domenica 28 luglio 2013
Non potere programmare il futuro crea nei giovani disabilità mentale
Sarebbe opportuno abolire dal vocabolario due avverbi: “si” e “no” che in genere sono usati per esprimere affermazione o negazione nelle risposte, sostituendoli con un secco “forse” che li raggrupperebbe entrambi. Il perché dell’innovazione? In quest’epoca d’inganni non esiste alcuna certezza, intesa come parola data, come puntualità, come interpretazione di una norma, come evento certo. Questa incertezza quotidiana comprende quasi tutte le azioni umane. Per dirla con Lorenzo de’ Medici: “ Chi vuol essere lieto, sia: di doman non c’è certezza”. Purtroppo però il Medici lo scrisse nella seconda metà del quattrocento e si riferiva al futuro. Oggi l’incertezza riguarda anche il presente e abbraccia tutto: lavoro, pensione, tasse, diritti, ideali, speranze. L’affermazione o la negazione sono sempre accompagnate dal beneficio d’inventario. Il dubbio è diventato ragione di vita, lo scetticismo la stella popolare di ogni azione umana. Il cervello umano è un frullatore di interrogativi, dove i si e i no si mescolano formando una melassa d’incertezze che crea disagio, scoramento, disistima Non potere programmare genera disabilità mentale, specialmente nei giovani che vivono la loro condizione come un buco nero, una stagione senza tempo. Senza poter programmare il proprio destino, la vita si riduce a semplice attesa che è diventata la principale occupazione dei giovani, il mestiere per vivere o più correttamente per sopravvivere. Questa triste condizione di vita che abbiamo regalato ai nostri figli, fa si ch’essi siano risucchiati nel gorgo della delusione, dove ogni attimo perduto nell’attesa è un attimo di felicità sprecato, un sogno infranto, una speranza sprecata. Abbiamo rubato ai nostri figli il diritto di credere nel tempo: il futuro. “Forse un mattino andando in un’aria di vetro arida, rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo: il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro di me…..” Chissà se Montale nel comporre questa splendida poesia pensava ai giovani d’oggi. Saro Pafumi
domenica 21 luglio 2013
" L'arte" di liberarsi dei rifiuti
In un modo o nell’altro questa benedetta spazzatura bisogna pur smaltirla. Raramente il servizio di raccolta funziona e così ciascuno ha un proprio modo di disfarsene. La fantasia non manca in queste circostanze, perché la sola visione del nero sacchetto, che puzzolente dev’essere, non invita a positive considerazioni. In primo luogo perché al suo interno ci sono i resti del nostro smodato consumismo, che troppo spesso si tramuta in odiosa obesità, o il necessario frutto dei nostri sacrifici quotidiani, che si dissolvono in spregevoli, effimeri rifiuti. Occorre disfarsene, ma la celerità del desiderio del suo smaltimento è inversamente proporzionale al servizio di raccolta. Dalla necessità di stare meglio e progredire o qualche volta, purtroppo, di regredire, nascono le idee. Ciascuno ha il proprio metodo collaudato e ripetitivo. C’è chi deposita il sacchetto vicino alla porta del condomino accanto, anziché alla propria, quasi a volerne marcare la distanza; c’è chi lo porta con sé in auto e alla prima curva , non visto, lo lancia dal finestrino verso una destinazione sconosciuta, come un’offerta d’aiuto verso chi soffre, conservando l’anonimato; c’è chi ha un preciso obiettivo, un personale centro di raccolta alla periferia cittadina che col tempo si trasforma in discarica collettiva; c’è chi da buon samaritano lo offre all’inconsapevole contadino di campagna, perché i frutti del suo fondo abbiano il fecondo apporto del suo spontaneo contributo; c’è chi amante degli animali preferisce che il sacchetto col suo contenuto abbia una funzione evangelica: sfamare gli affamati, c’è, infine, chi tradisce il suo odio verso l’effimero, l’inutile, l’inservibile, sfoggiando tutta la sua crudeltà: “L’impiccagione” del sacchetto alla ringhiera del balcone, dove per giorni “il messaggio penzolante” che si vuol dare è la metafora dell’inefficienza, dell’abbandono. Un’espressione artistica molto ricercata dai turisti, che nella sua fredda rappresentazione scorgono una new body art popolare dai variopinti colori, perché ciascuno in questa rappresentazione immateriale v’inserisce un proprio stile, dal tipo di corda , al colore del sacchetto, dal tipo di nodo, all’olezzo che caratterizza i gusti familiari. Ma quel nero sacchetto, più di tutti, rappresenta il nostro modo di essere , di vivere, di agire, forse la nostra stessa coscienza sporca, che si cerca di cacciare il più lontano possibile, che inesorabilmente ci torna in faccia o ci pende sul capo. Inesorabilmente, perennemente come la nostra inciviltà che ci marchia a sangue. Pubblicata su La Sicilia il 21.07.2013.Saro Pafumi
lunedì 8 luglio 2013
L'individualismo cinico con cui viviamo
L’individualismo cinico con cui conviviamo
Spesso mi chiedo cosa significhi amare il proprio paese. Rispettare l’ambiente, mantenerne l’equilibrio, conservarne le tradizioni, parlare il linguaggio dei propri padri? E’ sufficiente tutto ciò, se questa condotta, pur doverosa, tralascia lo sviluppo della comunità in cui si vive, impedendone il progresso? A volte capita. Quando capita, bisogna interrogarsi se le ragioni di un mancato sviluppo siano imputabili a ragioni obiettive o manchi qualcosa nell’animo umano, che pregiudichi tale sviluppo. Linguaglossa è un esempio, dove il tempo pare si sia fermato a mezzo secolo addietro, con l’aggravante che la dote lasciataci da chi ci ha preceduto, con opere e azioni, è stata corrosa più che dall’inesorabile trascorrere del tempo, dall’apatia di chi è venuto dopo. Purtroppo Linguaglossa non è la sola, basta girare lo sguardo attorno. Spesso una persona si distingue per l’abito che indossa, che, se pur passato di moda, ma dignitoso, conserva la sua insita eleganza, ma se le toppe aggiunte nel tempo o qualche sgualcitura ne inficiano l’originaria forma non è l’abito che perde valore, ma chi lo indossa. Il territorio, nel suo insieme, è l’abito della comunità che ci vive dentro. Preservarlo e conservarlo è un dovere, ma renderlo più fruibile e seducente è un obbligo verso chi ci ha preceduto, ma ancor di più verso noi stessi. Lo sforzo di una qualsiasi comunità d’anime deve essere proiettato a migliorare se stessi, non a vivere di rendita o peggio ancora a sciupare la dote tramandataci. Purtroppo, in certe realtà, il passaggio dall’apatia all’ignavia è breve. Quando una comunità ne resta coinvolta, rischia di annebbiare le proprie facoltà intellettive, scambiando il benessere proprio in neutralità, che impedisce di decidere e progredire. L’individualismo esasperato che caratterizza il mondo moderno finisce con lo svilire il concetto di comunità, secondo cui ciò che non ci appartiene in senso stretto, non è meritevole d’interesse o di tutela. Da qui il lento inesorabile declino di ciò che ci sta attorno, come se appartenesse a un mondo che non ci appartiene. Mi viene in mente una frase di Cicerone quando allude allo zoppo che gioca a palla, incapace di correre e rimandarla, ma solo disposto a ritenerla. E’ come se fossimo tutti zoppi in quest’epoca d’individualismo cinico e smodato e le comunità tutte ne risentono. Saro Pafumi 08.07.2013
Spesso mi chiedo cosa significhi amare il proprio paese. Rispettare l’ambiente, mantenerne l’equilibrio, conservarne le tradizioni, parlare il linguaggio dei propri padri? E’ sufficiente tutto ciò, se questa condotta, pur doverosa, tralascia lo sviluppo della comunità in cui si vive, impedendone il progresso? A volte capita. Quando capita, bisogna interrogarsi se le ragioni di un mancato sviluppo siano imputabili a ragioni obiettive o manchi qualcosa nell’animo umano, che pregiudichi tale sviluppo. Linguaglossa è un esempio, dove il tempo pare si sia fermato a mezzo secolo addietro, con l’aggravante che la dote lasciataci da chi ci ha preceduto, con opere e azioni, è stata corrosa più che dall’inesorabile trascorrere del tempo, dall’apatia di chi è venuto dopo. Purtroppo Linguaglossa non è la sola, basta girare lo sguardo attorno. Spesso una persona si distingue per l’abito che indossa, che, se pur passato di moda, ma dignitoso, conserva la sua insita eleganza, ma se le toppe aggiunte nel tempo o qualche sgualcitura ne inficiano l’originaria forma non è l’abito che perde valore, ma chi lo indossa. Il territorio, nel suo insieme, è l’abito della comunità che ci vive dentro. Preservarlo e conservarlo è un dovere, ma renderlo più fruibile e seducente è un obbligo verso chi ci ha preceduto, ma ancor di più verso noi stessi. Lo sforzo di una qualsiasi comunità d’anime deve essere proiettato a migliorare se stessi, non a vivere di rendita o peggio ancora a sciupare la dote tramandataci. Purtroppo, in certe realtà, il passaggio dall’apatia all’ignavia è breve. Quando una comunità ne resta coinvolta, rischia di annebbiare le proprie facoltà intellettive, scambiando il benessere proprio in neutralità, che impedisce di decidere e progredire. L’individualismo esasperato che caratterizza il mondo moderno finisce con lo svilire il concetto di comunità, secondo cui ciò che non ci appartiene in senso stretto, non è meritevole d’interesse o di tutela. Da qui il lento inesorabile declino di ciò che ci sta attorno, come se appartenesse a un mondo che non ci appartiene. Mi viene in mente una frase di Cicerone quando allude allo zoppo che gioca a palla, incapace di correre e rimandarla, ma solo disposto a ritenerla. E’ come se fossimo tutti zoppi in quest’epoca d’individualismo cinico e smodato e le comunità tutte ne risentono. Saro Pafumi 08.07.2013
giovedì 4 luglio 2013
I Domenicani a Linguaglossa
Sarà perché sono affetto da nostalgia, intesa non come dolore del passato, ma come angoscia del presente, che mi è difficile rassegnarmi all’idea che la Casa San Tommaso, più nota come Collegio dei PP. Domenicani di Linguaglossa, sia lasciata al suo destino. Un’opera imponente, realizzata grazie alla caparbietà dei Padri fondatori e con l’ausilio economico dei nostri compaesani emigrati, che hanno creduto e voluto l’opera. Per circa mezzo secolo fucina di cultura e di educazione civica, dove l’insegnamento era una missione e l’apprendimento, un privilegio. Due generazioni di giovani, che ivi hanno trovato le loro radici culturali, in cerca di mete, che i più hanno realizzato con successo. Poi, col declino culturale delle sue origini, seguì un languido tentativo di conversione in attività residenziale, camuffata da iniziative pseudo turistiche, fino a diventare il sepolcro di se stessa, quale oggi è. Purtroppo il destino dell’’ex Collegio, appartenente all’ordine dei PP. Domenicani, è in quel di Napoli, nelle mani di chissà quali organi decisionali. Il disimpegno culturale, affettivo e materiale in cui oggi versa l’opera non è solamente la premessa della sua ineludibile distruzione, ma il tradimento dello spirito che l’ha originata. L’attuale chiusura del plesso suona offesa ai Padri fondatori, a quanti hanno contribuito a realizzarla, ai maestri di vita che vi hanno insegnato, ai tanti giovani che ivi si sono forgiati culturalmente, alla cittadinanza di Linguaglossa, al territorio circostante, allo stesso Ordine Domenicano, che in San Tommaso d’Aquino ha il proprio dottore della Chiesa. Poiché il decorso del tempo, congiunto al disinteresse, non è elemento di conservazione, ma di distruzione, sarebbe giudizioso che Linguaglossa, rappresentata dalle sue autorità, facesse sentire la sua voce. Questo grido angosciato, di chi ivi ha forgiato la sua formazione di vita, lo devo prima ancora che a me stesso, ai miei insegnanti, alla loro memoria, al loro sacrificio. Mi consolerebbe vedere aperta anche solamente una delle tante finestre che si aprono sul cortile del Collegio. Immaginerei che al suo interno vi scorra ancora la vita, scacciando l’idea funesta che oggi vi alberghino solamente i fantasmi del passato. Pubblicata su La Sicilia il 04.07.2013. Saro Pafumi.
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