tra arte, tragedie vissute e quotidianità: il costante riferimento a Linguaglossa che lo ha accolto e fatto figlio della sua terra.
L’accostamento generoso e ripetuto del nome dell’Artista alla “sua” Linguaglossa, vista quest’ultima come motivo ed alimento della sua arte, aggiunge nel visitatore, che ne condivide l’appartenenza, una particolare emozione. Una volta tanto Linguaglossa, grazie all’arte di un suo figlio, riesce a varcare i confini ristretti della sua assonnata provincialità, per immergersi in un’area ben più vasta e sconfinata, quale l’arte riesce a dare.
Un paesino, Linguaglossa, che preso per mano dal Maestro Incorpora esce una volta tanto dall’ombra del suo anonimato.
Ciò che talvolta non sanno o possono dare al proprio paese i figli ivi nati. lo regalano quelli adottati nella cui schiera s’annovera il Maestro Incorpora. Di questo miracolo del destino Linguaglossa è o dovrebbe essere grata.
Pubblicato su La Sicilia il 12.01.2011 Saro Pafumi
martedì 4 gennaio 2011
Linguaglossa e i suoi Artisti
Linguaglossa ha avuto da sempre con i suoi figli migliori ( Messina, Calì, Incorpora, quest’ultimo calabrese di nascita ma linguaglossese d’adozione) un rapporto alquanto travagliato. La vicenda Messina è forse la più rappresentativa, perché di quest’Artista Linguaglossa può vantare solo di avergli dato i natali. Della sua immensa produzione artistica Linguaglossa non possiede nulla. Lo stesso lodevole tentativo di dedicargli un museo è rimasto un pio desiderio e nell’immobile restaurato e destinato allo scopo aleggia solo il fantasma di F. Messina. Meglio di niente per chi crede negli spiriti.
Santo Calì’, linguaglossese verace, prematuramente scomparso, un poeta, un letterato che tutti c’invidiano, ha lasciato molte opere, ma molte di queste restano in attesa di pubblicazione, dimenticate da una società svogliata e miope che la cultura considera un peso di cui disfarsi. Messina e Calì restano in ogni modo affratellati dal destino di essere ricordati dalla solita lapide di travertino che ne onora la memoria.
Questa la misera dote che Linguaglossa ha riservato a questi suoi due nobili figli. Né Messina né Calì necessitano certo di essere sponsorizzati dal luogo natio, il primo avendo varcato i confini del mondo, il secondo universalmente apprezzato da chi della cultura fa il proprio mestiere. Ma resta in ogni modo la cicatrice che Linguaglossa ha inferto a questi suoi due figli.
Incorpora, da poco passato a miglior vita, ha lasciato un’infinità d’opere, esposte in vari musei o presso collezioni private. La maggior parte è gelosamente custodita dai figli che con sapienti iniziative di recente è generosamente portata a conoscenza del grande pubblico.
Certo sarebbe auspicabile che almeno di quest’Artista Linguaglossa conservasse la memoria, non solo con una piazza intestata a suo nome, ma concretamente con un museo che eternasse lo spirito della sua arte. Poiché si dice: “Non c’è due senza tre”, non vorremmo che anche quest’Artista, che molta parte della sua vita ha dedicato a Linguaglossa, alle sue chiese, alle sue strade, ci fosse “scippato” da chi con felice intuito e lungimiranza se ne potrebbe appropriare. Essere superstiziosi ci mette al riparo da una simile evenienza, anche se confidiamo nella promessa dei figli di regalare a Linguaglossa “il museo Incorpora”.
Dove mi auguro potrebbero convivere in felice armonia qualche opera di Messina “raccattata” qua e là ( perchè no anche in copia, come avviene in altri musei), le opere “tutte” di Santo Calì, e naturalmente le molte opere del Maestro Incorpora che Linguaglossa sente come già proprie ( eredi permettendo).
Un sogno, una speranza, una promessa? Molto dipende dai personaggi, pubblici e privati che si cimenteranno in questa scommessa che Linguaglossa non può perdere.
Pubblicato su La Sicilia 05.01.2011
Saro Pafumi
Santo Calì’, linguaglossese verace, prematuramente scomparso, un poeta, un letterato che tutti c’invidiano, ha lasciato molte opere, ma molte di queste restano in attesa di pubblicazione, dimenticate da una società svogliata e miope che la cultura considera un peso di cui disfarsi. Messina e Calì restano in ogni modo affratellati dal destino di essere ricordati dalla solita lapide di travertino che ne onora la memoria.
Questa la misera dote che Linguaglossa ha riservato a questi suoi due nobili figli. Né Messina né Calì necessitano certo di essere sponsorizzati dal luogo natio, il primo avendo varcato i confini del mondo, il secondo universalmente apprezzato da chi della cultura fa il proprio mestiere. Ma resta in ogni modo la cicatrice che Linguaglossa ha inferto a questi suoi due figli.
Incorpora, da poco passato a miglior vita, ha lasciato un’infinità d’opere, esposte in vari musei o presso collezioni private. La maggior parte è gelosamente custodita dai figli che con sapienti iniziative di recente è generosamente portata a conoscenza del grande pubblico.
Certo sarebbe auspicabile che almeno di quest’Artista Linguaglossa conservasse la memoria, non solo con una piazza intestata a suo nome, ma concretamente con un museo che eternasse lo spirito della sua arte. Poiché si dice: “Non c’è due senza tre”, non vorremmo che anche quest’Artista, che molta parte della sua vita ha dedicato a Linguaglossa, alle sue chiese, alle sue strade, ci fosse “scippato” da chi con felice intuito e lungimiranza se ne potrebbe appropriare. Essere superstiziosi ci mette al riparo da una simile evenienza, anche se confidiamo nella promessa dei figli di regalare a Linguaglossa “il museo Incorpora”.
Dove mi auguro potrebbero convivere in felice armonia qualche opera di Messina “raccattata” qua e là ( perchè no anche in copia, come avviene in altri musei), le opere “tutte” di Santo Calì, e naturalmente le molte opere del Maestro Incorpora che Linguaglossa sente come già proprie ( eredi permettendo).
Un sogno, una speranza, una promessa? Molto dipende dai personaggi, pubblici e privati che si cimenteranno in questa scommessa che Linguaglossa non può perdere.
Pubblicato su La Sicilia 05.01.2011
Saro Pafumi
Linguaglossa: gli antichi vespasiani all'aperto
Non ci sono città o paesi, piccoli o grandi che siano, che non abbiano avuto o hanno la loro zona di degrado urbano. Nei piccoli centri urbani, con l’avvento del progresso questi luoghi degradati sono andati via via scomparendo, ma rimangono nella memoria dei più adulti. A Linguaglossa fino agli anni cinquanta questi luoghi, urbanamente malsani, si potevano contare sulle dita di una mano: “ u ramazzino”, “ arreri a matrici”, “ a vanedda cicchittu”, com’erano volgarmente chiamati Erano luoghi assai frequentati per comprensibili ragioni, in un’epoca in cui i vespasiani, inventati dall’imperatore romano che ne ha dato il nome, non erano molto diffusi e quei pochi esistenti erano letteralmente inaccessibili per ovvie ragioni d’igiene e pulizia, ad onta di una certa “Enna a babba” che “scopa e catino “ in mano, il massimo dei mezzi igienici allora conosciuti, era incaricata di portare ordine e pulizia.
Una secchiata d’acqua e una ripassata con la scopa erano quel che oggi si chiama “mastrolindo” con le conseguenze igieniche facile da immaginare.
Comprensibile perciò che “i più” preferivano indirizzare le loro scelte all’aria aperta, ove le necessità corporali si potevano soddisfare sotto il cielo stellato e certamente senza quegli
effluvi sgradevoli che erano il condimento odoroso di quasi tutti i vespasiani. “Alleggerirsi il corpo” era allora una pratica che si faceva di solito in compagnia, retaggio questo delle antiche usanze romane per le quali le “latrine foriche”, costituite da basamenti in pietra su cui erano posti i sedili l’uno accanto all’altro, erano vere sale di riunione, dove tra una conversazione e l’altra, secondo l’immediatezza con la quale rispondeva il corpo, stitichezza permettendo, si consumava un quarto della vita in amena compagnia o in ossequio a quell’antico detto: “ aiu giratu u munnu sanu e mai aia vistu pis…..ri sulu un sicuilianu”.
“ U ramazzino”, “arreri a matrici”, “a vanedda cicchittu” erano perciò i luoghi idonei per questa sana attività corporale, dove non c’erano i doppi servizi, l’acqua calda, i “rotoloni regina” e il sapone di Marsiglia, ma le mani, qualche foglio di carta raccattato qua e là o le immancabili foglie delle varie piante spontanee che fertilizzate e rigogliose nascevano finanche sui muri.
Oggi per fortuna “il bagno” come eufemisticamente è chiamato il gabinetto è diventato la parte più curata delle abitazioni moderne e gli accessori si sprecano. Anche gli esercizi pubblici si sono adeguati, anche se alcuni, in certi casi, fanno venire la nostalgia “ddu ramazzinu, o a “vanedda cicchittu”. dove non s’era obbligati “a consumare”, ma stando “comodamente”rannicchiati si poteva persino cantare in assoluta libertà, perché quello che interessava fare era “l’atto grande”. Almeno sotto quest’aspetto, un certo progresso è stato realizzato, anche se per le strade resta molto da fare.
Pubblicato su La Sicilia il 07/01/2011 Saro Pafumi
Una secchiata d’acqua e una ripassata con la scopa erano quel che oggi si chiama “mastrolindo” con le conseguenze igieniche facile da immaginare.
Comprensibile perciò che “i più” preferivano indirizzare le loro scelte all’aria aperta, ove le necessità corporali si potevano soddisfare sotto il cielo stellato e certamente senza quegli
effluvi sgradevoli che erano il condimento odoroso di quasi tutti i vespasiani. “Alleggerirsi il corpo” era allora una pratica che si faceva di solito in compagnia, retaggio questo delle antiche usanze romane per le quali le “latrine foriche”, costituite da basamenti in pietra su cui erano posti i sedili l’uno accanto all’altro, erano vere sale di riunione, dove tra una conversazione e l’altra, secondo l’immediatezza con la quale rispondeva il corpo, stitichezza permettendo, si consumava un quarto della vita in amena compagnia o in ossequio a quell’antico detto: “ aiu giratu u munnu sanu e mai aia vistu pis…..ri sulu un sicuilianu”.
“ U ramazzino”, “arreri a matrici”, “a vanedda cicchittu” erano perciò i luoghi idonei per questa sana attività corporale, dove non c’erano i doppi servizi, l’acqua calda, i “rotoloni regina” e il sapone di Marsiglia, ma le mani, qualche foglio di carta raccattato qua e là o le immancabili foglie delle varie piante spontanee che fertilizzate e rigogliose nascevano finanche sui muri.
Oggi per fortuna “il bagno” come eufemisticamente è chiamato il gabinetto è diventato la parte più curata delle abitazioni moderne e gli accessori si sprecano. Anche gli esercizi pubblici si sono adeguati, anche se alcuni, in certi casi, fanno venire la nostalgia “ddu ramazzinu, o a “vanedda cicchittu”. dove non s’era obbligati “a consumare”, ma stando “comodamente”rannicchiati si poteva persino cantare in assoluta libertà, perché quello che interessava fare era “l’atto grande”. Almeno sotto quest’aspetto, un certo progresso è stato realizzato, anche se per le strade resta molto da fare.
Pubblicato su La Sicilia il 07/01/2011 Saro Pafumi
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