venerdì 28 ottobre 2011
Strada Costa ancora Chiusa. Chi sa parli
La domanda nasce spontanea: “Quando sarà percorribile la strada “Costa"? quella che dovrebbe collegare Linguaglossa a Castiglione, annoverata, per i costi, tra i guinness dei primati? Tempo addietro leggevo da qualche parte che il ritardo della sua apertura era imputabile a frane e/o smottamenti verificatisi nel versante di Castiglione. Da allora, sono passati circa due anni, oltre ai venti e più dall’inizio dell’opera e di apertura al pubblico non se ne parla. Una strada nata asfittica fin dal suo sorgere a causa di veti irragionevoli, aspirazioni galattiche, spese faraoniche e realizzazione inconcludente. Un cocktail di scelte sbagliate che ha sperperato una montagna di soldi, oggetto di derisione dalla stampa nazionale (La Repubblica). Non sorprende nessuno che un’opera iniziata non sia completata: è “lo stile Italia”. Quel che sorprende è il silenzio delle autorità comunali di Linguaglossa e Castiglione, come se la mancata realizzazione non le riguardasse. Informare di tanto in tanto i cittadini sulle opere in corso e talvolta sulle cause dei ritardi sarebbe una buona prassi da adottare, perché amministrare, significa anche informare. E su questo versante le amministrazioni tutte non brillano certo d’efficienza. Vorrà qualcuno prendersi la briga di rendere edotti i cittadini sulla questione o dobbiamo rassegnarci ad attendere come se la richiesta di notizie fosse una grazia, anziché un dovere? Pubblicata su La Sicilia il 27.10.2011 Saro Pafumi
domenica 9 ottobre 2011
La Mereneve ostaggio di vacche e motociclisti
La Mereneve che da Linguaglossa conduce a Piano Provenzana c’è in atto un’insolita gara tra i motociclisti che la percorrono a forte velocità e le vacche che si mettono di traverso, quasi in segno di protesta per quel territorio che è diventato un loro terreno di conquista. Chi dei due contendenti vincerà la singolar tenzone non è dato sapere: di certo a uscire sconfitti da quest’insolita sfida sono quei poveri automobilisti costretti, per motivi di lavoro, a percorrerla quotidianamente stretti in una morsa tra esseri irrazionali. Non vorrei azzardare ipotesi nefaste, perché il tratto di strada è purtroppo conosciuto in tal senso. Vorrei piuttosto richiamare l’attenzione di chi è preposto ai controlli di sceglier chi tra le due irriducibili entità, vacche o motociclisti, debba avere la precedenza. Sperare che qualcuno di questi contendenti rinsavisca è speranza vana: le vacche perché non sono esseri razionali, i motociclisti perché la razionalità l’hanno perduta. Il rimedio potrebbe venire dalle “forze dell’ordine”, ma pare che su questo versante mancano “ le forze” e pure “l’ordine” o comunque non sono adeguate. Non ci resta che il Padreterno, ma possibile che dobbiamo confidare in “Colui che tutto move o ( in questo caso) “rimove”? Saro Pafumi
mercoledì 5 ottobre 2011
Al Sud il lavoro è un obolo
Con gli occhi umidi d’incipiente pianto da farli apparire due perle di luce e un filo di voce che tradiva la sua emozione, mi comunicò le ragioni della sua gioia: “ Finalmente, dopo tanto “chiedere” ho trovato un benefattore che mi ha assunto come apprendista- manovale”. Quel “ chiedere” fu un pugno nello stomaco, perché aveva il significato di chi riceve qualcosa come elemosina e considerare il lavoro un obolo non mi fu facile. Turiddittu, come lo chiamavamo affettuosamente in paese, esile com’era, quasi trasparente, aveva ben d’onde d’essere felice. Per lui che aveva perduto tragicamente il padre-padrone e primo di altri quattro fratelli che, messi insieme , non raggiungevano vent’anni, quel lavoro non era un obolo ma un’autentica ricchezza, perché se è vero che s’era liberato, si fa per dire, dalle angherie paterne, per lui, quell’uomo, restava “padre”, come è chiamato chi porta il pane a casa. “Cinquecento euro al mese, un milione di vecchie lire” aggiunse, forse per fare apparire la paga più sostanziosa. Feci una carrellata mentale tra i giovani di mia conoscenza che avevano pressappoco la stessa età di Turiddittu, scoprendo che nessuno lavorava. “ Sei fortunato” gli dissi, masticando quel “ fortunato” per farlo apparire quasi incomprensibile. “ Trovare lavoro alla tua età”, aggiunsi non so se per felicitarmi o per consolarlo “ti porta lontano, ti tempra, ti responsabilizza” “Al momento” mi rispose “ il mio unico problema è aiutare mia madre a potere mettere “ a pignata supra u focu” mi disse con una vena d’infantile spavalderia, cogliendo sul suo volto l’espressione di chi, senza saperlo, diventa improvvisamente uomo. “Scoprire la felicità sul volto di un ventenne che trova lavoro come apprendista- manuale è una felicità che può assaporare solamente chi abita al Sud” pensai, amaramente, mentre Turiddittu, raggiante, si allontanava, per iniziare la sua prima giornata di lavoro. Pubblicato su La Sicilia il 07/10/2011 Saro Pafumi.
domenica 2 ottobre 2011
Fatica e povertà dietro il rito nostalgico della vendemmia
Isammu! L’ordine impartito col tono di un comandante d’armata che il capo rivolgeva ai “ cuffari”, che l’uva trasportavano a spalla al palmento. Una ciurma di disperati che al tempo della vendemmia trasmigrava, come transumanza umana, dai paesi peloritani alle pendici dell’Etna, un tempo verdeggianti di vigneti. Giovani che nelle braccia avevano la forza e nel cuore la disperazione. A Linguaglossa, ricordo, sostavano nella piazza principale del paese, dove la notte avevano il pavimento per giaciglio, la coffa come cuscino e pochi panni per ripararsi dal freddo che nel mese di ottobre le ossa penetrava, pungente.
All’alba il Capo radunava la ciurma che, a piedi, come formiche in fila, raggiungeva le alture dove la vendemmia aspettava che il rito della fatica si consumasse.
Non un solo chicco d’uva doveva andare perduto e se qualche grappolo si sgranellava, i chicchi bisognava raccoglierli uno a uno sotto lo sguardo vigile e minaccioso del massaro, Quando le coffe erano colme il capo ciurma gridava;: “ Isammu!” e la fila d’uomini, carica d’uva, si snodava lentamente, come un millepiedi, fino al palmento, dove l’uva era rovesciata ai piedi de“ i pistaturi” che attendevano. Su una verga di castagno il capo ciurma, intanto, incideva col coltello una tacca per ogni viaggio.
A colazione, per “cumpanaggiu”, due sarde salate che ognuno disponeva sopra una fetta di pane casereccio, dopo averle liberate dal sale, ma non dalle lische, chè alimento anch’esse erano. Giusto il tempo di riposarsi, ché cibo quello non era e, “coffa in spalla” di nuovo nel vigneto.
A mezzo giorno la ciurma si radunava nel baglio per il pasto principale: un peperone arrostito appeso al suo gambo come un impiccato passava dalle mani del massaru a quelle del cuffaru che doveva farlo bastare. Olio per condirlo? Nemmeno l’ombra, ma sale a volontà per renderlo meno insipido.
Alla fine della giornata se la ciurma trovava ricovero nell’azienda “pani schittu” per cena, Ma era il suono della fisarmonica che riempiva lo stomaco, accompagnato dalle nenie di chi ancora aveva fiato da sprecare. Se il padrone era generoso, il massaro offriva ai cuffari un’Alfa, il cui aroma si confondeva con l’aria impastata del dolce odore del mosto.
Quando i mozziconi uno dopo l’altro si spegnevano, passata la notte su di un giaciglio di paglia, una nuova fatica li attendeva il giorno dopo e un’unica certezza: ritrovare due sarde salate e un peperone arrostito per “cumpanaggiu”. Saro Pafumi
All’alba il Capo radunava la ciurma che, a piedi, come formiche in fila, raggiungeva le alture dove la vendemmia aspettava che il rito della fatica si consumasse.
Non un solo chicco d’uva doveva andare perduto e se qualche grappolo si sgranellava, i chicchi bisognava raccoglierli uno a uno sotto lo sguardo vigile e minaccioso del massaro, Quando le coffe erano colme il capo ciurma gridava;: “ Isammu!” e la fila d’uomini, carica d’uva, si snodava lentamente, come un millepiedi, fino al palmento, dove l’uva era rovesciata ai piedi de“ i pistaturi” che attendevano. Su una verga di castagno il capo ciurma, intanto, incideva col coltello una tacca per ogni viaggio.
A colazione, per “cumpanaggiu”, due sarde salate che ognuno disponeva sopra una fetta di pane casereccio, dopo averle liberate dal sale, ma non dalle lische, chè alimento anch’esse erano. Giusto il tempo di riposarsi, ché cibo quello non era e, “coffa in spalla” di nuovo nel vigneto.
A mezzo giorno la ciurma si radunava nel baglio per il pasto principale: un peperone arrostito appeso al suo gambo come un impiccato passava dalle mani del massaru a quelle del cuffaru che doveva farlo bastare. Olio per condirlo? Nemmeno l’ombra, ma sale a volontà per renderlo meno insipido.
Alla fine della giornata se la ciurma trovava ricovero nell’azienda “pani schittu” per cena, Ma era il suono della fisarmonica che riempiva lo stomaco, accompagnato dalle nenie di chi ancora aveva fiato da sprecare. Se il padrone era generoso, il massaro offriva ai cuffari un’Alfa, il cui aroma si confondeva con l’aria impastata del dolce odore del mosto.
Quando i mozziconi uno dopo l’altro si spegnevano, passata la notte su di un giaciglio di paglia, una nuova fatica li attendeva il giorno dopo e un’unica certezza: ritrovare due sarde salate e un peperone arrostito per “cumpanaggiu”. Saro Pafumi
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